Dopo la vittoria elettorale, il leader populista punta a raccogliere finalmente le tasse per far cambiare passo a un Paese con un bassissimo indice di sviluppo. E si affida all’alleanza con Pechino. Con il rischio (calcolato) di finire nella trappola del debito cinese
Domenica, durante il suo discorso inaugurale da Primo Ministro del Pakistan, il 65enne leader del Tehreek-e-Insaf (Pti, Movimento per la Giustizia del Pakistan) Imran Khan ha promesso l’instaurazione di un governo austero e attento alle spese. Rigore e privazioni per tutti, a partire dalla sua persona, con la rinuncia alla lussuosa dimora riservata al capo del governo, sostituita da una più modesta abitazione con appena tre camere da letto, affidata a due soli servitori rispetto al miniesercito di inservienti previsto dall’etichetta.
Austerità quindi, concetto che rientra nella linea populista affinata dall’ex campione di cricket, assurto al ruolo di giustiziere in anni di manifestazioni con il suo Pti dal nord al sud del Paese, accusando di opportunismo l’establishment politico e promettendo in caso di elezione un governo a corruzione zero. Alla fine, le urne gli hanno dato ragione. Malgrado la maggioranza risicata (51%), nel fine settimana Imran Khan ha annunciato la formazione del governo, attuando il secondo trasferimento di potere tra due leader democraticamente eletti nella lunga storia di dittature militari in Pakistan.
Le priorità emerse durante il discorso di insediamento del 22esimo Primo Ministro sono il controllo della spesa pubblica e il risparmio, condizioni necessarie per tentare di mettere assieme i fondi necessari a migliorare la condizione di decine di milioni di pachistani costretti a vivere in uno stato di profonda povertà. Allo stesso modo, Khan ha richiamato i pachistani benestanti alla necessità di pagare le tasse. Questione non secondaria per un Paese dove appena il 2% dei cittadini versa le imposte su reddito.
«Pagare le tasse è un vostro dovere» ha tuonato Khan, rivolgendosi a quella che ha definito «isola di super ricchi in un mare di poveri» che oggi abitano in Pakistan. «Immaginate sia un jihad, il fatto che dovete pagare le tasse per migliorare il vostro Paese» è l’espressione usata per fare leva sul senso di responsabilità della cittadinanza.
Il termine della campagna elettorale e l’inizio del mandato segnano per il leader del Pti il momento di fare sul serio. Tocca accantonare anni di infiammata retorica a favore della ragione, condizione indispensabile per mettersi alla guida di un Paese con un bassissimo indice di sviluppo, dove il 64% della popolazione ha età inferiore ai 29 anni. Significa 128 milioni di giovani – il principale bacino elettorale del Pti – su 200 milioni di abitanti, tutti in attesa della più volte promessa ripresa dell’occupazione e del rilancio dell’economia nazionale. Priorità ben chiare alla formazione di Khan, cui si aggiunge la necessità di rifondare il servizio sanitario nazionale e di ridurre il tasso di mortalità dei neonati, il peggiore al mondo: secondo l’Unicef in Pakistan un bambino su venti muore nel primo mese di vita.
La crisi in corso scaturisce da diverse concause, in particolare dalla latitanza dei precedenti governi in ambito fiscale e dalla scarsa autonomia energetica, tale da imporre al Pakistan l’importazione di grandi quantità di gas e petrolio, con conseguenze pesanti ad esempio sui prezzi del carburante. Non è un caso se Khan ha voluto riservarsi un ruolo primario nella definizione delle strategie in ambito economico, da sempre punto di grande vulnerabilità del Paese. Il Pakistan continua a importare più di quanto esporti e secondo il New York Times il deficit sarebbe di 18 miliardi di dollari, con la Cina primo fornitore.
La moneta nazionale si è progressivamente svalutata e l’esposizione debitoria del Paese è al suo massimo storico. Questo imporrà al nuovo governo scelte radicali, tali da pregiudicare in origine le promesse fatte durante la lunga campagna elettorale, a partire da “una casa per tutti” per arrivare alla creazione di uno “Stato sociale islamico”. Le ristrettezze finanziarie rendono inevitabili nuovi e profondi tagli alla spesa pubblica, inclusa quella militare, quindi l’ampio ricorso alla privatizzazione e al miglioramento dei meccanismi di riscossione delle tasse, a partire da quelle per l’energia.
In questa condizione di perpetuo deterioramento economico, per le sorti dell’economia nazionale saranno cruciali le alleanze regionali. Imran Khan non ha mai nascosto la sua vicinanza alla Cina, citata in più occasioni come esempio di buon governo. Posizione ripagata da Pechino all’indomani dello spoglio di fine luglio, con l’elargizione di altri 2 miliardi di dollari di prestito per puntellare le finanze di Islamabad, cifra aggiunta a un miliardo concesso ad aprile, e alla linea di credito da 4 miliardi offerta dall’Arabia Saudita sull’acquisto di petrolio.
Presto però serviranno altri soldi e Khan dovrà negoziare con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) un nuovo debito, stimato dal Times in 12 miliardi di dollari. Condizione che dalla nascita del Pakistan nell’agosto del 1947 ha imposto al Paese la sottoscrizione di ben 21 programmi con il Fmi, riuscendo a portarne a termine appena tre.
Per contenere la propria vulnerabilità, nella storia recente Islamabad ha spostato il baricentro decisamente verso Pechino. I rapporti tra i due Paesi evolvono da anni e sono stati santificati dal China-Pakistan Economic Corridor (Cpec), parte della Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della seta lanciata nel 2013, che – in Pakistan – prevede miglioramenti in campo energetico, la costruzione di infrastrutture e il funzionamento del porto di Gwadar, nel sudovest del Paese.
Secondo Foreign Policy, dal lancio del Cpec in Pakistan sono state portate a termine opere per 19 miliardi di dollari, ma solo il 10% eseguite da imprese nazionali, lasciando alle società cinesi le principali commesse. Il maxi-progetto Cpec guarda però al medio termine e, in quindici anni, dovrebbe portare alla realizzazione di lavori per un valore complessivo di 62 miliardi di dollari, somme messe a disposizione da Pechino in cambio di un interesse del 3%, che rischia di replicare anche in Pakistan il modello della “trappola del debito”. Significa che l’impossibilità di ripagare i prestiti viene sopperita concedendo il controllo delle infrastrutture alla Cina, per un lasso di tempo concordato. È già accaduto altrove, in Sri Lanka ad esempio, dove lo scorso dicembre il governo di Colombo – impossibilitato a onorare il proprio debito – ha dovuto concedere a Pechino il controllo del porto di Hambantota, per 99 anni.
La prospettiva del debito cinese appare tuttavia come il male minore. L’intesa sino-pachistana conviene soprattutto a Islamabad, che trova nel partner asiatico un alleato forte per bilanciare gli equilibri regionali, mutati con l’inizio del conflitto afgano nel 2001. Equilibrio che guarda soprattutto all’India, rivale atavico del Pakistan, capace di tessere relazioni importanti con Kabul, erodendo l’area di influenza pachistana in Afghanistan e annullandone la profondità strategica in caso di un nuovo conflitto, tanto cara all’auctoritas militare pachistana.
Il governo conservatore di Narendra Modi ha migliorato anche i propri rapporti con Washinton, divenendo uno dei principali alleati degli Stati Uniti in Asia. Uno sguardo sul Pakistan post-elettorale non suggerisce cambiamenti rilevanti agli equilibri regionali, almeno nelle relazioni con gli Stati Uniti di Donald Trump. Vero che Khan intende presentarsi come un leader equidistante, aperto al dialogo con Washington, tuttavia nella sua agenda le priorità divergono da quelle del Presidente statunitense, a partire dalla stabilizzazione dell’Afghanistan, quindi la dissoluzione dei legami tra esercito pachistano e le organizzazioni terroristiche attive su entrambi i fronti della Durand Line, infine il contenimento della proliferazione nucleare di Islamabad.
Gli Stati Uniti temono anche la prospettiva di una maggiore ingerenza cinese in Pakistan. L’alleanza militare tra i due Paesi ha una lunga storia e fino a oggi ha costituito le fondamenta delle reciproche relazioni. Tuttavia, la subordinazione pachistana alla Cina potrebbe evolvere per effetto della trappola del debito legata al Cpec, con un maggiore effetto di limitazione dell’India e quindi, di rimando, andrebbe a compromettere la strategia di Trump nella regione dell’Indo-Pacifico, che vede New Delhi come partner chiave nei piani americani di contenimento della Cina.
@EmaConfortin
Dopo la vittoria elettorale, il leader populista punta a raccogliere finalmente le tasse per far cambiare passo a un Paese con un bassissimo indice di sviluppo. E si affida all’alleanza con Pechino. Con il rischio (calcolato) di finire nella trappola del debito cinese