Usa, Biden: dilemmi e strategie del nuovo Presidente
Joe Biden ha confermato la sua prima iniziativa internazionale, in attesa che gli equilibri mondiali siano più chiari: un summit sulla democrazia
Joe Biden ha confermato la sua prima iniziativa internazionale, in attesa che gli equilibri mondiali siano più chiari: un summit sulla democrazia
Chi vincerà alla fine, il “blob” o l’innovazione? La partita sul futuro dell’amministrazione Biden, dispute legali col risentito Trump a parte, è racchiusa tutta nella risposta a questa domanda. Che tradotta per i non addetti ai lavori, si riassume nel dilemma elaborato dall’ex vice consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Ben Rhodes, sull’ultimo numero della rivista Foreign Affairs. Ossia: nelle scelte del presidente eletto per il suo governo, tanto in termini di personale, quanto in quelli di linea, prevarrà la vecchia guardia centrista, o i giovani turchi decisi a cambiare il passo degli Stati Uniti?
Dopo la sorprendente sconfitta del 2016, il postmortem fatto dagli analisti democratici aveva lasciato il partito davanti a questo bivio per il 2020: affidarsi all’ala sinistra, che con Sanders, Warren, e poi Ocasio-Cortez aveva magari la forza di suscitare entusiasmo, ma avrebbe offerto a Trump l’occasione per terrorizzare gli elettori moderati agitando il fantasma del socialismo, oppure tentare ancora la rivincita con l’arma della moderazione, brandita dai vecchi leoni tipo Biden, e dagli emergenti come Buttigieg o Klobuchar? Dopo le prime esitazioni in Iowa e New Hampshire, gli elettori avevano puntato su Joe, soprattutto grazie alla spinta decisiva dell’elettorato afroamericano in South Carolina. Il voto del 3 novembre ha dimostrato che avevano avuto ragione, perché Biden è riuscito a ricostruire il “blue wall” di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, riportando a casa abbastanza colletti blu ed elettori bianchi della classe media e bassa, ma si è espanso anche in territorio repubblicano, risultando competitivo in Georgia grazie ai neri, e in Arizona grazie agli ispanici non cubani, che invece lo hanno tradito in Florida.
Quale direzione prendere?
L’esito delle presidenziali quindi ha lasciato Joe davanti a un doppio dilemma. Il primo è quanto spazio dare all’ala progressista del partito, che lo ha aiutato restando unita a lui durante la campagna, ma subito dopo ha iniziato a rivendicare poltrone, a partire proprio da Ocasio-Cortez. Il problema è che Biden pensa di aver vinto grazie all’immagine di moderato capace di rimarginare le ferite dell’America culturalmente spaccata a metà, ossia la conquista del “centro vitale” esaltato un tempo da Arthur Schlesinger, e quindi teme che una deriva sinistrorsa lo condannerebbe al fallimento. Il secondo dilemma, ammesso che l’inclinazione centrista prevalga, è a quali centristi consegnare le chiavi dell’amministrazione. Quelli che Rhodes ha definito il “blob”, ossia la vecchia guardia soggetta alla “tentazione di restaurare l’immagine degli Stati Uniti del dopo Guerra Fredda come potenza egemone virtuosa”, oppure la nuova generazione giovane, moderata ma decisa a indirizzare il Paese su una linea più innovativa? È chiaro che isolazionismo e “America First” tornano nello sgabuzzino oscuro degli incubi passati, ma per andare dove? Per esempio, tornare alle vecchie alleanze mediorientali con Israele e Arabia Saudita, come ha fatto lo stesso Trump, oppure cercare di resuscitare l’accordo nucleare con l’Iran? Continuare a misurare le minacce per la sicurezza nazionale in termini di testate nucleari, oppure porre decisamente in cima alla lista i cambiamenti climatici? Procedere con cautela in politica interna, o ambire ad un nuovo “eccezionalismo”, che curi finalmente le ferite del razzismo sistemico e delle disuguaglianze economiche e sociali?
Per certi versi a Joe Biden va meglio così com’è andata. Naturalmente se il ballottaggio di gennaio per i due seggi della Georgia gli regalasse anche la maggioranza al Senato, lui sarebbe felice, perché vorrebbe dire avere via libera per l’approvazione di qualunque legge e la conferma di ogni nomina. Se però la Camera alta resterà nelle mani del suo amico/nemico repubblicano McConnell, ciò gli darà la scusa per formare il governo di moderati che avrebbe sempre preferito, e attuare un programma centrista per riunificare l’America e farla ripartire dopo il Covid.
Joe ha vinto presentandosi come centrista rassicurante, e ora avrà il difficile compito di sanare le ferite degli Usa, cercando di riunificarli. A questo scopo sarà essenziale coinvolgere la sinistra del suo partito che lo ha appoggiato, da Sanders a Ocasio, senza però consegnarle le chiavi del governo. Nello stesso tempo dovrà dialogare coi moderati repubblicani, anche per cercare di dividerli da Trump, se davvero pensa di ricandidarsi nel 2024.
Il team di Biden
Il transition team è stato guidato dall’ex senatore Ted Kaufman, che ha coinvolto anche la vedova di McCain, Cindy, per lanciare un chiaro segnale di apertura bipartisan. Quando Biden era senatore, i suoi colleghi democratici spesso si lamentavano della sua propensione per fare accordi bipartisan, che ora tornano come suo obiettivo.
I nomi sono significativi. Il posto di capo di gabinetto è stato assegnato a Ron Klain suo collaboratore storico. Klain era l’uomo che durante l’amministrazione Obama aveva gestito la risposta all’epidemia di Ebola, e quindi ha un’esperienza che lo accredita con il Covid. La pandemia è stata la svolta che ha cambiato la dinamica delle presidenziali, che all’inizio dell’anno sembravano orientate verso una facile conferma di Trump. Il capo della Casa Bianca ha commesso l’errore strategico di sottovalutarla, nel timore che le misure necessarie a fermare il virus avrebbero bloccato anche l’economia, deragliando la sua conferma. Se avesse scelto di diventare davvero un “Presidente di guerra”, appellandosi all’unità del Paese per combattere il nemico comune, la sua popolarità sarebbe salita alle stelle, come era accaduto con Bush figlio dopo l’11 settembre. Ma Donald non ha avuto il coraggio, o l’arguzia, di seguire questa strada, aprendo la porta dove si è infilato Joe.
Come segretario di Stato è in corsa l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice, già considerata anche come possibile vice Presidente. I repubblicani però non la confermerebbero mai, perché la accusano di aver negato la matrice terroristica dell’attacco di Bengasi, quando era ambasciatrice all’Onu. Se il Senato resterà nelle mani del Gop, quindi, nominare lei potrebbe risultare un suicidio. Le alternative sono il senatore del Delaware Chris Coons, che occupa la poltrona appartenuta un tempo proprio a Biden, e verrebbe sostituito dalla deputata nera Lisa Rochester. Oppure l’ex vicesegretario di Stato Tony Blinken, membro del “blob”, che però ha il vantaggio di collaborare con Joe da quando era alla Commissione esteri del Senato.
Le probabili scelte di Biden
Al Pentagono si parla di Michèle Flournoy, perenne candidata dei democratici alla guida dell’apparato militare. Anche lei è una moderata, che probabilmente si opporrebbe ai tagli alla difesa voluti dall’ala progressista, per risparmiare soldi da investire invece nelle politiche sociali. Un’alternativa potrebbe essere la senatrice dell’Illinois Tammy Duckworth, veterana della guerra in Iraq dove ha perso entrambe le gambe, e quindi certamente non ostile al mondo militare, o anche il senatore del Rhode Island Jack Reed.
Alla Giustizia potrebbe andare Sally Yates, eroina della resistenza a Trump, perché da segretaria ad interim aveva rifiutato di difendere l’ordine esecutivo per il bando dei musulmani. Sarebbe difficile da confermare, però, se l’ultima parola spettasse a McConnell. Quindi si parla anche dell’ex senatore dell’Alabama Doug Jones, sconfitto nelle elezioni del 3 novembre, ma affidabile moderato.
La senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren vorrebbe il Tesoro, con grande preoccupazione di Wall Street, che la vede come nemica giurata alle dipendenze dell’ala socialista del Partito democratico. Ma ancora una volta con la scusa del veto di McConnell, Biden le preferirebbe la moderata Lael Brainard, che non terrorizza imprenditori e finanziari grazie anche alla sua esperienza come governatrice della Federal Reserve.
Biden avrebbe considerato di imporre una moratoria al reclutamento dei senatori nel gabinetto, in modo da tenere fuori anche Sanders, che avrebbe gradito la guida del dipartimento al Lavoro. Più forte sarebbe la segretaria della California Labor and Workforce Development Agency Julie Su, o anche il presidente del Partito democratico Tom Perez, che servirebbe a lanciare un segnale di attenzione agli ispanici.
Un posto dovrebbe trovarlo anche Pete Buttigieg, che ha un’anima di moderato dell’Indiana, ed è stato fedele a Biden nell’appoggio durante la campagna. Potrebbe fare il segretario per i Veterani, visto il servizio in Afghanistan, ma il suo vero sogno sarebbe andare a New York per fare l’ambasciatore all’Onu. Buon trampolino di lancio per nuove avventure, inclusa magari un’altra corsa per diventare il primo capo della Casa Bianca gay.
Come Consigliere per la sicurezza nazionale, oltre a Blinken, sono in corsa i due giovani consiglieri Jake Sullivan, stretto collaboratore anche di Hillary Cinton, e Mike Carpenter, direttore del Penn Biden Center for Diplomacy and Global Engagement alla University of Pennsylvania, cioè il think tank familiare dove Joe ha preparato la rivincita.
Per la Cia si parla di Avril Haines, già vicedirettrice durante l’amministrazione Obama, mentre il ruolo di capo dell’intelligence nazionale potrebbe andare all’italiano Robert Cardillo, ex guida della National Geospatial-Intelligence Agency. Un posto lo vorrebbe anche Stacey Abrams, che era stata considerata come vicepresidente, ed è stata decisiva per il risultato sorprendente ottenuto da Biden in Georgia.
Anche l’ex segretario di Stato John Kerry, vecchio amico di Joe che lo aveva accompagnato fin dalla campagna in autobus per i caucus dell’Iowa, dovrebbe avere un ruolo. Per lui si parla di possibile zar delle politiche legate all’ambiente e l’emergenza clima, che saranno al centro del programma dell’amministrazione.
L’agenda governativa
L’agenda del Governo è dettata dagli impegni presi in campagna elettorale: lotta al Covid, rilancio dell’economia con un occhio di riguardo per i colletti blu del Midwest, infrastrutture, clima ed energia pulita, tensioni razziali, riforma della polizia. In politica internazionale possiamo aspettarci un rapido ritorno nell’accordo di Parigi sul clima, e nell’Oms per combattere la pandemia. Il rapporto con gli alleati europei verrà rilanciato, ma proseguiranno le pressioni affinché assumano più responsabilità, anche economiche, per la difesa comune e lo sviluppo. La Cina resterà il rivale principale, ma Biden cambierà strategia, passando dalla linea dei dazi a quella del ricorso alle alleanze, per spingere Pechino a cambiare le sue politiche più aggressive.
La prima iniziativa internazionale di Biden, però, sarà la convocazione di un Summit della democrazia. Il suo consigliere Mike Carpenter ha spiegato così l’obiettivo e l’agenda: “Il presidente porrà molta enfasi sul sostegno della democrazia, tanto le istituzioni delle nostre nazioni, quanto i movimenti che la promuovono altrove e sono minacciati. Nel mio paese un governo populista di estrema destra ha eroso le norme democratiche, perciò tutti noi dobbiamo riaffermare l’impegno a rispettarle e tutelarle”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Joe Biden ha confermato la sua prima iniziativa internazionale, in attesa che gli equilibri mondiali siano più chiari: un summit sulla democrazia
Chi vincerà alla fine, il “blob” o l’innovazione? La partita sul futuro dell’amministrazione Biden, dispute legali col risentito Trump a parte, è racchiusa tutta nella risposta a questa domanda. Che tradotta per i non addetti ai lavori, si riassume nel dilemma elaborato dall’ex vice consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Ben Rhodes, sull’ultimo numero della rivista Foreign Affairs. Ossia: nelle scelte del presidente eletto per il suo governo, tanto in termini di personale, quanto in quelli di linea, prevarrà la vecchia guardia centrista, o i giovani turchi decisi a cambiare il passo degli Stati Uniti?
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