Lo scorso primo luglio, a Dacca, 20 persone – compresi 9 cittadini italiani – sono morte a causa di un feroce attentato terroristico. Per finanziare la carneficina, secondo la ricostruzione degli investigatori, sarebbero stati usati fondi arrivati dagli Emirati Arabi Uniti, elargiti da un simpatizzante – noto alle autorità e attualmente ricercato – ad una corrente del gruppo Jamaat-ul-Mujahideen, considerato la costola dello Stato Islamico in Bangladesh.
Monirul Islam, capo dell’unità antiterrorismo del Paese, ha precisato che il finanziamento è stato di 1,4 milioni di taka, circa 18mila dollari. I jihadisti avrebbero utilizzato il denaro per pagare un’abitazione in affitto da usare come base operativa e per comprare le armi usate durante l’attacco. Islam ha anche detto che le armi del massacro sono arrivate dell’India, ma non ha aggiunto altri particolari.
Il governo di Dacca, che subito dopo l’assalto ha iniziato ad ammettere la presenza di gruppi collegati ai tagliagole dell’ISIS nel Paese, sostiene che gran parte dei finanziamenti ai jihadisti arrivino dall’estero, anche grazie ad innumerevoli «associazioni umanitarie» con base in Kuwait, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Proprio per questo, le autorità del Bangladesh, a fine luglio hanno messo sotto osservazione undici Organizzazioni non governative (ONG). Tra queste troviamo la famosissima Islamic Relief – i suoi membri più volte sono stati accusati di aver fatto donazioni a personaggi radicali e gruppi estremisti – e poi Muslim Add Bangladesh, Rabata Al-Alam Al-Islmi, Qater Charitable Society e Kuwait Joint Relief Committee.
Ma i numeri delle ONG coinvolte potrebbero essere molte di più. Secondo Abul Barkat, professore all’Università di Dacca, esperto di economia e di fondamentalismo, infatti, sarebbero più di duecento le associazioni che avrebbero ricevuto fondi per aiutare gruppi terroristici in Bangladesh. Non solo. Barkat, nel suo scritto Economics of Fundamentalism and the Growth of Political Islam in Bangladesh dà un resoconto dettagliato, ben documentato e molto preoccupante delle infrastrutture organizzative ed economiche costruire negli anni dai jihadisti. L’esperto spiega che il netto annuo di incassi sarebbe pari a circa 200 milioni di dollari e arriverebbero grazie a numerose società create dai fondamentalisti. «Il 27 per cento dei ricavi – scrive Barkat – arriva da istituzioni finanziare, il 20,8 dalle organizzazioni umanitarie. Il 10,8 da esercizi commerciali, il 10,4 dal settore farmaceutico» e poi ancora da strutture educative, dal settore immobiliare, da quello del trasporto e dai mezzi di comunicazione.
Intanto la polizia del Paese ha riferito che il gruppo Jamaat-ul-Mujahideen, dopo le operazioni antiterrorismo che hanno ucciso una ventina di estremisti islamici, tra cui Tamim Ahmed Chowdhury – numero uno dei miliziani e considerato leader dello Stato Islamico in Bangladesh -, ha perso il 60 per cento della propria potenzialità. Ma con una macchina organizzativa ben strutturata, come quella descritta da Abul Barkat, sarà molto difficile smantellare l’organizzazione jihadista in poco tempo.
Monirul Islam, capo dell’unità antiterrorismo del Paese, ha precisato che il finanziamento è stato di 1,4 milioni di taka, circa 18mila dollari. I jihadisti avrebbero utilizzato il denaro per pagare un’abitazione in affitto da usare come base operativa e per comprare le armi usate durante l’attacco. Islam ha anche detto che le armi del massacro sono arrivate dell’India, ma non ha aggiunto altri particolari.