I progettisti dell’Emirato promettono i primi Mondiali a “impatto ambientale zero” e la Fifa si accorge che fa caldo laggiù…
Per ottenere l’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2022, tre anni fa il Qatar promise – alla Federazione calcistica internazionale (Fifa) e al mondo intero – l’impossibile: ambientare nel deserto l’edizione più ecologica della storia del pallone, la prima a impatto zero in termini di emissioni di gas nocivi.
Può sembrare un ossimoro tenuto conto che per giocare una partita in un forno come quello del Golfo Persico, con temperature che durante l’estate oscillano pericolosamente verso i 50 gradi, gli stadi dovrebbero essere trasformati in bolle d’aria condizionata che rendano il clima respirabile tanto per i calciatori quanto per il pubblico pagante.
All’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani – da poco scomparso – forse è invece sembrata una formidabile sfida e un’altrettanto formidabile operazione di marketing geopolitico per dimostrare all’Occidente che con gli sceicchi nulla è impossibile, come recita lo slogan pubblicitario degli scarpini Adidas.
Che poi a convincere i delegati della Fifa chiamati a scegliere il Paese ospitante del 2022 sia stato un imprevedibile sussulto ambientalista, oppure il fascino dell’immagine surreale di ventidue giocatori inseguiti per il campo da una nuvola artificiale refrigerante alimentata con il sole, resta un mistero.
La designazione ha poi trovato nei più diretti interessati i primi oppositori. “Respirare, giocare e vivere con quel caldo. Ma siete matti?”, è stata la risposta del sindacato internazionale dei calciatori.
Per rendere l’impossibile possibile, i consulenti tecnici del piccolo e ricchissimo Emirato arabo hanno disegnato sulla sabbia gli stadi verdi del futuro. Impianti climatizzati all’aria aperta, alimentati da un sistema di pannelli fotovoltaici posati sopra e tutto intorno agli stadi. Tutto modulare, “ecosostenibile” e smontabilie; cosicché una volta finito il torneo, possa essere regalato a Paesi più bisognosi.
Mantenere una temperatura media di 27 gradi in campo e sugli spalti, il tutto, secondo i progettisti dell’Emirato, senza lasciare un carbon footprint – senza creare un costo ambientale in termini di emissioni di anidride carbonica.
Un Mondiale concentrato in 7 città e in un raggio di 60 km, con la metropolitana che ti porta ovunque, la gestione oculata dei rifiuti prodotti dai tifosi in visita. Tutto bello, tutto perfetto.
A portare il calcio nel Golfo furono nel 1940 gli operai inglesi che lavoravano sulle piattaforme petrolifere al largo delle coste qatariote. Settanta anni dopo, investitori del Qatar controllano due dei club più ricchi d’Europa, il Paris Saint Germain e il Manchester City, mentre Al Jazeera sarebbe pronta a comprare i diritti televisivi dei campionati più importanti del vecchio continente (quello francese è già suo).
Poco più grande dell’Abruzzo o del Connecticut, l’Emirato galleggia su un mare di greggio e possiede inoltre immensi giacimenti di gas naturale. Sarà pure il Paese più piccolo della storia ad ospitare un Mondiale, ma è anche il più ricco, almeno in rapporto alle sue dimensioni. Le previsioni sul possibile esaurimento delle riserve di oro nero, che nei prossimi decenni potrebbe costringere lo Stato del Golfo Persico a diventare importatore di energia, avrebbero però convinto la dinastia regnante, gli Al Thani, a stanziare fondi pressoché illimitati per un progetto di riconversione e investimento nelle energie alternative, del quale gli stadi raffreddati dal sole del 2022 rappresenterebbero l’avanguardia.
Regna tuttavia un certo scetticismo al riguardo: diversi analisti finanziari mettono in dubbio la reale intenzione del Qatar di investire nelle energie rinnovabili, mentre da studi accademici e organizzazioni ambientaliste viene da tempo confutata l’effettiva sostenibilità del mondiale climatizzato. Il peso dell’impronta di CO2 del calcio è comunque massiccio.
Innaffiare un prato meraviglioso come quello del Nou Camp di Barcellona richiede in un giorno di sole fino a 54mila litri di acqua. Dentro lo stadio del Manchester City si accumulano ogni anno 8 milioni di bottigliette di plastica – anche se il club sostiene di riciclarne più del 90%, grazie all’aiuto dei tifosi.
Nel 2010, ai Mondiali in Sudafrica, la carbon footprint lasciata risultò otto volte superiore a quella dei Mondiali di quattro anni prima in Germania.
L’estate scorsa, un dubbio cosmico sulla sostenibilità ecologica del Mondiale qatariota ha finalmente fatto breccia nei pensieri di chi li aveva sempre minimizzati, il presidente della Fifa, Joseph Blatter. Si è forse chiesto della salute degli atleti più pagati del mondo, o almeno del rischio di cause legali da parte dei club in caso di problemi fisici dovuti alla afa estiva laggiù.
“Bisogna ammettere che in Qatar d’estate non si può giocare a calcio”, ha concesso. Benvenuti dunque ai primi Mondiali d’inverno – o d’autunno o magari di primavera araba; perché i club delle principali leghe europee, storicamente restii a cambiare riti e abitudini del proprio sport se non per interessi immediati, sono fermamente contrari a mettere sottosopra il calendario di Champions League e dei campionati nazionali. Blatter assicura che una soluzione si troverà. In Germania e in molta Europa dell’Est, i campionati osservano da sempre la sosta invernale. I Paesi dell’emisfero sud accarezzano invece l’idea del loro primo Mondiale estivo. In Brasile giurano che saranno invece loro i primi Mondiali eco-friendly della storia, tra meno di un anno.
Giù nel Golfo non han – no dubbi: il mondiale “al fresco” si farà, punto e basta. Conferma Bora Milutinovic, zingaro felice delle panchine che dopo cinque Mondiali con cinque nazionali diverse è stato assunto come consulente personale dell’Emiro: “Il caldo? Non sarà un problema, fidatevi. Qui refrigerano pure i pensieri”.