Profili diversi, epoche diverse: oggi l’Europa è un fattore di stabilità e di inclusione, a differenza dell’Europa severa e ostile dell’epoca Monti
Mario Draghi, che arriva alla guida del Paese con la reputazione di salvatore dell’euro guadagnata negli otto anni alla guida della Bce, è diventato Presidente del Consiglio in condizioni a dir poco peculiari. Mai, nella storia italiana, si era vista la corsa della quasi totalità dei partiti dell’arco costituzionale a dare la fiducia “sulla fiducia”, a scatola chiusa, senza nemmeno sapere quale fosse il programma di Governo. Con il giuramento del Governo Draghi abbiamo assistito all’ennesima intronizzazione di un uomo della provvidenza, chiamato al capezzale di un’economia cronicamente malata e di un sistema politico disfunzionale, incapace di esprimere un progetto coerente per il paese. Ma Draghi non è il primo Super Mario della storia recente. Meno di dieci anni fa, in seguito alle dimissioni del Governo Berlusconi, il Presidente Napolitano chiamò Mario Monti con il compito di guidare l’Italia fuori dalla tempesta della crisi del debito sovrano. Cosa hanno in comune questi due tecnocrati? Cosa li differenzia? Quali lezioni si possono trarre dall’esperienza controversa del Governo Monti? Quali errori dovrebbe evitare Mario Draghi?
Draghi e Monti: i punti in comune
Iniziamo da cosa accomuna i due salvatori della patria. In primo luogo, un profilo tecnocratico di alto livello e un prestigio acquisito al di fuori dei confini nazionali, che li colloca in qualche modo al di fuori della mischia politica. La Banca centrale europea per Mario Draghi e la Commissione europea per Mario Monti, che da Commissario alla Concorrenza dell’esecutivo Prodi si dedicò alla lotta agli abusi di posizione dominante divenendo lo spauracchio di grandi gruppi come Microsoft o General Electric. Poi, entrambi sono stati chiamati al capezzale del paese in un momento di crisi profonda alla quale la politica non è apparentemente in grado di dare risposta. Draghi entra in gioco mentre la pandemia non è ancora alle nostre spalle e già occorre proiettarsi sul dopo, con il piano di rilancio da 209 miliardi finanziato dall’Ue. Monti fu chiamato a Palazzo Chigi in piena tempesta finanziaria, con gli spread alle stelle e il Governo Berlusconi che era stato sfiduciato da mercati e istituzioni europee (uno snodo non limpido e non particolarmente glorioso del recente passato europeo): per entrambi i Super Mario, l’arrivo alla Presidenza del Consiglio è accompagnato da attese messianiche. Infine, in entrambi i casi la crisi italiana non può prescindere dal contesto europeo. Per Monti si trattava di adottare le politiche di consolidamento fiscale e di riforma che “ci chiedeva l’Europa”; per Draghi di inscrivere il piano di rilancio italiano nel programma Next Generation EU e negli obiettivi di medio periodo che si è data l’Unione.
Tuttavia, la situazione è oggi molto diversa da quella del 2011 e c’è da sperare che lo sarà anche il giudizio che sarà portato sul Governo. Ricordiamo che il Governo Monti, composto esclusivamente di tecnici, entra in carica nel novembre di quell’anno (curiosamente, un paio di settimane dopo l’arrivo di Draghi alla presidenza della Bce) con il compito di ritrovare la fiducia dei mercati che in seguito alle convulsioni del Governo Berlusconi hanno portato l’Italia sull’orlo del collasso finanziario (un famoso titolo de Il Sole 24 Ore all’epoca titolava “Fate presto”!). Poche settimane dopo il Governo vara il decreto detto “Salva Italia” che prevede risparmi per circa trenta miliardi nell’arco di tre anni e introduce la controversa riforma Fornero delle pensioni. Sotto il Governo Monti viene anche introdotto l’obbligo di bilancio in pareggio in Costituzione (in realtà negoziato in sede europea dal Governo precedente). L’esperienza si conclude dopo poco più di un anno con le dimissioni del dicembre 2012, anche se il Governo resterà in carica per gli affari correnti fino all’aprile successivo.
Come spesso accade in Italia, i giudizi sul Governo Monti si polarizzano tra le accuse di aver fatto macelleria sociale in nome dell’Europa e le lodi per aver imposto le necessarie lacrime e sangue che hanno evitato l’espulsione dall’euro e una crisi ben peggiore. Qualunque sia il giudizio che si porta su quell’esperienza di Governo, si dimentica spesso che essa è stata un sostanziale fallimento proprio riguardo al motivo per cui era nata. Dopo una brevissima luna di miele, gli attacchi speculativi riprendono più forti di prima e il Governo Monti si rivela totalmente incapace di guadagnare la fiducia dei mercati. Lo spread oscilla per tutta la primavera del 2012 seguendo alti e bassi della crisi europea e ripassa sopra alla barra dei 500 punti base nel luglio 2012. È solo il whatever it takes di Mario Draghi, il 26 luglio, che salva il Governo Monti arrestando nettamente la speculazione (di fatto, con quel discorso, Draghi vince la resistenza dei falchi della Bce e segnala l’intenzione di agire da prestatore di ultima istanza rendendo vani i tentativi di spingere i governi italiano e spagnolo al default). La vicenda del Governo Monti è di fatto la prova che l’austerità non è condizione necessaria, né sufficiente, per garantire la quiete sui mercati e la sostenibilità del debito. Per un’economia fortemente integrata in un’area valutaria, le politiche comuni (in particolare la politica monetaria) sono molto più importanti delle politiche nazionali.
Monti e Draghi: le differenze
Questo ci porta alle differenze con il Governo Draghi e alle lezioni che se ne possono trarre. La differenza più rilevante è che oggi il contesto è profondamente diverso da quello del 2012. L’Europa, invece di spingere a politiche recessive e destabilizzanti è oggi un fattore di stabilità. La Commissione ha messo in campo dei programmi di prestiti a tassi preferenziali e ha di fatto sospeso le regole di bilancio. Soprattutto, la Bce ha aperto il suo ombrello con il programma PEPP di acquisti di titoli che tiene gli spread ai minimi storici; si pensi a quanto i tassi di interesse sono rimasti stabili durante le convulsioni del Governo Conte, nonostante la crisi apparisse ai più, fuori dall’Italia, incomprensibile. Questo implica anche una differenza sostanziale nel contesto politico che ha portato alla nascita dei due governi dei Super Mario. Mentre la vasta maggioranza che aveva sostenuto il Governo Monti lo aveva fatto con la pistola alla tempia e lo spettro dell’exit dall’euro, oggi, nonostante la difficoltà della situazione sanitaria ed economica, non siamo nella stessa situazione.
Anche per quel che riguarda lo “scopo” del Governo, la situazione è radicalmente diversa. A differenza di Monti, Draghi non dovrà tagliare ma, al contrario, avrà una somma considerevole da impegnare nei grandi cantieri di modernizzazione del paese. Il successo di questo programma dipenderà ovviamente dalla capacità di mettere mano a storture e inefficienze in settori chiave quali la giustizia, la pubblica amministrazione, l’istruzione. Tuttavia, nonostante un contesto chiaramente meno vincolante, il Governo Draghi farebbe bene a studiare l’esperienza del suo predecessore, in particolare della riforma Fornero. Un vasto programma di riforme in profondità necessita di un orizzonte temporale ampio e di una legittimità politica che quasi per definizione un Governo di emergenza nazionale non possiede. La vasta maggioranza numerica che sostiene in parlamento l’ex presidente della Bce (e di cui godeva anche il Governo Monti) nasce dall’emergenza sanitaria ed economica, non da un accordo di forze politiche intorno ad un programma condiviso. Sarebbe un errore se questo ampio sostegno fosse utilizzato per imporre riforme su cui non c’è un ampio accordo tra i partiti che sostengono il Governo. Il peccato originale della riforma Fornero è proprio la mancanza di padri politici, che ha impedito di riconoscerne le insufficienze e di avere un dibattito ragionevole sui sui effetti.
A questo riguardo, le differenze tra i due Mario spingono a un moderato ottimismo. Monti è figlio di una cultura, questa sì profondamente tecnocratica, per cui il policy maker non deve far altro che selezionare la politica “ottimale” e imporla ad una società riluttante. Mario Draghi, invece, anche nei suoi ruoli di tecnocrate, ha sempre mostrato di avere ben chiaro in mente che la politica economica non seleziona un ottimo ma deve scegliere la distribuzione di costi e benefici ed è quindi, per definizione, politica; è proprio questa concezione non tecnocratica del proprio compito che gli ha consentito di guidare con successo la Bce nelle acque tempestose della crisi dell’Eurozona. C’è da sperare che invece di passare in forza con il pretesto dell’urgenza, egli utilizzi il “metodo Ciampi” e concentri i propri sforzi su riforme ampiamente condivise da partiti e parti sociali. Per le altre (penso ad esempio a mercato del lavoro e pensioni), sarebbe il caso che il Governo d’emergenza si limitasse a preparare il terreno per poi lasciare il campo a scelte politiche che necessitano della legittimazione (ed eventualmente, in seguito, della sanzione) del voto popolare.
Tra i cantieri sui quali è possibile avere un consenso trasversale ci sono sicuramente le riforme europee. Su temi quali la riforma del Patto di stabilità, la tassazione delle multinazionali, la creazione di una capacità di bilancio permanente, non sarebbe difficile trovare un punto di sintesi tra le forze politiche italiane. Il (più che meritato) prestigio di cui Draghi gode fuori dai confini nazionali potrebbe poi fare il resto, consentendo di far avanzare l’agenda europea come non è stato possibile in passato. Su questo, e non su riforme domestiche per le quali manca il tempo, il consenso e quindi la legittimità politica, dovrebbero concentrarsi gli sforzi dei prossimi mesi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Mario Draghi, che arriva alla guida del Paese con la reputazione di salvatore dell’euro guadagnata negli otto anni alla guida della Bce, è diventato Presidente del Consiglio in condizioni a dir poco peculiari. Mai, nella storia italiana, si era vista la corsa della quasi totalità dei partiti dell’arco costituzionale a dare la fiducia “sulla fiducia”, a scatola chiusa, senza nemmeno sapere quale fosse il programma di Governo. Con il giuramento del Governo Draghi abbiamo assistito all’ennesima intronizzazione di un uomo della provvidenza, chiamato al capezzale di un’economia cronicamente malata e di un sistema politico disfunzionale, incapace di esprimere un progetto coerente per il paese. Ma Draghi non è il primo Super Mario della storia recente. Meno di dieci anni fa, in seguito alle dimissioni del Governo Berlusconi, il Presidente Napolitano chiamò Mario Monti con il compito di guidare l’Italia fuori dalla tempesta della crisi del debito sovrano. Cosa hanno in comune questi due tecnocrati? Cosa li differenzia? Quali lezioni si possono trarre dall’esperienza controversa del Governo Monti? Quali errori dovrebbe evitare Mario Draghi?
Draghi e Monti: i punti in comune
Iniziamo da cosa accomuna i due salvatori della patria. In primo luogo, un profilo tecnocratico di alto livello e un prestigio acquisito al di fuori dei confini nazionali, che li colloca in qualche modo al di fuori della mischia politica. La Banca centrale europea per Mario Draghi e la Commissione europea per Mario Monti, che da Commissario alla Concorrenza dell’esecutivo Prodi si dedicò alla lotta agli abusi di posizione dominante divenendo lo spauracchio di grandi gruppi come Microsoft o General Electric. Poi, entrambi sono stati chiamati al capezzale del paese in un momento di crisi profonda alla quale la politica non è apparentemente in grado di dare risposta. Draghi entra in gioco mentre la pandemia non è ancora alle nostre spalle e già occorre proiettarsi sul dopo, con il piano di rilancio da 209 miliardi finanziato dall’Ue. Monti fu chiamato a Palazzo Chigi in piena tempesta finanziaria, con gli spread alle stelle e il Governo Berlusconi che era stato sfiduciato da mercati e istituzioni europee (uno snodo non limpido e non particolarmente glorioso del recente passato europeo): per entrambi i Super Mario, l’arrivo alla Presidenza del Consiglio è accompagnato da attese messianiche. Infine, in entrambi i casi la crisi italiana non può prescindere dal contesto europeo. Per Monti si trattava di adottare le politiche di consolidamento fiscale e di riforma che “ci chiedeva l’Europa”; per Draghi di inscrivere il piano di rilancio italiano nel programma Next Generation EU e negli obiettivi di medio periodo che si è data l’Unione.
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