La porta internazionale della Cina nasce come città verde per scelta e per difficoltà morfologiche. Ma il futuro sono i mastodontici progetti di Pechino
Le statistiche generali di Hong Kong spesso sorprendono chi la considera solo una città moderna fatta di grattacieli e soprelevate che si intrecciano a mezz’aria per garantire un traffico scorrevole. Questi i dati principali dell’ex colonia britannica, tornata sotto sovranità cinese nel 1997: 7,5 milioni di abitanti, su un territorio di 1110 chilometri quadrati – e una delle maggiori densità urbane al mondo, dal momento che solo il 25% della superfice è sviluppata per essere abitabile, mentre oltre il 40% è parco naturale protetto.
Hong Kong viene chiamata città, ma questa è una parola che definisce in modo insufficiente il territorio, che comprende diverse città al suo interno, sparse per i suoi luoghi principali: l’isola di Hong Kong, e la penisola di Kowloon (dove si trova per esempio il conglomerato di Shatin con più di un milione di abitanti, e il distretto di Mong Kok, con la maggiore densità al mondo: 130.000 persone per chilometro quadrato). Poi c’è l’isola di Lantau, per la maggior parte verde e disabitata ma che comprende anche l’aeroporto di Chek Lap Kok, e, adiacente, la nuova città di Tung Chung (200.000 abitanti) da cui si vede la Lantau Peak (934 metri sul livello del mare, la seconda montagna più alta di Hong Kong, dopo Tai Mo Shan, 957 metri). Lamma, Peng Chau e Cheng Chau sono le altre tre principali isole abitate, per quanto di dimensioni molto minori. Non siamo davanti a una megalopoli tipo Tokyo, o quell’ininterrotta dimensione urbana che porta da Osaka a Kyoto e Kobe senza soluzione di continuità. Il territorio di Hong Kong, infatti, è frammentato in isole e isolotti, ma è anche montuoso, una realtà morfologica che ha spinto il governo, a più riprese, ad aumentare la superfice abitabile riportando terra dal mare piuttosto che rendendo vivibili i territori a maggiore elevazione. In un certo senso, potrebbe essere la città ecologica per eccellenza – se non fosse per la propensione governativa a portare avanti progetti mastodontici, più per sfida ingegneristica e per compiacere il governo centrale, a Pechino, che non per reale necessità immediata.
Ma sia la morfologia del terreno che le particolarità storiche e politiche di Hong Kong ne fanno un luogo complesso e affascinante – e una città che ha dimostrato di sapere mettere a punto molte soluzioni innovative in passato, e che potrebbe continuare a farlo anche in futuro. In particolare se non si ritroverà stretta in una morsa politica interamente fuori del controllo dei suoi abitanti.
Hong Kong, per quanto abitata almeno fin dalla dinastia Tang (618-907) cominciò a essere sviluppata in modo significativo e a vedere una rapida espansione della popolazione nella seconda metà dell’Ottocento, dopo che era stata ceduta ai britannici in seguito alla sconfitta cinese nella Prima Guerra dell’Oppio (1839-1842). Poi, dopo la fine della Seconda guerra mondiale e ancor più la fine della Guerra civile cinese (1949) Hong Kong, dedita al commercio e punto di appoggio per chi faceva affari nella regione, si tramutò improvvisamente in terra di rifugio che dovette trovare in fretta il modo di alloggiare un milione di rifugiati sfuggiti alla “Nuova Cina” maoista. Sulle prime, l’afflusso massiccio portò ad una serie di bidonville nelle zone oggi di Diamond Hill, Wong Tai Sin, Shek Kip Mei, eccetera: luoghi perennemente a rischio di incendi, dove la vita era insalubre e la sicurezza quasi inesistente. Proprio gli incendi portarono allo sviluppo di alcune delle immagini urbane più caratteristiche di Hong Kong, quella degli housing estate – enormi gruppi di caseggiati a prezzi controllati, ideati per ospitare migliaia di persone. Gli estate di Hong Kong sono stati sviluppati negli anni Sessanta e Settanta, quando anche altre grandi città stavano vedendosela con il boom del dopoguerra e la necessità di alloggiare a poco prezzo una popolazione in espansione: case popolari dall’architettura che definisce l’epoca in cui vennero costruite, e le aspirazioni di vita per le classi lavoratrici che avevano i dipartimenti governativi predisposti ad occuparsi di questa emergenza.
La pianificazione ad Hong Kong dunque ha voluto, ormai per decenni, costruire nuove città provviste di tutto e molto ben collegate con servizi di autobus e, dagli anni Ottanta, un servizio di metropolitana in costante espansione. L’utilizzo di mezzi privati, infatti, continua ad essere scoraggiato, in particolare con costi proibitivi per i parcheggi (un posto per parcheggio privato in città può costare fino a mille euro al mese d’affitto, o intorno ai centomila euro all’acquisto), una lunga trafila di almeno un anno per ottenere la patente di guida, e un servizio di trasporto pubblico abbordabile e efficiente, che consiste di autobus, tram e minibus, traghetti, metropolitana, treni urbani, e taxi. Nel 2019 le auto a Hong Kong erano circa 850mila – un numero molto inferiore a quelle di Londra, per esempio, che ha 2.5 milioni di auto per meno di 9 milioni di abitanti, o ancor più di quello di New York, dove 8.5 milioni di abitanti posseggono 4.8 milioni di automobili. Tutto questo ha creato una serie di ecosistemi diversi a seconda che ci si trovi nelle baie tutt’ora isolate, dove animali rari o in pericolo continuano a trovare punti di rifugio, o in centri urbani interamente dediti al commercio, o in aree dove gli acquitrini e le mangrovie garantiscono protezione dall’innalzamento delle acque e grande diversità naturale.
Se il passato di Hong Kong cercava di ottimizzare una città verde per scelta e per difficoltà morfologiche con le necessità di una popolazione in espansione, sempre più dedita ai servizi (dagli anni Ottanta in poi la maggior parte della produttività di Hong Kong si è spostata verso la Cina continentale, contribuendo in modo decisivo al miracolo manifatturiero del Guangdong ma mantenendo a Hong Kong la logistica e i trasporti, grazie al suo porto, e la finanza, e mille altri servizi legati all’essere la porta internazionale della Cina) il presente e in particolare il futuro devono tenere conto sempre più del volere di Pechino.
Questo per esempio si può vedere in almeno due progetti – uno già realizzato e l’altro ancora in fase di pianificazione – che hanno suscitato enorme opposizione, ma che ora, man mano che la riforma politica toglie a Hong Kong lo spazio per un’opposizione legale, non incontrano più nemmeno il minimo scrutinio necessario.
La prima di queste grandi opere è rappresentata dal ponte che collega Hong Kong a Macao e Zhuhai, un ponte lungo 55 chilometri completato nel 2018 e costato 18.8 miliardi di dollari Usa, che consente di raggiungere Zhuhai in circa 50 minuti. Il ponte, il più lungo al mondo, comprende quattro isole artificiali, due tunnel e un sistema di cavi in acciaio per sostenerne alcune porzioni: malgrado tutti i primati però, è scarsamente utilizzato, sia per la difficoltà per ottenere i permessi e l’assicurazione necessari, sia perché è stato aperto poco in un’epoca poco propizia (fra le proteste del 2019 e i due anni di pandemia subito dopo). L’altro progetto è molto più controverso, ma le principali organizzazioni che spingevano affinché fosse cancellato, o almeno ridimensionato in maniera significativa, si ritrovano a rischio di illegalità dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale nel giugno del 2020. Si tratta dell’East Lantau Metropolis Project, anche noto come l’East Lantau Tomorrow Vision, un progetto per un’isola artificiale, riportata dal mare e collegata con ogni tipo di mezzo pubblico alle isole di Lantau e di Hong Kong, sufficientemente grande per ospitare fino a un milione di persone.
I rischi ecologici legati a questo progetto sono significativi, sia per l’enorme utilizzo di sabbia che comporta (e lungo le coste asiatiche la fame di sabbia della Cina, dopo decadi di boom edilizio, ha portato a un deterioramento allarmante degli ecosistemi costieri) che per il modo in cui rischia di compromettere in maniera definitiva gli habitat di alcune specie protette, per non parlare del rischio portato dall’innalzarsi del livello del mare, e la scarsa utilità del progetto, per una città con una popolazione stabile, forse in leggera diminuzione a causa di una bassa natalità.
Al momento però Hong Kong si ritrova al centro di una serie di iniziative che non sono sottoposte a un vaglio democratico: non solo per quanto riguarda i progetti ingegneristici ma anche per la sua posizione esistenziale. L’ultima di queste iniziative è la Greater Bay Area (GBA), un progetto di grande respiro che prevede la creazione di un polo urbano, industriale, tecnologico e di servizi intorno ad un’area che va da Hong Kong a Macao, ma che comprende anche le nove città di Guangzhou, Shenzhen, Zhuhai, Foshan, Huizhou, Dongguan, Zhongshan, Jiangmen, e Zhaoqing, per un totale di 86 milioni di persone. La GBA, secondo il progetto pensato dal governo centrale, avrebbe sia lo scopo di creare sinergie per lo sviluppo che quello di integrare il più possibile la regione, impedendo dunque il ripetersi di momenti di sfida come si sono visti nel 2019 a Hong Kong. Per quanto alcuni degli elementi più concreti della forma che assumerà questo progetto (ammesso che possa svilupparsi come previsto) siano ancora poco chiari, già da ora le università di Hong Kong stanno costruendo campus all’interno della GBA che dovrebbero portare a un’integrazione educativa dalla quale Hong Kong avrebbe poco da guadagnare.
Questi scossoni politici, strettamente legati allo stile governativo introdotto dieci anni fa dal Presidente cinese Xi Jinping, e dalla sua determinazione ad assimilare ed incorporare in una Cina sempre più uniforme tutte le zone di frontiera meno soddisfatte dell’essere governate da Pechino con scarsa voce in capitolo, arrivano in un momento in cui lo sviluppo organico di Hong Kong stava procedendo per una via opposta. Quest’anno infatti si assisterà all’apertura del nuovo Museo d’arte moderna di Hong Kong, chiamato M+, il primo museo di questo tipo in tutta l’Asia, con l’ambizione di essere il polo culturale di riferimento per l’arte contemporanea dell’intera regione. Istituzioni quali l’Asia Art Archive avevano già da tempo individuato Hong Kong come la città più libera e più cosmopolita dell’Asia orientale, e si ritrovano ora a cercare di capire quanto, e come, il loro lavoro possa continuare come prima, mentre Pechino sembra intenta a voler rifare Hong Kong a sua immagine.
Le scelte locali cominciano ad essere limitate sia che si tratti di curriculum universitari o scolastici, sia che si tratti di stabilire in che modo gestire la pandemia: Hong Kong ha infatti saputo mantenere sotto controllo l’espandersi del virus, con 212 morti dall’inizio della pandemia, e circa 1200 casi, molti dei quali importati. Ma l’imposizione della strategia dello “Zero Covid” (già messa in atto in Cina) fa sì che una città che è sempre vissuta nell’apertura mentale e geografica si ritrova ora con una strategia di frontiere chiuse dalla quale non è chiaro come potrà uscire. Il sistema di quarantena di Hong Kong per i viaggiatori provenienti dall’estero – che siano vaccinati o meno, e che siano residenti o meno – è il più severo al mondo, e prevede 21 giorni di isolamento in una stanza d’albergo. Dopo più di un anno di questo regime, molti gruppi finanziari ed industriali internazionali stanno cominciando a fare le valige, chiedendosi se la nuova Hong Kong continui a valere la pena.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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