Nel paese con le maggiori riserve di petrolio al mondo, gli scaffali nei supermercati sono vuoti e la gente ha fame. Il crollo del prezzo del petrolio ha mostrato le disastrose finanze dell’esperimento chavista. Il default potrebbe essere solo questione di tempo.
Le code che “avvolgono” gli isolati sono una scena quotidiana nelle città venezuelane. A Caracas, una donna seduta sotto un albero con un bambino dice che per comprare il latte, lei e il marito si alternano nella coda dalle 4,30 del mattino. Ma il latte è finito. E anche i pannolini. Un’altra si accontenterà di comprare del sapone. Ha un numero. Vuol dire che ha passato il primo controllo per i prodotti razionati.
I soldati sono schierati alle porte del supermercato e lungo la coda che attraversa il parcheggio. Le persone sono disciplinate, ma basta un niente e scoppiano: “Ministra, venga a vedere, non c’è carne, non ci sono polli!” I polli non ci sono perché non ci sono soldi per importare i vaccini aviari.
Le casse dello Stato sono vuote. Anni di sussidi perversi, anche per la benzina e la valuta, e una gestione finanziaria asservita alla politica hanno nel tempo ridotto le riserve del paese a soli 20 miliardi di dollari. Non bastano neppure per immaginare di compensare i mancati introiti dovuti al crollo dei prezzi del petrolio in una economia che ne dipende per il 95%.
I dati sulle riserve e quelli economici, come l’inflazione al 56,2%, hanno spinto Moody’s a gennaio a declassare il paese caraibico ancora una volta, considerando quindi possibile un default sul debito. I mercati hanno subito svenduto le obbligazioni e i rendimenti sono schizzati. Il Brasile ha chiesto a Caracas di garantire il prestito di 5 miliardi di dollari con oro. Certi analisti danno un 50% di probabilità di un default nel 2016, ma alcuni economisti venezuelani, come Tamara Herrera, suggeriscono di pensare già a un default ordinato.
Se l’economia era già in ginocchio, ora è a terra. E ha dato da fare per tutto il mese al governo di Nicolas Maduro. Ha cominciato col viaggiare a Qatar e Cina alla ricerca di denaro fresco (con successo ma non risolutivo). Una settimana fa ha varato il nuovo sistema di cambio a tre tassi. Un dollaro vale 6,30 bolivar se s’importano cibo o medicine, 12 per altri prodotti e un tasso determinato dal mercato per il resto. Difatti, però, chi vuole dollari, li otterrà a discrezione delle autorità monetarie secondo ciò che dichiara di voler acquistare. Foreign Policy spiega che con i contatti giusti nella nomenclatura chavista, è possibile acquistare dollari al tasso di 6,30 dichiarando di voler importare un prodotto di base, usarne solo una piccola parte per comprarlo e rivendere il resto al mercato nero, dove 1 dollaro rende 180 bolivar. Il guadagno può arrivare al 2600%.
Il governo ha poi fissato il prezzo dello zucchero a 26,50 bolivar. Ne risulta che ora in Venezuela un chilo di zucchero costa 4 volte più che negli Usa. La differenza tra il prezzo reale e quello imposto dal cambio continua a pagarla, dissanguandosi lo Stato. Alcuni osservatori dicono che il governo mantiene il tasso del 6.3 per tenere buono l’establishment chavista che ne trae grandi benefici.
E qualcun altro deve aver beneficiato dei fondi messi a disposizione per i 958 progetti di strutture sanitarie i cui cantieri non sono mai partiti. Nella giornata mondiale del malato le code negli ospedali cadenti sono apparse più lunghe che mai.
La popolarità del presidente è scesa al 22%, ma ciò implica soprattutto che il governo mantiene la morsa attorno ai critici del regime, all’opposizione e ai mezzi d’informazione più serrata che mai.
A essere un giornalista oggi in Venezuela, o solo a farsi vedere con un microfono o una machina fotografica, si rischiano soprusi da parte della Guardia nazionale e della polizia, quando non si tratta di attacchi fisici. Più di 100 hanno lasciato il paese.
La settimana ha segnato anche l’anniversario della protesta studentesca contro la censura, l’insicurezza e la corruzione, che è costata 18 vite.
Caracas si è svegliata tappezzata di scritte e cartelli che ricordano gli studenti e le studentesse uccisi. Non ci sono ancora responsabili. Tre, scrive El Nacional, sono ancora detenuti nel carcere detto “La Tomba”, una prigione nel centro di Caracas sita cinque piani sottoterra, dove si respira male, la luce è sempre accesa e gli altoparlanti riproducono ininterrottamente i discorsi di Chávez. Un altro studente è stato ucciso per un tweet nel quale protestava per la violenza della polizia. Gli studenti sono anche stati pestati e denudati dai “collettivi” paramilitari Tupac Amaru, le milizie chaviste sfuggite al controllo del governo. A poco è servito finora il richiamo delle Nazioni Unite.
Date le difficoltà, il governo sembra aver scelto come strategia quella di distrarre la popolazione. Così ha speso 35 milioni di dollari (è solo la cifra ufficiale) per costruire due mega stadi – ma non trova come finanziare i numerosi programmi sociali che gli sono valsi tanto consenso.
“La situazione non scoppia perché il governo tiene occupate per ore e ore al giorno le famiglie a cercare cibo, a tentare di tornare a casa senza diventare uno dei 25.000 morti che ci sono all’anno in Venezuela e a non farsi arrestare per aver protestato per gli scaffali vuoti”, sintetizza la giornalista Zairena Barbosa. E non scoppia anche perché l’opposizione è frammentata. E mal finanziata. Se la sostengono, le imprese rischiano il fallimento o la prigione dei dirigenti.
La censura e la repressione non sono certo una novità in Sudamerica. In questo caso, però, sono legate all’economia in maniera più diretta che in altri: per la dipendenza dall’export di petrolio e perché il chavismo ha creato un sistema di potere molto redditizio per il suo establishment. O, peggio ancora, perché dietro lo Stato bolivariano potrebbe celarsi un meno “giusto” ma molto più proficuo narco-Stato.
Secondo uno scoop del giornale spagnolo Abc del 27 gennaio, il monopolio delle 5 tonnellate di droga che transitano ogni settimana dal Venezuela – il 90% della droga prodotta in Colombia – sarebbe del cartello Sole, che è formato da militari (il sole è il loro simbolo). Lo avrebbe rivelato un comandante delle Forze Armate venezuelane fuggito negli Stati Uniti. Il caso può diventare un pesante grattacapo per il governo perché il militare fuggito è stato assistente per anni di Diosdado Cabello, il presidente dell’Assemblea Nazionale, già papabile alla successione di Chávez e tanto potente che si dice che “mezzo Venezuela dipenda dal suo denaro”.
Le elezioni generali dovrebbero svolgersi a novembre e ciò dà tempo a Maduro per escogitare una strategia elettorale sperando in un rialzo del prezzo del petrolio. La stampa economica guarda invece con ansia già al 16 marzo, giorno in cui scadono pagamenti per 2 miliardidi dollari. E i 12 milioni di poveri, be’, loro pensano a come organizzarsi per la coda del mattino dopo.
Le code che “avvolgono” gli isolati sono una scena quotidiana nelle città venezuelane. A Caracas, una donna seduta sotto un albero con un bambino dice che per comprare il latte, lei e il marito si alternano nella coda dalle 4,30 del mattino. Ma il latte è finito. E anche i pannolini. Un’altra si accontenterà di comprare del sapone. Ha un numero. Vuol dire che ha passato il primo controllo per i prodotti razionati.