Alla svolta con cui la Turchia pare abbia abbandonato la connivenza con l’Isis – utile in funzione anti-curda e anti-Assad in Siria – per unirsi alla coalizione internazionale che combatte lo Stato Islamico, sono seguiti giorni di condotta ambigua da parte di Ankara.
Più che il Califfato sembra essere finito nel mirino dell’esercito e della polizia turchi il Pkk, il partito marxista curdo che da decenni lotta – anche tramite attentati – per l’indipendenza del Kurdistan, considerato da Turchia e Usa un’organizzazione terroristica, ma con cui erano in corso da due anni una tregua e delle trattative, fatte saltare da Ankara subito dopo l’annuncio della propria partecipazione alla guerra all’Isis. Nel corso del conflitto in Siria, tuttavia, i curdi siriani del Ypg (ala militare) e Pyd (ala politica), che sono collegati a doppio filo col Pkk, sono diventati progressivamente l’alleato più prezioso per gli Usa nella guerra all’Isis, la fanteria dell’aviazione internazionale. Indebolirli – anche tramite la creazione della “safe zone” al confine ipotizzata da Ankara, se diventasse un pretesto per stroncare sul nascere l’entità autonoma curda nel nord della Siria, la Rojava – significherebbe aiutare indirettamente lo Stato Islamico.
Il presidente turco Erdogan e il primo ministro Davutoglu sono dunque di fronte a un bivio e, secondo gli analisti, ancora non hanno preso una decisione definitiva, se dare la precedenza alla repressione dei curdi o sfruttare l’occasione della guerra al Califfato per riguadagnare centralità politica regionale e rapporti più stretti con l’Occidente. Se inseguire la linea ideologica del partito – l’islamico e sunnita Akp, vicino alla Fratellanza Musulmana – o il vantaggio strategico che potrebbe derivare dalla svolta. In attesa di capire cosa succederà sul fronte interno – dopo le ultime elezioni in cui l’Akp ha perso la maggioranza assoluta manca ancora un governo e secondo alcuni analisti Erdogan si starebbe preparando a nuove elezioni – il presidente e il premier secondo gli esperti prolungheranno un atteggiamento ambivalente in politica estera.
«La Turchia fino a poco tempo fa supportava, più o meno indirettamente, l’Isis in funzione anti-curda, per mantenere una situazione di “balance of power”», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici. «Adesso, su pressione americana e non solo, è stata trascinata nella guerra all’Isis e, non avendo ancora deciso in che direzione andare, bombarda tanto gli uomini del Califfo quanto i guerriglieri curdi, fiaccando così entrambe le fazioni e mantenendo l’equilibrio. Se si concentrasse solo su bersagli dello Stato Islamico il vantaggio per i curdi sarebbe immediato e sostanziale. Probabilmente – conclude – si vedrà nelle prossime settimane in che direzione intende andare Ankara e, oltre ai fattori interni, molto peserà l’evoluzione dei rapporti tra Usa e Iran dopo l’accordo sul nucleare».
Uno dei motivi che spingono gli analisti a ritenere che, uscita da questa fase di stallo, sia più probabile che la Turchia alla fine si concentri sullo Stato Islamico, accettando di aiutare indirettamente i curdi e anche Assad, è proprio la nuova prospettiva per le dinamiche economiche regionali con la fine delle sanzioni all’Iran: il governo turco stima tra i 35 e i 50 miliardi di interscambio economica con Teheran. La partecipazione allo sforzo bellico contro lo Stato Islamico – e un’eventuale riduzione, ovviamente ufficiosa, del supporto ai ribelli anti-Assad – potrebbe essere spesa al tavolo negoziale con l’Iran per ottenere rapporti privilegiati, e anche per discutere con Teheran della questione curda (secondo indiscrezioni di stampa l’Iran starebbe già trattando coi curdi per garantire loro una vera autonomia in cambio degli sforzi in Siria contro l’Isis, un aiuto de facto ad Assad).
Ma non c’è solo la questione iraniana a pesare. Gli Usa, che pure hanno giustificato il recente comportamento di Ankara nei confronti del Pkk anche in sede Nato (più freddi gli Stati europei, Germania in primis), non sembrano tuttavia disposti a tollerare che la Turchia esageri nel colpire i movimenti curdi, indebolendo così il contrasto all’espansione del Califfato. Fonti dell’amministrazione americana citate da Foreign Policy hanno dichiarato che non abbandoneranno al loro destino i curdi e che «non vogliamo che la situazione si complichi. I curdi siriani hanno riportato importanti successi, e non li dimenticheremo». Tra Ankara e Washington stanno poi emergendo divergenze anche sulla “safe zone” che si vorrebbe creare sul confine nord della Siria. Gli americani vorrebbero usarla come base per attaccare l’Isis, addestrando qua ribelli siriani moderati (finora il programma è stato un disastro: a fronte di 500 milioni di dollari stanziati sono stati addestrati appena 60 uomini, e alla prima prova sul campo il loro comandante e diversi altri membri pare siano stati catturati dalla formazione qaedista Al Nousra ad Aleppo. I Turchi vorrebbero – per ora, a parole, in attesa che la direzione strategica da intraprendere diventi più chiara – che qui venissero addestrati ribelli anti-Assad (e finora Ankara non si è mostrata troppo sensibile al problema dell’estremismo islamico all’interno degli insorti). Se abbandonassero la loro posizione attuale – sia sui curdi che sui ribelli jihadisti anti-Assad – potrebbero ri-forgiare migliori rapporti tanto con li Usa quanto con l’Unione europea. Mantenerla, andando in rotta di collisione con la Casa Bianca, potrebbe essere rischioso nel medio periodo, specie se la situazione sul terreno in Siria rimanesse bloccata per anni, anzi con un probabile rafforzamento di Assad grazie all’ascesa dell’Iran nella regione .
Abbandonare l’ambiguità e portare la svolta alle sue estreme conseguenze è un boccone amaro per Erdogan, che dopo le Primavere arabe tramite il supporto alla Fratellanza Musulmana in Egitto, Libia, Tunisia e Siria coltivava ambizioni neo-ottomane e ora, fallito ovunque l’esperimento, è costretto a una clamorosa retromarcia. Ma se dovesse rimanere lui al timone della Turchia questa potrebbe essere l’alternativa meno dolorosa a un’ostinata coerenza, destinata ad accrescere l’isolamento di Ankara – al cui fianco sono rimasti per puro interesse i Sauditi, che tuttavia hanno un’altra visione ideologica e ritengono la Fratellanza Musulmana un’organizzazione terroristica – e a peggiorare le sue prospettive geopolitiche per l’avvenire.
@TommasoCanetta