La corsa all’Artico
Sono tanti gli investitori stranieri che beneficiano dello scioglimento dell'ultima terra vergine, la Groenlandia, e delle risorse del Mar Glaciale Artico
Sono tanti gli investitori stranieri che beneficiano dello scioglimento dell’ultima terra vergine, la Groenlandia, e delle risorse del Mar Glaciale Artico
L’Artico è un paradosso. È una delle zone meno abitate del pianeta (la popolazione dell’area circumpolare tocca a stento i 13 milioni di individui), però vanta risorse naturali immense. È remoto, ma è accerchiato dalle maggiori economie mondiali. E oggi desta l’interesse persino di Paesi che, da un punto di vista meramente geografico, nulla hanno a che spartire con esso: non a caso da qualche anno fanno parte del Consiglio Artico, in qualità di osservatori, anche la Spagna, la Cina, l’India, l’Italia, il Giappone, la Corea del sud, Singapore, e ultimo acquisto, la Svizzera.
Complice il riscaldamento globale, l’area è (relativamente) più accessibile. Ma cambiamento climatico a parte, a contribuire alla rinnovata rilevanza dell’Artico è lo sviluppo economico asiatico. «Mentre le filiere delle materie prime vanno espandendosi per includere gran parte del pianeta, non soltanto cresce l’estrazione di risorse dall’Artico, ma anche la creazione di infrastrutture; spesso per supportare ulteriori attività estrattive o, oggi, sempre più spesso, scorciatoie nei collegamenti come la Rotta del Mare del Nord» spiega Mia Bennett, assistant professor di geografia all’università di Hong Kong, riferendosi alla rotta commerciale che costeggia la costa artica russa, dallo Stretto di Bering al Mare di Kara.
Un’altra opportunità di sviluppo, e assai sostenibile a livello ambientale, è la cosiddetta blue economy. Ad esempio, come spiega Max McGrath-Horn, founding partner della Arctic Tern Consulting, «le zone di pesca si stanno spostando rapidamente a nord. È il caso delle maggiori zone di pesca dell’aragosta, che si stanno già dirigendo verso la Groenlandia. L’isola potrebbe essere un grosso beneficiario [di questo cambiamento]». Il fenomeno dovrebbe riguardare pure le coste di Islanda, Canada, Russia, Usa e, in particolare, Norvegia.
E a proposito del Paese scandinavo, il caso della Norvegia del Nord (Nord-Norge) è emblematico. La remota regione, composta dalle tre contee di Nordland, Troms e Finnmark, è ricca di foreste, montagne e fiordi. Una sua isola, Magerøya, ha una falesia leggendaria: Capo Nord. Eppure il Pil della regione tra il 2008 e il 2013 è cresciuto quasi l’1% in più del resto del Paese. A trainare la crescita il turismo, il settore ittico, l’industria mineraria e, naturalmente, quella energetica: due terzi del petrolio non scoperto della Norvegia è nel Mare di Barents, e l’intera industria si sta spostando a nord (al pari dei merluzzi neri e delle aringhe alla ricerca di acque più fresche).
La Norvegia del Nord però non è soltanto economia tradizionale. Da Bruxelles Nils Kristian Sørheim Nilsen, direttore dell’Ufficio europeo della regione, dice: «Abbiamo due università, molto buone in ambiti come le discipline marine e minerarie, le tecnologie per i climi freddi, la e-health ecc. E siamo forti, ad esempio, nella bioprospezione marina». Ancora, la regione può contare su porti che non congelano mai: «Tutti pensano che l’Artico sia uguale ovunque. Ma non è vero, la nostra è una terra verde, grazie alla corrente del Golfo».
I porti della Norvegia del Nord potrebbero diventare una tappa della Via polare della seta tra la Cina e l’Europa. È un tema assai dibattuto a Kirkenes, al confine con la Russia. Qui ha sede il Consiglio euro-artico di Barents (di cui è osservatrice anche l’Italia), e qui potrebbero sbarcare – tra due o tre decadi – innumerevoli container dall’Asia. Il sogno è diventare uno dei maggiori porti della Scandinavia, e collegarsi a Rovaniemi in Finlandia, e da lì al resto del continente.
Ma la prudenza è d’obbligo. Secondo Ingrid A. Medby, senior lecturer in geografia politica presso la Oxford Brookes University, «il potenziale per il trasporto marittimo transpolare è in parte sopravvalutato; le condizioni sono semplicemente troppo avverse e costose perché esso possa davvero sostituire le rotte esistenti. Comunque la Rotta del Mare del Nord potrebbe diventare più trafficata nei prossimi anni, non ultimo se la Cina sceglie di farne una priorità».
Ha fatto il giro del mondo la notizia del viaggio di una grande portacontainer ice class dal porto russo di Vladivostok, sul Pacifico, a San Pietroburgo. Con il suo carico di elettronica sudcoreana e pesce congelato russo, il viaggio è stato accolto come il presagio di un mondo che verrà. Ma per ora le rotte tradizionali restano imbattibili. Ci vorrà molto tempo prima che i porti artici possano creare fastidi a quelli di Singapore, Amburgo o Rotterdam. I russi, però, ci credono.
Soprattutto, credono nel potenziale energetico e minerario dell’Artico. Per Mosca, nell’Artico russo ci sarebbero risorse per quasi 30 trilioni di dollari. Questo spiega come mai il Cremlino stia cercando di rafforzare il dispositivo militare artico: dalla costruzione di ulteriori basi militari (ad es. a Tiksi, sul Mare di Laptev), alle nuove motoslitte con mitragliatrice. Certo, la debolezza dell’economia russa è un freno al riarmo: secondo gli analisti interpellati, la Flotta del Nord, pur temibile, sarebbe in declino.
In passato l’assertività russa nell’area ha fatto storcere il naso a molti, in Occidente. Specie al Canada. Frédéric Lasserre, direttore del Consiglio quebecchese di studi geopolitici, spiega: «le priorità canadesi per l’Artico sono due: sostenere le proprie rivendicazioni sul Passaggio a Nordovest come acque interne; promuovere lo sviluppo delle comunità inuit e una forte partnership con il Nunavut e i Territori del Nord-Ovest. Ciò implica dare più voce in capitolo alle comunità locali per quanto concerne la regolazione della pesca, lo sfruttamento delle risorse naturali, il trasporto via mare».
Il supporto alle culture indigene è un dovere morale, ma anche un modo per consolidare la presenza canadese in regioni complesse. Basti pensare che nel Nunavut, su una popolazione di 37mila persone sparpagliate in un territorio grande quasi sette volte l’Italia, oltre 31mila sono inuit. Rispetto a russi e scandinavi, i canadesi investono meno nel loro estremo nord. Per fortuna di Ottawa, la corsa all’Artico è meno drammatica di quanto si pensi. Per il professor Lasserre, «la competizione tra le potenze nell’area è ampiamente per scena, almeno per ora».
Prevale la cooperazione, specialmente in ambito scientifico e ambientale. Alcune cancellerie, però, sono preoccupate. È il caso del Regno Unito, che secondo il Governo britannico «non è uno Stato artico, ma è il più prossimo vicino dell’Artico». Londra gradisce poco l’impennata di attività sottomarine russe nell’Atlantico del Nord: livelli, dicono, quasi da Guerra Fredda. Per Klaus Dodds, professore di geopolitica alla Royal Holloway, Università di Londra, «la politica artica del Regno Unito è guidata da due elementi. Il primo, il quadro politico artico Beyond the Ice, che sottolinea il ruolo che il Paese dovrebbe giocare in campi di interesse quali il commercio, lo sviluppo delle risorse, la scienza e la governance». Il secondo, una strategia britannica di difesa artica che «appoggerà una cooperazione militare più stretta con partner Nato come la Norvegia, gli Usa e i Paesi Bassi».
Nel corso dell’anno la RAF dovrebbe inviare quattro caccia Eurofighter Typhoon in Islanda. Non è un unicum. Negli ultimi anni anche Paesi come l’Italia, la Norvegia, la Danimarca e la Germania hanno mandato aerei nei cieli islandesi. In Occidente si teme anche il dinamismo economico di Pechino. Nel 2018 è scoppiato un mezzo caso internazionale quando si è saputo che un’azienda cinese voleva partecipare al potenziamento del sistema aeroportuale della Groenlandia. Perché nell’Artico si coopera, ma non troppo. L’Artico, appunto, è un paradosso.
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