L’attentato di Butler galvanizza la base e la convention incorona Donald Trump. Ma è a Vance che bisogna guardare per capire cosa succederà. Trump lo vede come erede e lui è uno dei più trumpiani, ma soprattutto isolazionisti. Cosa pensa Vance e come possono cambiare le relazioni con l’Europa se lui e Trump vincono.
Donald Trump e il suo Gop targato Maga hanno il vento in poppa. Nei giorni in cui i conservatori d’America tengono la convention di Milwaukee che nominerà ufficialmente il tycoon come candidato del partito alle presidenziali americane del 5 novembre, tornano i fantasmi per l’Europa. I fantasmi di una nuova stagione di rapporti turbolenti tra le due sponde dell’Atlantico com’erano stati i quattro anni della presidenza Trump. Tra i sondaggi post dibattito e l’attentato scampato a Butler, in Pennsylvania, crescono di giorno in giorno le speranze di rielezione per Trump e con esse il rischio di un nuovo isolazionismo americano.
Un erede per Trump
Simbolo di questo isolazionismo è James David Vance, il 39enne senatore dell’Ohio scelto da Trump come compagno di viaggio e candidato alla vicepresidenza. La scelta di Vance riflette uno schema molto preciso non solo dei rapporti di forza dentro al partito repubblicano, ma anche nelle volontà stessa del tycoon. Come hanno osservato diversi analisti americani, la scelta di nominare come partner del ticket l’autore di “Elegia americana”, simboleggia la volontà di Trump di preparare un erede per il trumpismo. E infatti la sua nomina lo fa balzare al primo posto tra i repubblicani in vista delle presidenziali del 2028. Ma non solo. Vance rappresenta l’ala più radicale e intransigente del popolo di Trump, di quella base Maga che non solo non l’ha mai abbandonato, anche dopo la sconfitta del 2020, ma che gli ha permesso di dominare il campo repubblicano nelle primarie. E non è un caso che durante il primo giorno di convention il popolo dei delegati sia impazzito alla nomina di Vance e abbia invece fischiato il leader della minoranza repubblicana al Senato Mitch McConnell.
Il ritorno dell’isolazionismo
JD Vance fa parte di quella fetta del nuovo partito repubblicano che ha sempre meno a che fare con l’eredità di Ronald Reagan e sempre di più con un nuovo populismo che attinge da ricette che una volta erano care alla sinistra. Ma che soprattutto si incarna nell’America First ad ogni costo e in ogni ambito. È per questo che in Europa, da Bruxelles alle varie capitali, è suonato forte e chiaro un grosso allarme. Con il ritorno di Trump al 1600 di Pennsylvania Avenue, accompagnato da Vance, si apre (di nuovo) una fase di turbolenze. La prima vittima? L’Ucraina in guerra.
Il dossier ucraino
Un alto funzionario Ue sentito da Politico.eu ha bollato la nomina del 39enne come un “disastro” per Kiev, ma di riflesso anche per l’Unione europea. Il senatore dell’Ohio è uno degli esponenti di spicco dell’ala trumpiana che si oppone agli aiuti militari all’Ucraina. E infatti, nella sua prima intervista concessa a Fox News dopo la nomina, ha detto che sarà necessario avviare presto un negoziato con Mosca per fermare la guerra. Negli ultimi anni Vance è stato uno strenuo oppositore all’appoggio dell’amministrazione Biden a Kiev e lo ha manifestato in molti modi. Il più forte, e anche clamoroso, è avvenuto a febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco e in un’intervista con lo stesso Politico.eu: “Non abbiamo la capacità produttiva per sostenere una guerra nell’Est Europa a tempo indeterminato. Per quanto tempo si può andare avanti? Quanto può costare?”. Un intervento molto duro in uno degli eventi simbolo della ritrovata cooperazione transatlantica tra Usa e Europa rinvigorita dall’avvento di Joe Biden alla Casa Bianca.
Ma non è tutto. A quella conferenza Vance ha saltato di netto un incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il ministro degli esteri Dimitru Kuleba insieme a un gruppo di senatori Usa, commentando poi la scelta di non esserci dicendo semplicemente di pensare che non ne sarebbe uscito niente di buono. In ambiti più informali, ad esempio durante un’ospitata al podcast di Stephen Bannon (ex stratega di Trump durante la prima amministrazione), Vance è stato ancora più cinico: “Penso sia ridicolo che ci concentriamo sui confini dell’Ucraina. Devo essere onesto, non mi interessa nulla di quello che succede in Ucraina”.
Vance non si è però fermato alle parole, ha provato anche ad agire. Al Senato ha fatto parte della fronda repubblicana che si è opposta a un pacchetto di aiuti da 60 miliardi di dollari destinato a Kiev: “Siamo molto chiari con l’Europa e il resto del Mondo: l’America non firma più assegni in bianco”.
Le accuse a Ue e Nato sui costi della Difesa
Nel caso di un successo elettorale, la radicalità di Vance non si abbatterebbe solo su Kiev, ma avrebbe riverberi ovunque. Nel tempo il senatore si è scagliato contro l’intero apparato europeo e pure contro la Nato. Parlando al Senato, lo scorso aprile, ha puntato il dito contro Bruxelles in modo molto duro: “Per tre anni gli europei ci hanno detto che Vladimir Putin è una minaccia esistenziale per l’Europa e per tre anni hanno fallito nel rispondere come se questa minaccia fosse vera”. La colpa secondo lui sta nel fatto che il complesso militare e industriale europeo non si è messo a regime, riaprendo la questione della spesa per la difesa, prendendo di mira in particolare la Germania che non ha alzato la sua quota di Pil per armi ed esercito sopra il 2%.
Persino la Nato non è ben vista da Vance, bollata come una sorta di “tassa sul popolo americano per la sicurezza europea”. Il nodo è sempre lo stesso. Com’era per Trump durante i suoi anni turbolenti alla Casa Bianca, anche per il neo nominato alla vicepresidenza, gli Usa devo ritirarsi dall’Europa e lasciare che faccia da sola e che lo faccia soprattutto in materia di Difesa.
La battaglia con la Cina e l’incubo dei dazi
E questo perché, secondo Vance, le priorità sono altre. Durante la stessa conferenza di Monaco in cui attaccava Kiev, il senatore indicava i veri obiettivi strategici per Washington, cioè un maggiore focus in Asia e Medio Oriente: “Ci sono un sacco di persone cattive nel mondo, e io sono interessato soprattutto ai problemi in Asia orientale”. Nella testa di Vance il problema è soprattutto uno: la Cina.
Questa presa di posizione ha come punto di caduta una doppia insidia per Bruxelles. La prima potrebbe portare a un’America molto più assertiva con l’Europa in materia di alleanza, o meglio, di scelta di campo: “o con noi, o con la Cina”. Dallo scoppio della pandemia in poi Bruxelles è alla ricerca di una nuova formula per rapportarsi con Pechino. Unione europea e Stati membri, anche se a velocità variabili, sanno bene che non sono possibili rotture nette con la Repubblica popolare e che è necessario trovare una formula per un dialogo che si adatti alle esigenze europee. Una Casa Bianca trumpiana entrerebbe in questa delicata cristalleria come un elefante, rendendo ancora più difficile la partita.
Il secondo punto riguarda un aspetto particolare della contesa tra Washington e Pechino: i dazi. Vance ha sempre dipinto la sua figura come un rappresentante dell’America operaia impoverita da una globalizzazione galoppante e soprattutto dalla delocalizzazione cinese. Così l’isolazionismo dell’America First diventa anche proibizionismo e protezione della manifattura americana. E in questo senso il primo strumento di protezione sono le tariffe sulle importazioni. Parlando al programma Face The Nation della Cbs, nel maggio scorso, Vance ha detto candidamente che servono “dazi su larga scala, soprattutto sulle merci che arrivano dalla Cina” e che minano posti di lavoro e commercio: “Le industre americane vanno protette da tutta la competizione”. Con quelle tariffe, ha detto ancora il senatore, “si finirebbe per produrre di più in America, in Pennsylvania, in Ohio e nel Michigan”. Una simile impostazione lascia aperta la porta anche a una nuova guerra commerciale con l’Europa. Lo stesso Trump, dopo aver introdotto dazi sulle importazioni europee di acciaio e alluminio, ha detto di essere pronto a rifarle se necessario.
La guerra culturale contro Bruxelles
Oltre al perimetro della Difesa e dell’Economia, Vance ha portato l’Europa anche nell’androne delle guerre culturali. Nel tempo, ad esempio, ha attaccato Bruxelles per le decisioni in materia di sanzioni a Polonia e Ungheria, finite sotto la lente di ingrandimento per l’erosione dello stato di diritto. E ha accusato l’Ue di essere un organismo che porta avanti visioni imperialiste di tipo liberal, e cioè di estrema sinistra. Gioco forza Vance ha espresso il suo apprezzamento per l’Ungheria di Viktor Orbán e in particolare per il suo de-woke-ification della scuola, mettendo al bando linguaggi più inclusivi e temi legati all’omosessualità.
Anche Berlino è finita poi nel mirino. Il senatore ha lanciato attacchi violenti. La Germania è stata bollata come “caso disperato” per la sua politica energetica “idiota”. Per Vance, i contribuenti americani hanno sovvenzionato per anni scelte scellerate di politica energetica e soprattutto la debolezza della Difesa tedesca. In febbraio, in un editoriale sul Financial Times, lo stesso Vance ha scritto che Berlino spende ogni anno più della Francia in Difesa ma ottiene risultati scarsi. “L’esercito francese ha sei brigate mentre quello tedesco riesce a metterne insieme a mala pena una pronta per il combattimento.
Persino il Regno Unito non è rimasto immune. Londra è stata bollata come un Paese islamico con l’atomica: “Parlavo con un amico della proliferazione atomica e di quale sarà il primo Paese davvero islamico ad avere un’arma atomica, e riflettevamo se fosse l’Iran o il Pakistan, ma poi abbiamo deciso che sarà il Regno Unito dal momento che i laburisti hanno appena preso il controllo”.
Le cancellerie di tutto il Vecchio Continente sono in allarme. Ma questo non vuol dire non si sita facendo niente. Al di là delle iniziative di Orban, volato a Mar-a-Lago per incontrare Trump nei giorni del vertice Nato di Washington, c’è chi ha iniziato ad aprire canali con il mondo trumpiano. Secondo il Financial Times, alcune delegazioni europee nei giorni del vertice hanno incontrato alcuni consiglieri di Trump in materia di politica estera. In particolare, ci sarebbero stati incontri con Keith Kellogg, ex capo gabinetto dello staff del National Security Council, e l’ex segretario di Stato, Mike Pompeo. Voci diplomatiche sentite dal Ft hanno confermato che le ambasciate europee a Washington sono in fermento. Un funzionario ha ammesso che “indipendentemente da quello che pensiamo sulla loro posizione sull’Europa è necessario parlare con loro”. L’obiettivo, dicono, è quello di essere meno impreparati alla vittoria di Trump di quanto non fossero nel 2016. Una necessità che la nomina di JD Vance ha reso ancora più reale.
Donald Trump e il suo Gop targato Maga hanno il vento in poppa. Nei giorni in cui i conservatori d’America tengono la convention di Milwaukee che nominerà ufficialmente il tycoon come candidato del partito alle presidenziali americane del 5 novembre, tornano i fantasmi per l’Europa. I fantasmi di una nuova stagione di rapporti turbolenti tra le due sponde dell’Atlantico com’erano stati i quattro anni della presidenza Trump. Tra i sondaggi post dibattito e l’attentato scampato a Butler, in Pennsylvania, crescono di giorno in giorno le speranze di rielezione per Trump e con esse il rischio di un nuovo isolazionismo americano.
Simbolo di questo isolazionismo è James David Vance, il 39enne senatore dell’Ohio scelto da Trump come compagno di viaggio e candidato alla vicepresidenza. La scelta di Vance riflette uno schema molto preciso non solo dei rapporti di forza dentro al partito repubblicano, ma anche nelle volontà stessa del tycoon. Come hanno osservato diversi analisti americani, la scelta di nominare come partner del ticket l’autore di “Elegia americana”, simboleggia la volontà di Trump di preparare un erede per il trumpismo. E infatti la sua nomina lo fa balzare al primo posto tra i repubblicani in vista delle presidenziali del 2028. Ma non solo. Vance rappresenta l’ala più radicale e intransigente del popolo di Trump, di quella base Maga che non solo non l’ha mai abbandonato, anche dopo la sconfitta del 2020, ma che gli ha permesso di dominare il campo repubblicano nelle primarie. E non è un caso che durante il primo giorno di convention il popolo dei delegati sia impazzito alla nomina di Vance e abbia invece fischiato il leader della minoranza repubblicana al Senato Mitch McConnell.