La libertà di movimento tra i paesi europei è una delle grandi conquiste dell’Ue, ma non è irreversibile, né scontata.
Schengen è una fila di case tra la Mosella e i vigneti di Pinot e Riesling che si arrampicano sulle colline dietro il villaggio. Dall’altra parte del fiume c’è la Germania.
Appena un chilometro più a sud è già Francia. In una mezz’ora di macchina si arriva in Belgio, e in due ore nei Paesi Bassi. Non è un caso che proprio in questo borgo lussemburghese di 5.000 anime si sia deciso di firmare trent’anni fa l’accordo che ha abbattuto le frontiere interne dei paesi europei. Da queste parti i confini sono da sempre stati vissuti come un ostacolo, e non una protezione.
Passare la dogana per andare a coltivare il vigneto sull’altra sponda della Mosella o per salutare la propria bella di là dal fiume, evidentemente non è pratico. A un villaggio abituato a convivere e a mescolarsi con lo straniero, il più grande colpo inflitto durante la Seconda guerra mondiale fu la distruzione del ponte che lo univa alla Germania. Schengen si è preso la sua rivincita in grande.
Quel ponte è stato ricostruito e insieme ad esso simbolicamente altri mille, perché ogni frontiera abbattuta è come un nuovo ponte che si erige. E oggi Schengen è un simbolo mondiale di una nuova cultura che alle barriere contrappone la libertà di movimento.
L’importanza storica dell’accordo siglato a Schengen il 14 giugno 1985 tra i delegati di Lussemburgo, Germania, Francia, Belgio e Paesi Bassi è spesso sottovalutata, come tutte le grandi conquiste da cui deriva un benessere talmente diffuso da darlo per scontato. Oggi la maggioranza dei cittadini europei identifica l’Unione europea principalmente con la libertà di movimento tra i paesi che ne sono membri (vedi grafico). Attraversare un confine è una routine per centinaia di migliaia di pendolari. E sono sempre di meno quelli che ricordano le file e le ore perdute per i controlli delle guardie di frontiera. La libertà di oggi appare normale, ma è frutto di una rivoluzione. Nel secolo passato, le frontiere in Europa avevano una connotazione quasi sacra. Il confine definiva la nazione e la sua violazione reclamava vendetta e guerre. Dogane e posti di blocco puntellavano il continente. Oggi invece spesso ci si accorge che si è varcato un confine solo quando il cellulare segnala che si è in roaming (una nuova frontiera da abbattere).
Pochi di coloro che sperimentano questi vantaggi se ne vorrebbero privare. Eppure, le conquiste di Schengen non sono state immediate e sono tutt’altro che irreversibili. Dopo la firma del 1985, ci sono voluti ben dieci anni prima che i cinque stati pionieri smantellassero effettivamente i controlli alle rispettive frontiere. Lentamente, l’area di libero movimento si è estesa ad altri paesi, fino a coinvolgere quasi tutti gli stati dell’Unione europea, eccetto Regno Unito e Irlanda, che ne restano fuori per scelta, e Cipro, Croazia, Romania e Bulgaria, che sono in procinto di aderirvi. Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda ne sono membri pur non appartenendo all’Ue.
Anche se i controlli ai confini interni sono stati aboliti, i paesi dell’area Schengen possono reintrodurli temporaneamente e in via eccezionale, per ragioni di sicurezza. Restano e sono stati anzi rafforzati i confini esterni il cui controllo è affidato oltre che alle forze di sicurezza di ciascun paese, anche a un’agenzia dedicata dell’Unione europea, Frontex.
Nonostante gli enormi vantaggi, anche economici, apportati dall’abbattimento delle frontiere interne europee, il dibattito pubblico negli ultimi mesi è ritornato a mettere in questione Schengen.
La pressione migratoria nei paesi di confine, e in particolare nell’area mediterranea, accresce l’esigenza di una migliore gestione delle frontiere esterne e di più solidarietà tra i paesi europei nell’ospitare i richiedenti asilo. Sono questioni di rilevanza storica e rappresentano forse la sfida più importante per l’Europa in questo secolo. Ma poco hanno a vedere con Schengen. Le forze politiche, in genere di estrema destra, che chiedono il ripristino delle frontiere interne cavalcano le paure suscitate dalla percezione di insicurezza. I loro messaggi scuotono l’opinione pubblica, ma quanto sono credibili?
Che ci sia più immigrazione verso l’Ue non è dovuto alla libera circolazione nell’area Schengen, ma al fatto che si moltiplicano le guerre e le situazioni di povertà estrema in paesi che circondano l’Europa. Ricostituire i confini interni non ridurrebbe i flussi, ma cambierebbe semmai le rotte dell’immigrazione. I rifugiati hanno comunque diritto all’asilo, mentre la maggioranza degli immigrati clandestini sbarca in Europa con l’aereo in modo legale e poi resta oltre i tempi permessi, solitamente nello stesso paese di arrivo.
Anche l’accusa di aver aiutato il crimine abbattendo le frontiere è in gran parte infondata. Le organizzazioni criminali lavorano come multinazionali da molto prima che l’accordo di Schengen entrasse in vigore. Invece che aiutarle, Schengen ha reso loro la vita più difficile rafforzando la cooperazione e lo scambio di informazioni tra le forze di sicurezza dei paesi europei. Il continente è oggi più sicuro di prima. Secondo i dati più aggiornati a disposizione di Eurostat, tra il 2003 e il 2012 nell’Ue i crimini con valenza penale, come omicidi, furti o reati legati alla droga, sono diminuiti del 12%.
@fraguarascio
La libertà di movimento tra i paesi europei è una delle grandi conquiste dell’Ue, ma non è irreversibile, né scontata.