In questa fase storica segnata da una competizione tra potenze, il ruolo dello Stato è destinato ad aumentare anche nel settore del mercato, a scapito della libera impresa
In questa fase storica segnata da una competizione tra potenze, il ruolo dello Stato è destinato ad aumentare anche nel settore del mercato, a scapito della libera impresa
L’Europa ha scoperto che il calcio è un settore strategico. I principali Governi del continente sono scesi in campo, scarpette con tacchetti, per difenderlo dalla Superlega: non era mai stata raggiunta un’unanimità del genere e così immediata in altri momenti di “crisi”. Persino la Brexit è finita in secondo piano: Macron e Johnson divisi dalla Manica ma dalla stessa parte del rettangolo. È questo il primo caso di intervento diretto, post-pandemia, degli Stati nell’economia (sì, il calcio è un pezzo rilevante dell’economia)? È il debutto sui grandi schermi della Nuova Politica Industriale con le maiuscole? Forse sì, forse no: di certo è un cartellino giallo, avvertimento forse non meritato.
Ora: una Lega dei club ricchi non sembra piacere alla maggioranza degli appassionati; negli anni scorsi i club hanno gonfiato una bolla insostenibile che, colpita dai lockdown, è scoppiata; e non pochi signori del pallone non sono mai stati timidi nel mostrare, anche in forme sgradevoli, la loro dose di avidità. Il problema è però un altro. Le squadre di calcio sono società, nel senso di imprese, private: in Occidente hanno la libertà di fare lo loro scelte, anche sbagliate. Una cosa è se alla Superlega si ribellano – diciamo – i calciatori, i tifosi, l’opinione pubblica: bene. Un’altra è se i divieti o gli ostacoli alla creazione di un torneo sportivo tra privati li mettono i governi: male. La vicenda è utile per porsi delle domande: il caso Super League è un cartamodello per interventi futuri degli Stati nelle economie?
La domanda è di attualità. Il cambio di stagione nel mondo, rispetto ai decenni della globalizzazione senza barriere, è un fenomeno già avvenuto. Comunque, in corso già prima della pandemia da Covid-19 e da questa accelerato. Corre la teoria che l’epoca dominata dalle pratiche neoliberali – dagli Anni Ottanta in poi – è terminata e che siamo di nuovo in una fase in cui diventa centrale, o almeno decisamente più importante, l’intervento dello Stato nell’economia. In modi diversi a seconda dei luoghi e delle circostanze e con motivazioni diverse. Ma comunque un ritorno della politica nel mondo del business dal quale era stata a lungo esclusa
Già gli interventi pubblici a sostegno delle persone e delle imprese colpite dai lockdown hanno rimesso al centro dell’azione i Governi. Con i pacchetti di stimolo alle economie, in Europa e ancora di più negli Stati Uniti. E con l’enorme quantità di denaro creata dalla politica monetaria delle banche centrali – dalla Fed alla Bce, dalla Banca d’Inghilterra a quella del Giappone – che influenza in misura eccezionale i mercati finanziari. Stato in pieno dispiegamento. In parallelo, nella conversazione dell’Occidente è entrata con vigore la domanda di nuove politiche industriali.
In Italia, se ne parla ma ancora non ci siamo in modo organico. Il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti ha probabilmente raggiunto livelli non toccati in passato, non solo per le sue robuste partecipazioni azionarie in imprese rilevanti (Eni, Snam, Terna per citarne alcune) ma anche per finanziamenti nell’edilizia sociale, delle piccole e medie imprese, dell’internazionalizzazione delle aziende e per investimenti pubblici. Spesso interventi utili ma certamente indicativi del peso crescente che nell’economia ha lo Stato (la Cdp è controllata per oltre l’80% dal ministero dell’Economia e delle Finanze anche se non è consolidata nel bilancio pubblico). Qualcosa di simile è la crescita dell’attività svolta da entità “di sviluppo” simili alla Cassa in altri Paesi europei, a cominciare dalla tedesca Kfw.
Al momento, sempre restando in Italia, non si può però dire che l’attività della Cdp costituisca una politica industriale elaborata in un piano. E nemmeno politica industriale possono essere definiti gli interventi pubblici in casi come Alitalia e Ilva. Il Governo Draghi, d’altra parte, nelle settimane scorse ha utilizzato per la prima volta il Golden Power per bloccare l’acquisizione di una società italiana attiva nel campo dei semiconduttori da parte di un gruppo cinese. Per ragioni “strategiche”, dal momento che nel mondo c’è oggi una carenza di semiconduttori che crea problemi a parecchie industrie. Questo intervento è probabilmente quello che più si avvicina a un accenno di politica industriale. Ma non si può dire che un piano di intervento dello Stato nell’economia oggi ci sia, nonostante che questo intervento sia sempre più frequente.
Qui arriva il dibattito del momento: la richiesta che, partendo dai denari europei del Recovery Fund, si costruisca una vera politica industriale grazie alla quale il governo possa indirizzare l’economia del Paese e la sua modernizzazione, in senso digitale e verde. Si sottolinea che è importante per essere competitivi in un ambiente in trasformazione, caratterizzato da nuove tecnologie e da nuove domande di qualità ambientale da parte dei cittadini. In più, si dice che per sostenere la concorrenza dei grandi gruppi soprattutto cinesi ma anche americani è necessaria una politica industriale europea finalizzata a creare “campioni” continentali di livello globale. I maggiori sostenitori di questa posizione sono, fin da prima dello scoppio della pandemia, il ministro dell’Economia tedesco Peter Altmaier e quello francese di Economia e Finanze Bruno Le Maire. I quali hanno proposto di rivedere la politica della Concorrenza della Ue per consentire aggregazioni e fusioni societarie capaci di creare questi campioni europei. Implicitamente dicendo che per battere la Cina occorre essere un po’ dirigisti come la Cina.
Che in una fase storica come quella nella quale siamo entrati, segnata da una sempre maggiore competizione tra potenze, il ruolo dello Stato sia destinato ad aumentare è probabilmente inevitabile. Se la concorrenza non è più solo tra imprese ma tra nazioni e tra sistemi, i Governi avranno una voce maggiore rispetto al passato anche sugli affari commerciali ed economici (e questo già si vede ogni giorno). È un cambio di stagione che chiude l’epoca della globalizzazione senza ostacoli politici e apre quella del confronto più muscolare tra Stati. Non bella in particolare per l’Europa che da questo cambiamento di clima pare disorientata.
C’è però una domanda alla quale occorre rispondere prima di imboccare nuove strade: è il ricorso a una politica industriale ciò che permetterà alle economie di mercato di vincere la sfida con le economie di piano dei Paesi autoritari? Quando intraprendono una politica industriale, cioè scelgono quali settori privilegiare e quali direzioni dare all’economia, i Governi sanno allocare meglio del mercato le risorse? Sanno innovare meglio? Oppure tolgono risorse e spazio ai privati che negli anni scorsi sono stati i migliori innovatori? Spesso la risposta è che la Cina, caso estremo di dirigismo, è avanzatissima nelle nuove tecnologie e nell’innovazione. Cosa vera solo fino a un certo punto. È un fatto, per dire, che Pechino abbia mobilitato enormi risorse per sviluppare il settore dell’auto elettrica e nel campo sia il Paese più avanzato. Ma è altrettanto vero che la Tesla non è cinese, è americana. Questo per dire che quando si viene all’innovazione non è affatto detto che siano i muscoli finanziari di un governo a produrre i risultati migliori.
Spesso, anzi, capita che i politici sbaglino mira. La Super League poteva essere un prodotto portentoso, unico al mondo e globale, visto ovunque con avidità. Un vero “campione europeo”. I Governi l’hanno fulminato.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
In questa fase storica segnata da una competizione tra potenze, il ruolo dello Stato è destinato ad aumentare anche nel settore del mercato, a scapito della libera impresa
L’Europa ha scoperto che il calcio è un settore strategico. I principali Governi del continente sono scesi in campo, scarpette con tacchetti, per difenderlo dalla Superlega: non era mai stata raggiunta un’unanimità del genere e così immediata in altri momenti di “crisi”. Persino la Brexit è finita in secondo piano: Macron e Johnson divisi dalla Manica ma dalla stessa parte del rettangolo. È questo il primo caso di intervento diretto, post-pandemia, degli Stati nell’economia (sì, il calcio è un pezzo rilevante dell’economia)? È il debutto sui grandi schermi della Nuova Politica Industriale con le maiuscole? Forse sì, forse no: di certo è un cartellino giallo, avvertimento forse non meritato.
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