Il negoziato sul nucleare tra il 5 + 1 (gli Stati del Consiglio di sicurezza Onu, più la Germania) e l’Iran è considerata dalla maggior parte degli analisti come un potenziale punto di rottura per gli equilibri dell’intero Medio Oriente. Se la Repubblica Islamica ottenesse – al di là dei dettagli tecnici dell’accordo – il riconoscimento del proprio ruolo di potenza regionale, uscendo dall’isolamento internazionale ed inaugurando una nuova fase di rapporti con l’Occidente, tutte le geometrie dell’area sarebbero destinate a cambiare.
Principali vittime di questa eventuale svolta sarebbero gli attuali alleati regionali degli Usa, in primis Arabia Saudita e Israele. La prima è da anni impegnata in uno scontro senza frontiere con Teheran – le recenti tensioni in Yemen e Iraq sono solo gli ultimi episodi di una faida che dura da decenni e che si alimenta dell’odio intrareligioso tra sunniti e sciiti – mentre Israele, specialmente con Benjamin Netanyahu al potere, non ha mai nascosto di considerare l’Iran come la principale minaccia alla propria sicurezza.
Secondo le rivelazioni del Wall Street Journal i servizi segreti israeliani avrebbero spiato il negoziato, prendendo di mira anche obiettivi statunitensi, e avrebbero poi passato le informazioni ottenute a quei membri repubblicani del Congresso Usa ostili all’accordo, allo scopo di sabotarne il raggiungimento. Nonostante la smentita israeliana, sono pochi i dubbi sulla veridicità dell’accusa. «È una notizia che non meraviglia, anzi sarei rimasto stupito del contrario», commenta Claudio Neri, direttore scientifico dell’Istituto italiano di studi strategici ed esperto di intelligence. «Storicamente Israele e gli Stati Uniti si spiano a vicenda, non c’è nulla di nuovo. In questa occasione addirittura sembra che gli Stati Uniti abbiano scoperto di essere stati spiati, spiando a loro volta obiettivi israeliani. Tutti spiano tutti, alleati inclusi: questa è la regola. Comunque tra Israele e Usa già negli anni scorsi erano emersi episodi analoghi, anche se su questioni meno scottanti. È risaputo, nell’ambiente del controspionaggio americano, che la maggior minaccia spionistica per gli Stati Uniti arriva proprio da Israele».
La storia dello spionaggio incrociato tra Washington e il suo più stretto alleato in Medio Oriente risale addirittura alla nascita di Israele, quando attivisti sionisti cercavano in America fondi e sostegno per la loro causa. Negli anni successivi l’attività spionistica incrociata è andata avanti senza grossi sussulti fino all’esplosione del caso Pollard del 1987. In quell’occasione gli Usa arrestarono John Pollard, analista della marina militare americana e al contempo spia israeliana, con l’accusa di aver passato informazioni di rilievo per la sicurezza nazionale a Israele, e lo condannarono all’ergastolo. Da allora, ma ad oggi senza risultato, Israele continua a chiederne la scarcerazione. Secondo quanto riportato dal libro “Clinton Inc.” – un approfondimento sugli scandali della presidenza Clinton – per ottenere la liberazione di Pollard nel 1998 l’allora premier Netanyahu avrebbe addirittura ricattato la presidenza americana con del materiale riguardante i rapporti tra Bill Clinton e Monica Lewinsky. Anche durante la presidenza di George W. Bush lo scontro è andato avanti: nel 2001 vennero arrestati 200 giovani israeliani con l’accusa di portare avanti attività di spionaggio sul suolo americano, e tre anni dopo il “Caso Franklin” portò sul banco degli imputati esponenti di rilievo dell’Aipac, la più importante lobby filo-israeliana degli Usa. Con l’arrivo di Obama – con cui il premier Netanyahu ha pessimi rapporti – l’attività di intelligence dei servizi segreti a scopo di lobbying pare essersi ulteriormente intensificata.
«Non c’è niente di strano nel fatto che le informazioni recuperate dal Mossad – immagino previamente “sgrezzate” secondo necessità – siano state usate per esercitare pressioni politiche sugli Stati Uniti», prosegue Neri. «A livello militare e tecnologico i due alleati condividono già praticamente tutto, quindi lo spionaggio industriale o economico è meno rilevante che per altri attori. Lo spionaggio a scopo di lobbying – e mi pare che questo sia il caso in discussione – è invece fondamentale per Tel Aviv ed è normale che lo porti avanti. Israele vuole impedire a tutti i costi il raggiungimento dell’accordo con l’Iran e non si farà scrupoli per influenzare il processo decisionale americano».
Se agli esperti quanto è successo non sembra nulla di eclatante, la Casa Bianca sembra invece aver preso molto negativamente la notizia. Almeno in pubblico. «Informazioni di questo tipo non trapelano mai a caso» spiega ancora Neri. «Di solito o c’è uno scontro tra fazioni all’interno dell’intelligence, oppure si tratta di “triangolazioni”: non potendo dire direttamente il governo certe cose – se muovesse accuse tanto gravi dovrebbe per forza attuare delle ritorsioni, e il prezzo in termini diplomatici sarebbe troppo alto – le fa uscire in modo anonimo sulla stampa». Ma allora perché far trapelare una notizia di fronte a cui poi si reagisce con indignazione?
Obama da sempre non vanta rapporti idilliaci con Netanyahu ma di recente sono arrivati al loro minimo storico. La campagna elettorale israeliana ha lasciato pesanti strascichi: il discorso di Netanyahu di fronte al Congresso a maggioranza repubblicana – dove non era stato invitato dal Presidente – è stato considerato uno sgarbo istituzionale, e le pesantissime parole del premier israeliano sulla nascita dello Stato Palestinese e sugli elettori arabo-israeliani hanno portato Obama a reagire duramente. Forse si spiega così la decisione di far uscire la notizia sullo spionaggio israeliano: dovendo il presidente americano far digerire al suo Paese un’inedita linea più che dura contro lo storico alleato, meglio poterlo attaccare su un argomento unificante come la difesa della sicurezza nazionale americana che non su uno divisivo come la questione israelo-palestinese.
Il negoziato sul nucleare tra il 5 + 1 (gli Stati del Consiglio di sicurezza Onu, più la Germania) e l’Iran è considerata dalla maggior parte degli analisti come un potenziale punto di rottura per gli equilibri dell’intero Medio Oriente. Se la Repubblica Islamica ottenesse – al di là dei dettagli tecnici dell’accordo – il riconoscimento del proprio ruolo di potenza regionale, uscendo dall’isolamento internazionale ed inaugurando una nuova fase di rapporti con l’Occidente, tutte le geometrie dell’area sarebbero destinate a cambiare.