Un mosaico di comunità, dagli ucraini ai gagauzi foraggiati da Ankara. Un parlamento filo-Ue e un presidente russofilo. L’influenza della Romania ma il russo come lingua franca. L’economia però oscilla sempre più verso ovest. E per il Paese più povero d’Europa conta parecchio
Un doganiere svogliato riconsegna i passaporti e con un cenno distratto della mano fa alzare la sbarra che blocca la strada. Appena oltre il confine, si aprono scorci di una campagna ondulata da basse colline, solo di tanto in tanto si scorge un gruppo di case o una chiesa ortodossa. Non sono molte le differenze che saltano all’occhio una volta entrati in Moldavia dalla frontiera romena di Albiţa; il paesaggio, la lingua, perfino le bandiere sono pressoché gli stessi.
Nonostante le dimensioni ridotte ed una popolazione che non arriva ai 4 milioni di abitanti, la Moldavia è un Paese che ben riassume le complessità linguistiche, storiche e inter-comunitarie di molte aree dell’Europa orientale. Nell’ultimo secolo, questo lembo di terra ha subìto pressioni esterne da entrambi i confini: Romania da ovest, mondo russo da est. Questa sorta di dicotomia – che oggi è riscontrabile nelle due lingue più utilizzate nel Paese, moldavo e russo – è figlia di due secoli di dominazioni esterne: dal 1812 al 1918 l’attuale Moldavia fu parte dell’impero zarista russo, dal 1918 al 1944 della Grande Romania, mentre dal 1944 al 1991 è stata una Repubblica Socialista Sovietica sotto i colori dell’URSS.
È proprio la questione della lingua uno dei nodi da sciogliere ancora oggi per la Repubblica, che, stando agli atti, ha una ed una sola lingua ufficiale: il moldavo, dichiarato uguale al romeno anche da una legge del Parlamento nel 2003. L’idioma neolatino, però, non è parlato né molto spesso compreso dalle diverse comunità minoritarie che abitano il Paese.
“Non ritengo la parola minoranza corretta, siamo tutti cittadini moldavi”. A parlare è Serghei Filipov, sindaco di Taraclia, un capoluogo di provincia dove la maggioranza della popolazione è bulgara. La provincia di Taraclia, tuttavia, non è che un piccolo tassello del mosaico comunitario di cui si compone il Paese. Al 75% della popolazione che nel censimento del 2014 si auto-dichiara moldavo, si affianca un 7% di romeni, un 6,6% di ucraini, un 4,6% di gagauzi, un 4,1% di russi, un 1,9% di bulgari e uno 0,3% di rom. Questi dati non considerano inoltre il quasi mezzo milione di transnistri, abitanti di quella striscia di terra racchiusa tra il fiume Dnestr e il confine ucraino, che costituisce una Repubblica non riconosciuta dalla comunità internazionale, figlia di un breve conflitto nel 1992. Questo caleidoscopio di comunità minori, sebbene presenti bandiere e storie diverse, è accomunato dal russo, una sorta di “lingua delle minoranze” in alternativa alla maggioranza rumenofona.
Sebbene infatti non venga considerata lingua ufficiale, il russo viene parlato dalle minoranze russofone, bulgare e gagauze, e campeggia in maniera capillare tra cartelloni stradali, insegne e pubblicità, anche tra le strade della capitale Chisinau. Una lingua per la comunicazione interetnica che viene utilizzata a scopo veicolare nelle istituzioni e nelle scuole.
“Abbiamo iniziato ad auto-finanziarci gli asili in lingua moldava in modo tale che i nostri bambini fin da piccoli si abituino alla lingua di Stato. Stando ai programmi di Chișinău, i bambini sentono la prima parola in moldavo solo quando arrivano in prima elementare, troppo tardi”, continua Filipov. A Taraclia i riflettori non sono puntati esclusivamente sulle carenze scolastiche: “Parliamo tanto di integrazione, di difesa dei diritti delle minoranze, ma tra 25 anni non ci sarà più nulla da difendere. I nostri ragazzi dopo la scuola se ne vanno in Transnistria, in Russia o in Bulgaria. Di 100 che se ne vanno tornano in 5-6. Quindi chi difenderemo tra 20-25 anni?”, si domanda sconsolato il sindaco.
A una manciata di chilometri dal cartello d’ingresso bianco-rosso-verde (colori della bandiera bulgara) del distretto di Taraclia, esiste un’altra regione decisamente più popolosa e esigente nelle proprie richieste al governo centrale. È la Gagauzia, area abitata soprattutto dai gagauzi, turcofoni di religione ortodossa, giunti in Bessarabia a inizio Ottocento per scappare dalle rappresaglie ottomane causate della loro fede ortodossa. Contrariamente ai bulgari, i gagauzi all’indomani della dissoluzione dell’Urss proposero un modello di stato federale formato da tre entità: un’entità moldava, una gagauza e una transnistra. L’idea, bocciata da Chisinau, si convertì poi nello status di autonomia speciale concessa dal governo moldavo: oggi la Gagauzia è una regione autonoma.
L’origine turca di gran parte degli abitanti ha qui una valenza ben differente rispetto ai bulgari di Taraclia. Il legame con la Turchia è molto intenso: dalla penisola anatolica arrivano infatti fondi e sovvenzioni grazie alla Tika, l’agenzia statale di cooperazione in mano a Erdoğan che opera nei Paesi esteri nel nome di un’ideologia panturchista. Grazie ai soldi turchi, a Comrat, capitale della Gagauzia, e aree limitrofe è stato possibile acquistare nuove ambulanze ed attrezzature mediche, migliorare le strutture sanitarie locali e gli acquedotti, costruire uno stadio di calcio e ristrutturare edifici pubblici, nonché aprire la biblioteca “Atatürk”; il tutto per una somma pari a 24 milioni di dollari nel periodo 1993-2012.
A complicare ulteriormente il quadro, è la difficile relazione con la Transnistria, la piccola striscia di terra più prossima (nel cuore e nel portafogli dei propri abitanti) a Mosca che a Chișinău, Repubblica separatista che vive nel suo status quo dal 1992. Capaci nel tempo di sviluppare un vero e proprio Stato con bandiera, moneta, dogane, esercito e parlamento de facto indipendenti, i cittadini della Transnistria si trovano inseriti in un planisfero dove la loro esistenza viene riconosciuta solo da altri non-Paesi come l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud e il Nagorno-Karabakh. Nemmeno la Russia, grande madrepatria per vocazione delle terre transnistre, ne riconosce l’indipendenza, nonostante da anni sovvenzioni con ingenti somme la piccola Repubblica. Il 27 e 28 novembre prossimi, i rappresentanti di Moldavia e Transnistria si ritroveranno a Vienna per l’ennesimo negoziato dedicato a stabilizzare le relazioni tra le due autorità, in una formula che comprende anche l’intervento di Osce, Russia, Ucraina, Ue e Stati Uniti. Nessuna delle parti sembra però intenzionata a fare un passo indietro sul proprio status: Tiraspol continuerà a rifiutare l’autorità di Chișinău, mentre la Moldavia si dice pronta a concedere esclusivamente un modello di regione autonoma sulla falsariga della Gagauzia.
Rintracciare una ed una sola identità moldava in questo mosaico nazionale così pieno di colori e bandiere è quindi una ricerca che ha dell’utopistico. Non aiutano nemmeno le immancabili spinte centrifughe e le necessarie “relazioni complicate” con le due aree che fuori dai confini la fanno da padrone: Unione europea e Russia. La politica interna moldava condiziona infatti pesantemente le relazioni diplomatiche e la politica estera su entrambi i versanti, in un quadro politico dove ad un parlamento filo-europeo si affianca un presidente della repubblica russofilo, Igor Dodon.
Ue e Russia si spartiscono anche le maggiori quote export del Paese, con un netto sbilanciamento verso ovest: a fronte di un 46,4% di esportazioni nei paesi Ue (Romania e Italia in testa, rispettivamente con il 26 e il 9,8% della quota complessiva), si colloca solo un 12% di traffico merci verso la Russia, per un valore di 233 milioni di dollari l’anno.
Contributo fondamentale di questo predominio europeo, è l’inserimento della Moldavia nella Dcfta, l’area di libero scambio istituita nel 2008 dall’Ue con Ucraina, Georgia e, appunto, Moldavia. L’accordo, che consente ai tre partner post-sovietici l’accesso ad alcuni settori del mercato comunitario e garantisce contemporaneamente standard comunitari agli investitori Ue che puntano a fare business in questi Paesi extra-Ue, sembra essere solo uno step temporaneo nelle relazioni tra i due attori. Il 15 novembre scorso, il Parlamento europeo ha infatti approvato una risoluzione che lascia presagire un futuro prossimo in cui “i partner orientali” potrebbero aderire all’unione doganale dell’Ue, all’Unione energetica europea e all’area Schengen.
Al contempo l’Ue, dal canto suo, ha espresso senza mezzi termini l’interesse nel voler rinforzare una “pressione collettiva” nei confronti della Russia, con un particolare occhio di riguardo ai frozen conflict, le instabili situazioni in Ucraina orientale, Abkhazia, Ossezia del Sud e Transnistria (dal 2016 a sua volta inclusa nella Dcfta EU-Moldavia).
Per la Moldavia il futuro dipende dunque dal bilanciamento che la sua classe politica saprà dare alle due spinte che tirano in direzioni opposte, per potersi finalmente scrollare di dosso un pesante fardello che relega il Paese all’ultimo posto tra i PIL adeguati alle parità dei poteri d’acquisto in Europa e al 131esimo posto su 185 nel mondo.
@SimoMago
Un mosaico di comunità, dagli ucraini ai gagauzi foraggiati da Ankara. Un parlamento filo-Ue e un presidente russofilo. L’influenza della Romania ma il russo come lingua franca. L’economia però oscilla sempre più verso ovest. E per il Paese più povero d’Europa conta parecchio
Un doganiere svogliato riconsegna i passaporti e con un cenno distratto della mano fa alzare la sbarra che blocca la strada. Appena oltre il confine, si aprono scorci di una campagna ondulata da basse colline, solo di tanto in tanto si scorge un gruppo di case o una chiesa ortodossa. Non sono molte le differenze che saltano all’occhio una volta entrati in Moldavia dalla frontiera romena di Albiţa; il paesaggio, la lingua, perfino le bandiere sono pressoché gli stessi.