La dolorosa storia recente del Perù, fra letteratura e ricerca della verità
Un letto, una donna dalla schiena nuda, di spalle, un'altra che stende le gambe mentre legge un giornale, El Diario de Lima. Titolo, "En todo el paìs toque de queda". Coprifuoco in tutto il Paese. È il Perù degli anni Novanta, quello raccontato da Mario Vargas Llosa nel suo ultimo romanzo, “Crocevia”. Le due donne compaiono nella copertina dell'edizione italiana. Nella prima scena del libro è il coprifuoco ad innescare un intreccio lesbico: Chabela, costretta a dormire nello stesso letto dell'amica Marisa, perché impossibilitata a rientrare a casa, scoprirà una nuova parte di sé.
Un letto, una donna dalla schiena nuda, di spalle, un’altra che stende le gambe mentre legge un giornale, El Diario de Lima. Titolo, “En todo el paìs toque de queda”. Coprifuoco in tutto il Paese. È il Perù degli anni Novanta, quello raccontato da Mario Vargas Llosa nel suo ultimo romanzo, “Crocevia”. Le due donne compaiono nella copertina dell’edizione italiana. Nella prima scena del libro è il coprifuoco ad innescare un intreccio lesbico: Chabela, costretta a dormire nello stesso letto dell’amica Marisa, perché impossibilitata a rientrare a casa, scoprirà una nuova parte di sé.
Quel Perù stretto da due fuochi, il terrorismo, da una parte, la risposta militare dello Stato, dall’altra, col suo corollario di giochi sporchi, corruzione, dossieraggi, il potere usato per schiacciare chi non ha potere, è il protagonista del romanzo, in cui il premio Nobel 2010 si toglie alcuni sassolini: contro il giornalismo gossipparo, di cui è stato vittima egli stesso, contro il regime di Alberto Fujimori, “il giapponese”, che lo sconfisse nelle elezioni del 1990 prima di avviare una stretta delle libertà politiche e civili. Uno dei personaggi della vicenda è il Doctor, all’anagrafe Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti e braccio destro di Fujimori, vera eminenza grigia del regime, su cui all’epoca la mitologia si sprecava (“ricordò di avere letto che ad alcuni militari, colpevoli di avere cospirato contro Fujimori, il Doctor aveva fatto iniettare il virus dell’Aids”).
Come ogni Paese colpito dal terrorismo, il Perù ha dovuto affrontare la questione dell’eredità storica e della trasmissione della memoria. Lo ha fatto decidendo di raccontare vittime e carnefici in uno spazio sobrio, a forte prevalenza di cemento armato, nel borghesissimo quartiere di Miraflores, a Lima. Questo spazio incastonato tra giardini e strutture sportive, sul pendio che fronteggia il Pacifico, ha un nome programmatico. Si chiama Lugar de la Memoria, la Tolerancia y la Inclusiòn social ed è stato inaugurato poco più di un anno fa, il 17 dicembre del 2015, dopo cinque anni di lavori, grazie ad una donazione del governo tedesco e in seguito a un concorso pubblico, vinto dallo studio degli architetti peruviani Sandra Barclay e Jean Pierre Crousse.
All’inizio del percorso ci sono le istruzioni per l’uso: “Questa esposizione raccoglie una varietà di voci e di momenti emblematici di questo periodo e approfondisce alcuni casi particolari che funzionano come simboli della sofferenza della società peruviana. La mostra, tuttavia, riconosce l’impossibilità di rappresentare tutto il dolore avvenuto”. Non c’è un consenso sul numero totale di morti e desaparecidos, nel 2003 la Comisión de la Verdad y Reconciliación ha stimato una cifra di 69.280 vittime. Dopo molti anni di lavoro, il Registro Único de Víctimas, prodotto dal Consejo de Reparaciones, è riuscito a restituire i nomi e i cognomi di 31.972 morti.
La violenza ebbe inizio nel 1980 a Chuschi, nella regione andina di Ayacucho, e la data non fu casuale. Il 17 maggio era la vigilia delle libere elezioni, dopo dodici anni di dittatura militare, iniziati col colpo di Stato del generale Alvarado. Come recitano i pannelli del Lugar, “il terrorismo nasce per abbattere lo Stato democratico, proprio quando, per la prima volta nella storia repubblicana, al processo elettorale partecipavano anche i settori sociali più esclusi dalla vita del Paese, come gli analfabeti”.
La guerra civile coinvolse tutto il Paese, ma l’impatto più forte fu nella regione andina e in quella amazzonica. I principali gruppi sovversivi furono Sendero Luminoso e il Movimiento Revolucionario Tupac Amaru (MRTA), due organizzazioni criminali altamente militarizzate, con strutture rigidamente gerarchiche, che concentravano quasi tutto il potere nelle loro cupole direttive. Generalmente, gli assassini, i sequestri e gli attentati furono decisi al più alto livello dell’organizzazione.
Sendero Luminoso fu uno dei molti gruppi nati dall’implosione del Partito Comunista Peruviano negli anni Sessanta. Piattaforma ideologica: le strategie militari di Mao, il pensiero politico di Lenin, l’autoritarismo totalitario di Stalin e le intuizioni del suo leader, Abimael Guzmàn Reynoso, verso il quale la sottomissione del movimento era totale. Il senderismo propugnava il terrore e la violenza come mezzi di conquista del potere statale, prometteva una società nuova ma distrusse spazi di partecipazione politica. Sendero, informano i pannelli, è il responsabile diretto di più della metà delle morti prodotte in tutto questo periodo.
MRTA si formò più tardi, nel 1982, per iniziativa di Victor Polay Campos. Si presentava come la prosecuzione della tradizionale guerriglia sudamericana alla maniera del Che. Rispetto a Sendero, sosteneva di rispettare la Convenzione di Ginevra e i suoi membri utilizzavano uniformi, affinché i militari li potessero distinguere dal resto della popolazione. Tuttavia, giustificava la violenza, i sequestri e gli assassini come strumenti per raggiungere i suoi obiettivi. Era conservatore sul piano etico e il suo progetto di limpieza social faceva, ad esempio, dei travestiti un bersaglio, come testimonia l’attentato contro il bar Las Gardenias di Tarapoto (31 maggio 1989).
Si può parlare davvero di cattivi maestri, perché Sendero affonda le proprie radici nell’università peruviana. Guzmàn insegnava filosofia all’Universidad Nacional San Cristòbal de Huamanga, ad Ayachuco, ma soprattutto, come rivelato da un’informativa del 1989, il 35,5 per cento delle persone giudicate per terrorismo aveva una formazione di tipo accademico. I senderisti, inoltre, reclutavano nei licei, facevano propaganda nelle scuole, intravedendo negli studenti dei potenziali terroristi, irrompevano nelle aule per leggere i loro proclami o per punire i presunti traditori (in mostra viene esposta la foto di un’alunna uccisa perché accusata di tradimento). I giovani, come altrove, furono attirati dal terrorismo per la promessa di una società nuova, anche se molti vennero arruolati con le forza, bambini compresi.
Nel trasmettere la propria memoria storica il Perù ha cercato di individuare le responsabilità di entrambi i fronti, pur non arrivando affatto ad una parificazione delle colpe: “Sendero Luminoso e Tupac Amaru si ribellarono contro la società peruviana e causarono terrore e morte per più di una decade. I partiti politici che governarono il Paese non seppero costruire una strategia efficace e incaricarono le Forze Armate della soluzione del problema. La sua attuazione, tuttavia, non fu esente da grandi violazioni dei diritti umani. Forti disuguaglianze sociali e l’assenza dello Stato in molte regioni facilitarono l’espansione del terrorismo: molti testimoni affermano che alcuni scelsero la violenza perché la promessa di un Paese differente sembrava giusta agli occhi di persone storicamente escluse”.
In realtà, le vittime furono soprattutto loro, gli umili: il 79 per cento delle persone colpite viveva nelle zone rurali e il 75 per cento aveva il chechua, l’idioma degli indigeni, come lingua madre (in particolare, il 40 per cento di morti e sparizioni avvennero nella zona di Ayacucho). Gli indios furono oggetto di arruolamenti forzati, detenzioni arbitrarie, assassini, torture, violenze sessuali.
All’inizio la risposta dello Stato fu fondamentalmente militare, contro un nemico che, oltretutto, praticava la guerriglia ed era molto difficile da localizzare. Tutto fu delegato alle forze armate, senza una reale strategia contro-sovversiva. Nei primi anni i soldati non parlavano quechua e l’esercito era visto come un’istituzione aliena alla popolazione: “Lo Stato tardò ad accorgersi che la lotta contro il terrore avrebbe dovuto prodursi attraverso una vittoria sociale e non solo militare. La dichiarazione dello stato di emergenza nelle zone colpite dal terrorismo, iniziato dal presidente Belaunde e dichiarato 226 volte tra il 1980 e il 2000, tolse potere alle autorità civili e portò a violazioni palesi dei diritti umani: sicurezza personale, inviolabilità del domicilio, libertà di transito e di riunione”.
Nacquero formazioni paramilitari, in seno all’esercito, come il Grupo Colina, che praticarono torture, assassini, sparizioni. Il Movimento Internazionale dei Giuristi Cattolici denunciò nel 1985 che il 91 per cento dei detenuti era stato torturato. Nel 1989 le forze armate cambiarono strategia e cercarono di costruire migliori rapporti con la popolazione, avviarono un certosino lavoro di intelligence e coordinarono le azioni a livello locale con i comitati di autodifesa. Poi, nel 1992, la legge sui pentiti, pur producendo casi di ingiustizia o di malagiustizia, fu efficace nello stanare i terroristi, come dimostrò la cattura dello stesso Guzmàn.
Dal 1986 i guerriglieri cominciarono a colpire con forza anche la zona metropolitana di Lima e quella di Puno, sul lago Titicaca. Malgrado la cattura di Abimael Guzman e dei leader di Tupac Amaru, la selva continuò ad essere vittima di attentati anche dopo il 1992. Ancora oggi, in certe zone della valle del fiume Apurìmac e del dipartimento di San Martin, ciò che rimane di Sendero Luminoso continua a perpetrare azioni terroristiche, in collaborazione coi narcotrafficanti.
Si calcola che più di 600.000 mila peruviani dovettero fuggire la propria zona di origine. Molti abitanti di Ayacucho furono costretti a lasciare la campagna per la città e Lima divenne il luogo di accoglienza di un gran numero di sfollati (tant’è che alla fine della guerra civile sorsero problemi riguardo alla proprietà delle terre). Malgrado il diverso approccio da parte dell’esercito, negli anni Novanta il Perù si ritrovò a fronteggiare una duplice camicia di forza: gli attentati dei terroristi, che prendevano di mira politici, imprenditori, giornalisti, disseminavano il paese di bombe – come quella a Miraflores nel 1992 – e il pugno di ferro di Montesinos e del “giapponese”, che approfittò del terrore per chiudere il Congresso e dettare una nuova Costituzione (dialogo tra due personaggi minori di Crocevia: “Sai bene che qui fanno sparire la gente e non succede niente perché la colpa se la prendono sempre i terroristi”).
Tra il 1999 e il 2000, le manifestazioni pubbliche contro il regime di Fujimori, da parte di diversi partiti politici ed organizzazioni della società civile, unite alle prove della corruzione governativa, portarono alla rinuncia alla presidenza, via fax, dal Giappone. Il governo di transizione (2000-2001) di Valentìn Paniagua Corazao ristabilì il pluralismo politico e creò una Comisión de la Verdad y Reconciliación, sul modello sudafricano, che fu la base dell’Acuerdo Nacional del 2002, una tavola rotonda a cui parteciparono forze politiche, organizzazioni sociali, imprese, chiesa, governi municipali. Vennero scarcerati più di 1300 innocenti e fu creato un piano di riparazione delle vittime.
Il Lugar de la Memoria è l’ultimo approdo di quel processo di riconciliazione. Non vuole essere un luogo di certezze e di verità ufficiali – perché una memoria unica è impossibile, e perché nessuno può pretendere di essere l’incarnazione della verità – ma intende enfatizzare la dimensione umana della guerra e costruire uno spazio di riflessione su un momento costitutivo dell’identità peruviana contemporanea. A differenza di altri luoghi della memoria, accanto al racconto delle vittime, fatto anche di installazioni video, si contestualizza il terrore, se ne cercano le radici, ad esempio nella crisi del sistema educativo (le spese per l’educazione negli anni Ottanta erano molto inferiori a quelle degli anni Settanta). Oppure si indagano singoli aspetti: il comportamento della Chiesa; il ruolo dei media, che indulsero troppo al sensazionalismo (anche se molti fecero il loro lavoro e rischiarono la vita per avere informazioni); le violenze sessuali, tanto dell’esercito quanto dei terroristi, che imposero aborti forzati e sterilizzazioni, frutto di una cultura machista che non ha ancora abbandonato il Paese. Un luogo/libro della memoria, insomma, composto di tanti capitoli, per capire che cosa è il Perù, dopo un conflitto che lasciato ferite difficili da suturare ma ha anche favorito un impegno nuovo. L‘attivismo civico di oggi è figlio di quegli anni di guerra, in cui nacquero comitati dal basso e si formarono le associazioni dei familiari delle vittime – sequestrati, prigionieri, desaparecidos – senza le quali la verità sarebbe ancora più incompleta.
Un letto, una donna dalla schiena nuda, di spalle, un’altra che stende le gambe mentre legge un giornale, El Diario de Lima. Titolo, “En todo el paìs toque de queda”. Coprifuoco in tutto il Paese. È il Perù degli anni Novanta, quello raccontato da Mario Vargas Llosa nel suo ultimo romanzo, “Crocevia”. Le due donne compaiono nella copertina dell’edizione italiana. Nella prima scena del libro è il coprifuoco ad innescare un intreccio lesbico: Chabela, costretta a dormire nello stesso letto dell’amica Marisa, perché impossibilitata a rientrare a casa, scoprirà una nuova parte di sé.
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