Le elezioni del 2022 si annunciano incerte per Viktor Orbán (in carica dal 2010): l’opposizione è unita contro di lui per la prima volta
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Il premier ungherese Viktor Orbán è un principe azzurro che dalle belle speranze liberaldemocratiche animate dopo la dissoluzione della cortina di ferro si è rapidamente trasformato in un rospo-vestale della fortezza Europa, ideologo della “democrazia illiberale” e cavallo di Troia nazionalista nel cuore del centrodestra europeo.
Orbán tiene sotto scacco l’Europa politica, come ha dimostrato con l’intenso braccio di ferro per l’approvazione del bilancio pluriennale 2021-2027, che porta in dote anche il Recovery Plan Next Generation EU. Il pacchetto finanziario era osteggiato dal magiaro, in team con l’ultradestra che governa in Polonia, per la presenza di un meccanismo di condizionalità fra i fondi Ue e il rispetto dello stato di diritto. L’ungherese è il “signor no” che incassa da Bruxelles come da un Bancomat – secondo stime della Commissione europea, nello scorso ciclo finanziario Budapest avrebbe ottenuto un saldo positivo di circa 5 miliardi di euro −, ma accusa l’Ue di voler imporre dall’alto un modello di società in contrasto con i princìpi cristiani. Nel frattempo, instaura in patria uno schema di governo sempre più autoritario – dai limiti alla libertà dei media e accademica al controllo della magistratura – e sfida l’Ue su politiche migratorie, giustizia e diritti.
Il Fidesz e i rapporti con il Ppe
Viktor Orbán è diventato la spina nel fianco del Partito popolare europeo (Ppe), la famiglia politica di cristiano-democratici che conta 83 forze affiliate in 43 Paesi, anche oltre i confini Ue: un centrodestra moderato pilastro della grande coalizione che sostiene la Commissione di Ursula von der Leyen – con 187 eurodeputati rappresenta il primo gruppo del Parlamento – e che tiene la barra del Consiglio europeo, dove esprime 11 leader degli Stati membri su 27.
Fidesz è membro del Ppe dal 2000, ma da due anni i rapporti sono particolarmente tesi. Dal marzo 2019, infatti, è stato sospeso dalla formazione: ciò comporta l’impossibilità per i suoi rappresentanti di partecipare alle riunioni e di esprimere candidati per i ruoli di leadership interna. La decisione fu presa pressoché all’unanimità dall’assemblea del partito in un momento molto delicato, in piena campagna elettorale per le europee. La tensione interna alla grande famiglia del centrodestra Ue era diventata insostenibile, con accuse reciproche, l’insofferenza dei popolari del nord Europa preoccupati per la tenuta nelle urne e un vero e proprio fuoco amico aperto da Budapest contro figure chiave del partito.
Il voto del maggio 2019 dimostrò la presa di Fidesz, partito-Paese, sull’Ungheria: oltre il 52% dei voti e 13 eurodeputati eletti su 21. La vendetta di Orbán fu servita in occasione della designazione del presidente della Commissione europea: veto sul nome del capogruppo al Parlamento Manfred Weber, “testa di lista” Ppe e candidato naturale al ruolo, e apertura di credito verso von der Leyen.
La sospensione di Fidesz dal Ppe è stata poi prorogata nel febbraio 2020 ed è finita per essere messa in standby dalla pandemia, che ha reso impossibili assise in presenza. Eppure è sempre più chiara l’insofferenza per Orbán all’interno di un Ppe diviso fra varie correnti. Nonostante l’attivismo di Donald Tusk, Presidente dei popolari dal tweet facile e dalla reprimenda contro Orbán assicurata, la struttura del partito prende tempo – se ne riparlerà verosimilmente all’assemblea in calendario in autunno −, mentre il gruppo parlamentare alza le barricate (è recente la sospensione del capo-delegazione ungherese per aver paragonato Weber a un ufficiale della Gestapo).
Ma perché il Ppe ha deciso di non decidere? Sul caso è in atto una battaglia per l’anima del centrodestra europeo: sposare la tendenza liberale nordica o la variante ultra-conservatrice “Dio, patria e famiglia”? I rischi di una scissione non sono un mistero, e qualsiasi decisione sul futuro di Fidesz avrebbe un effetto domino sulle sorti del Ppe stesso. Da una parte c’è una truppa capitanata da Svezia, Finlandia e Lussemburgo che vorrebbe mettere la parola fine sulla saga, con l’espulsione di Fidesz. Sul fronte opposto, invece, forze di provata fede democristiana − e non pochi scandali – che sono al potere in Stati di nuovo ingresso (Croazia e Bulgaria) e pattuglie in ritirata ma ancora influenti di Paesi fondatori (Les Républicains francesi e Forza Italia), che non vogliono vedere Fidesz aderire a un gruppo parlamentare concorrente, magari proprio quello dei Conservatori e riformisti dove siedono i polacchi del PiS, invisi al connazionale Tusk ma con cui Orbán fa già fronte comune a est.
I rapporti con la delegazione tedesca del Ppe
L’elefante nella stanza è però la delegazione tedesca, vero baricentro del Ppe. I rapporti tra Orbán e Cdu/Csu risalgono al crepuscolo di Helmut Kohl, mesi in cui aveva invece inizio la carriera politica del leader magiaro. Nonostante il progressivo raffreddamento delle relazioni con Angela Merkel, Orbán ha sempre mantenuto un dialogo aperto con alcuni presidenti di Länder e, in particolare, con il settore automobilistico tedesco. L’Ungheria è un anello centrale della catena del valore della Germania: negli anni è divenuta un importante hub manifatturiero per Berlino, che vi disloca gli stabilimenti produttivi delle sue maggiori case automobilistiche (Volkswagen, Bmw e Mercedes-Benz). I benefici dell’appartenenza al mercato unico Ue si traducono in un indotto che supera il 10% del Pil magiaro. A settembre, un’inchiesta del centro di giornalismo investigativo ungherese Direkt 36 ha messo in luce come, in particolare dopo il diesel-gate del 2015, Orbán avrebbe accettato di porsi a tutela degli interessi dell’automotive della Germania in Europa. Ma ci sono stati anche investimenti tedeschi poco benvenuti, come quelli in un settore delicato quale l’informazione, da cui si sono ritirati nel tempo gruppi come Axel Springer. Il lancio da parte di Deutsche Welle di una programmazione in lingua ungherese, annunciato a fine febbraio, è stato del resto tacciato da Budapest di “imperialismo culturale”.
La permanenza degli ungheresi nel Ppe diventa, in ultima analisi, una partita tutta tedesca e rimanda allo scontro mai sopito tra le due frange della Cdu: quella merkeliana e aperturista, e quella dei falchi, battuti di misura a gennaio nella corsa per la leadership dal moderato Armin Laschet. Il 2021, però, è un anno molto particolare per la Germania e, di conseguenza, anche per i popolari Ue in cerca di una sintesi. Le elezioni federali del 26 settembre sono le prime in 16 anni a non vedere Merkel in campo. Il nuovo volto dei cristiano-democratici tedeschi sarà fondamentale per capire dove andrà il Ppe e come vorrà risolvere la crisi d’identità aperta da Fidesz.
Per ora, l’inerzia del Ppe, anziché mettere all’angolo gli orbániani, ha in qualche modo fatto lievitare il problema. E creato, al suo interno, un sosia dell’ungherese: Janez Janša, il pittoresco premier della Slovenia. Da luglio a dicembre, il piccolo Paese ex jugoslavo terrà le redini del semestre di presidenza del Consiglio e sarà interessante vedere il gioco di sponda (e i rinvii) tra Lubiana e Budapest sui dossier più delicati. Dopo aver spalleggiato l’Ungheria su Next Generation EU e stato di diritto, Janša ha fatto parlare di sé per sortite complottiste – su tutte, il tweet con cui, dopo l’Election Day Usa brindava al successo di Trump – e ha seguito il mentore Orbán con frequenti attacchi alla stampa, minacciando pure di bloccarne le sovvenzioni pubbliche.
Insomma, una seconda grana per la tedesca von der Leyen, che del Ppe è figura chiave, ma che dalla Commissione europea tratta il dossier ungherese con prudenza, in sporadiche dichiarazioni ufficiali, e soprattutto con i guanti di velluto e le tempistiche dilatate delle procedure istituzionali. Aspettando la competizione elettorale del 2022 in Ungheria, che potrebbe archiviare l’era Orbán e togliere le castagne dal fuoco ai popolari Ue (le opposizioni si presenteranno con un listone unico, oggi dato in lieve vantaggio), il punto resta politico. In tempi ordinari, alla vigilia e a margine dei Vertici Ue si terrebbero riunioni interne al Ppe in grado di fornire la possibilità per dei faccia a faccia con i ribelli. Il formato videoconferenza è, per ora, un alibi per tutti. Nessuno ha interesse a concludere la guerra di logoramento con una call su Zoom. E allora si allungano i tempi e i rischi di un progressivo sfilacciamento del Ppe, Balena bianca troppo grande per non arenarsi sulle frastagliate coste d’Europa.