Collante del potere dei Saud, la dottrina di Abd al-Wahhāb è arma a doppio taglio nel XXI secolo per il Regno, che per incapacità o convenienza non ne controlla gli effetti
Se si dovesse descrivere con due parole il rapporto fra lo Stato saudita e la dottrina wahabita, queste parole sarebbero “simbiosi” e “ambiguità”. Una simbiosi che risale agli anni Venti, quando la famiglia Al-Saud decise di ritentare la conquista della Penisola Arabica dopo il fallimento sofferto dal clan all’inizio dell’800. Come i suoi antenati un secolo prima, il leader e futuro sovrano Abdelaziz Al-Saud era riuscito a unificare i propri seguaci grazie all’uso della dottrina wahabita come cornice fondante del proprio potere. Una ideologia basata sul concetto del Tawhid – “unità” – dei credenti intorno a un unico leader servo della sola vera Fede. Abdelaziz si era circondato di una unità d’élite di beduini guerrieri, gli “Ikhuan” (i “fratelli”, che però non hanno nulla a che fare con i Fratelli Musulmani), un gruppo di veterani fanatici che risulteranno fondamentali nella conquista dell’Arabia.
Il rapporto tra il giovane e ambizioso leader e i suoi pretoriani si incrina però al termine dell’invasione. Nella loro avanzata gli Al-Saud avevano scacciato dalla Mecca il clan Hascemita (i cui discendenti regnano oggi sulla Giordania), alleato dell’Impero Britannico. Londra aveva reagito con prudenza, mandando rappresentanti da Abdelaziz per sondarne le intenzioni. Ed è a questo punto che entra in scena l’ambiguità del rapporto tra dottrina wahhabita e famiglia Al-Saud, una ambiguità che riemergerà ancora negli anni successivi. L’ambizioso Abdelaziz comprese che se desiderava restare al potere avrebbe dovuto frenare il proprio espansionismo e presentarsi come un interlocutore rispettabile davanti agli Stati europei. Non farlo avrebbe significato farsi nemico l’Impero britannico, troppo grande e potente da sconfiggere, così come era stato l’Impero Ottomano per i suoi antenati. Ma fermarsi alla Penisola Arabica contraddiceva l’aspirazione panislamica dei suoi seguaci più fanatici, e trasformava gli Ikhuan in un ingombrante fardello da eliminare. Eliminazione a cui Abdelaziz procedette sedandone la rivolta e condannandoli a morte a colpi di mitragliatrice. Questo atto di “tradimento” chiarirà a tutti che l’ideologia può essere seguita solo finché coincide con le aspirazioni della famiglia reale. Una ambiguità che riemergerà, pur con protagonisti diversi, oltre mezzo secolo più tardi.
Negli anni Ottanta gli eredi di Abdelaziz, arricchiti dai petrodollari e spaventati dal sorgere della Repubblica Islamica iraniana, useranno nuovamente la dottrina wahhabita per espandere la propria influenza nel mondo musulmano. Lo faranno “con le buone”, con la fondazione di moschee e biblioteche; e lo faranno “con le cattive”, con il finanziamento ai gruppi di mujahidin in lotta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. In quel caso, infatti, gli interessi della famiglia reale (e dell’alleato americano) coincidevano con quelli dei militanti più radicali. Miliardi di dollari affluirono per sostenere quei gruppi che poi andranno a costituire il nucleo fondante di Al-Qaeda sotto la guida di Bin Laden. La ritrovata piena armonia tra panislamismo wahhabita e monarchia saudita si era costruita nei decenni precedenti, quando Riyadh era diventata il punto d’approdo di numerosi studiosi legati al movimento dei Fratelli Musulmani, che dall’Egitto si era espanso a buona parte del Medio Oriente. La Fratellanza predicava la riscoperta “dal basso” dei valori islamici – in modo non dissimile dal Wahhabismo delle origini – e ammetteva il diritto di ingaggiare del “Jihad armato” contro i leader che – seppur musulmani “sulla carta” – non difendessero e applicassero tali valori. La fusione dei principi teorici della Fratellanza con quelli del Wahhabismo operata da studiosi come Sayyid Qutb – autore del concetto di “Takfir”, ovvero il diritto, in passato applicato anche dal movimento wahhabita, di dichiarare altri musulmani “infedeli” – e, più tardi, Abdullah Yusuf Azzam, maestro di Bin Laden in Afghanistan, darà alla leadership saudita l’illusione di poter esercitare la propria egemonia sull’intera Umma islamica. Come era accaduto alla fondazione del regno, però, questa illusione avrà vita breve.
Ben presto la leadership del movimento jihadista, uscito vittorioso dalla sfida afghana contro i sovietici, comincerà infatti a guardare con maggiore spirito critico le scelte dei suoi patron sauditi, soprattutto in seguito all’invasione irachena del Kuwait e la successiva reazione della Nato. Gli Al-Saud, spaventati dalle truppe di Saddam Hussein lungo i loro confini, avevano permesso agli Usa di stanziare truppe sul loro territorio, quella Penisola Arabica considerata la “Terra Santa” dell’Islam. Una decisione inaccettabile per la leadership di Al-Qaeda che la giudicò un segno inequivocabile della natura “kafir” – infedele – della monarchia. Una rottura che venne nuovamente confermata pochi anni più tardi. L’11 settembre segna infatti il momento difficile per la diplomazia del Regno. All’imbarazzo di essere accusata pubblicamente di aver contribuito a generare quegli eventi, per la monarchia saudita si aggiungeva la consapevolezza di essere sprovvista degli strumenti per mettere a freno il mostro che aveva creato. Il fascino esercitato dall’ideologia jihadista era infatti potente soprattutto tra i giovani sudditi, per i quali, in fondo, esso rappresentava semplicemente la piena applicazione della dottrina religiosa ufficiale del regno. Molti di essi negli anni Duemila andranno a formare AQAP (Al-Qaeda nella Penisola Arabica), il nucleo preposto proprio ad abbattere la monarchia saudita.
Dopo il panico iniziale, la reazione negli anni seguenti fu forte, variegata e spietata. Agli attacchi terroristici che avevano colpito le città del Regno il regime reagì in modo spietato e calcolato: un intricato sistema di sorveglianza venne utilizzato per incarcerare ed eliminare i soggetti più pericolosi, mentre i simpatizzanti vennero rinchiusi in campi di “rieducazione”, da dove usciranno anni più tardi. Ma è nella politica estera che le cose cambiarono drasticamente. Niente più sostegno a gruppi armati islamisti (anche se ci saranno eccezioni, come in Siria). A partire dagli anni Duemila i petrodollari sauditi si concentrarono nel sostegno a tutti quei gruppi “quietisti”, ovvero dichiaratamente disinteressati a qualunque attività politica. Esempio lampante è il movimento Al-Dawa in Egitto, da una parte impegnato nella predicazione dello stile di vita salafita caro al Wahhabismo e, dall’altra, strettamente fedele al regime di Hosni Mubarak. Riyadh rompe così definitivamente con la Fratellanza Musulmana, vista ormai come pericolosa portatrice di un approccio troppo “politico” e indipendente, tendente a mettere in dubbio la fedeltà ai regimi al potere. A Riyadh si decide di concentrare il proprio sostegno verso governi più “presentabili” anche di fronte agli alleati occidentali in grado, allo stesso tempo, di garantire una stabilità autoritaria e impedire l’espandersi di rivendicazioni democratiche. Prima della Primavera Araba ciò si esprimerà nel sostegno a leader come Hosni Mubarak in Egitto e Ben Ali in Tunisia. E, dal 2011 in poi, la stessa politica porterà l’Arabia Saudita in prima fila nel “fronte reazionario” contrario ai cambiamenti propugnati dalle Primavere arabe. Riyadh riverserà miliardi di dollari nel sostegno dei regimi messi in pericolo dalle proteste e nel 2013 sponsorizzerà il colpo di stato in Egitto a favore del “nuovo Mubarak” Abdel Fattah Al-Sisi. La Siria, storica alleata dell’avversario iraniano, emergerà come l’unica eccezione a questa politica. Per molto tempo i sauditi hanno sostenuto infatti alcuni gruppi ribelli di ispirazione salafita, come il famigerato Jaish Al-Islam, attivo nella regione di Damasco. Tale sostegno si rivelerà però un fiasco e, soprattutto dopo l’emergere di ISIS, finirà per mettere nuovamente Riyadh sotto accusa per i legami con il jihadismo internazionale. Anche grazie alla mediazione russa, Riyadh ha così cominciato un’opera di riavvicinamento ad Assad che potrebbe portare alla normalizzazione dei rapporti nei prossimi mesi, come già successo per EAU e Bahrein.
L’Arabia Saudita sembra quindi aver definitivamente chiuso con il sostegno diretto ai gruppi armati islamisti. Ma l’ambiguità resta. Nel 2018, un rapporto della Financial Action Task Force ha infatti evidenziato come Riyadh abbia represso con successo il finanziamento ai gruppi jihadisti attivi sul proprio territorio ma continui a prestare poca attenzione ai flussi di denaro sospetto che vanno a sostenere gruppi terroristici in altri paesi. Le autorità saudite sembrano quindi chiudere un occhio, ancora una volta, se alcuni loro abbienti cittadini desiderano sostenere il Jihad armato in giro per il mondo. Pare, infatti, che per molti sudditi risulti ancora difficile vedere una reale differenza tra la versione assolutista dell’Islam propugnata dai jihadisti e ciò che hanno imparato fin da bambini nelle scuole wahhabite del Regno.
@Ibn_Trovarelli
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Collante del potere dei Saud, la dottrina di Abd al-Wahhāb è arma a doppio taglio nel XXI secolo per il Regno, che per incapacità o convenienza non ne controlla gli effetti