Trump e l’America Latina: migrazioni, dazi e sicurezza
Il secondo mandato di Trump alla Casa Bianca sta generando tensioni significative in America Latina, ma anche grandi aspettative: Buenos Aires accoglie con entusiasmo il suo ritorno, mentre Messico e Brasile osservano con apprensione.
Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha scatenato forti reazioni in America Latina, continente che si prepara ad un nuovo cambiamento nell'ordine regionale.
Messico
Il Messico è il primo paese che ha reagito alla notizia della vittoria elettorale di Trump. Circa l'80% delle esportazioni messicane sono destinate agli Stati Uniti, con un commercio bilaterale che supera gli 800 miliardi di dollari e una frontiera di 3.200 chilometri condivisa. Il termine più usato dagli analisti per descrivere la futura relazione tra Trump e la neoletta presidente messicana, Claudia Sheinbaum, è "tortuosa". I mercati sembrano confermare questa previsione: il peso messicano ha perso il 21% del suo valore rispetto al dollaro entro le prime 12 ore dalla conferma della vittoria di Trump.
La questione migratoria è tra i dossier principali. Trump ha promesso deportazioni di massa di migranti illegali, che secondo il Dipartimento di Sicurezza Nazionale sono circa 11 milioni, di cui 4 milioni messicani e altri provenienti da America Centrale e Sudamerica. Il piano prevede anche l'abolizione del Temporary Protected Status e dell'Humanitarian Parole, creando un collo di bottiglia in Messico, dove i richiedenti asilo dovrebbero attendere la risoluzione dei loro casi, come avvenuto già durante la prima amministrazione Trump.
Sul fronte commerciale, nonostante l'esistenza del Canada-United States-Mexico Agreement (CUSMA), Trump ha promesso dazi elevati su beni di consumo importati dal Messico, specialmente auto. "Tutto quello che vendono negli Stati Uniti avrà un dazio del 25% finché non smetteranno di importare droga", ha affermato recentemente a Pittsburgh. Durante la presidenza di Manuel López Obrador, predecessore della Sheinbaum e suo mentore, l'unico modo per evitare dazi fu la trasformazione del Messico in una sorta di "paese terzo sicuro" per i migranti latinoamericani diretti negli Stati Uniti.
E poi c'è la questione cinese. Tra la Repubblica Popolare e il Messico infatti aleggia da anni la possibilità di trasformare il paese centroamericano in un hub per la triangolazione delle esportazioni cinesi verso gli Usa, e per la ricezione di investimenti cinesi nelle filiere d'interesse per l'economica statunitense. Oggi il 16% delle importazioni statunitensi proviene dal Messico, e non esiste norma né accordo che impedisca una possibilità simile, che resta dunque subordinata alla capacità di negoziazione da entrambe le parti.
Brasile
L'altro governo in allarme per il ritorno di Trump è il Brasile. Lula da Silva non solo si trova di fronte a un rivale ideologico, ma anche al sostegno della destra conservatrice brasiliana, rappresentata da Jair Bolsonaro, che ha festeggiato la vittoria di Trump. "Siccome sono un amante della democrazia, credo che sia la cosa più sacra che gli umani possano costruire per governare bene il nostro paese, ovviamente sostengo Kamala per vincere le elezioni", aveva sostenuto Lula durante un'intervista all'emittente francese TF1 il primo novembre scorso.
Il Brasile compete con gli USA in termini di produzione agricola a livello continentale e globale. Secondo il Ministero dell'Agricoltura brasiliano, le esportazioni agricole brasiliane potrebbero raggiungere i 180 miliardi di dollari entro il 2025, mentre quelle statunitensi sono circa 170 miliardi. Nel 2019, Trump aveva minacciato di imporre dazi sulle importazioni brasiliane di ferro e alluminio. Ma l'influenza della Cina in Brasile è una realtà consolidata, diversamente dal caso messicano, e Trump potrebbe inasprire le tensioni in risposta a eventuali legami più stretti con Pechino.
La questione venezuelana potrebbe aggravare ulteriormente le tensioni. Con l'inizio del nuovo mandato di Nicolás Maduro il 6 gennaio, Trump sembra pronto a riattivare una politica di "massima pressione" verso Caracas, in controtendenza rispetto alla sospensione delle sanzioni attuata da Biden nel 2023. Lula, pur prendendo le distanze da Maduro, teme che la nuova strategia di Trump possa riproporre un'internazionale conservatrice in stile "Gruppo di Lima", rafforzando così le destre nel continente, e mettendo sotto pressione il governo Lula.
Colombia
Forti le ripercussioni anche per la Colombia, antico alleato strategico di Washington nella regione, in cui però dal 2022 si è instaurato il primo governo di sinistra della storia del paese, guidato dall'ex guerrigliero Gustavo Petro. Una nuova amministrazione Trump, sebbene non terrebbe in primo piano vincoli con Bogotà, potrebbe però ostacolare la realizzazione dei principali progetti messi in atto da Petro: l'implementazione profonda degli Accordi di Pace firmati nel 2016 tra le estinte Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) e il governo colombiano, che prevedono cambiamenti drastici nella matrice produttiva del paese a favore delle comunità contadine; o il piano della Paz Total, con cui Petro ha aperto un dialogo con tutti i gruppi armati attivi in Colombia (guerriglie, paramilitari, narcos) per raggiungere accordi parziali che portino all'eliminazione della violenza nel paese. Trump, ligio alla politica della mano dura e la "guerra contro il narcotraffico", potrebbe sospendere il sostegno statunitense ai programmi sociali introdotti in Colombia - da dove proviene la maggior parte della cocaina commercializzata negli Usa - dagli accordi di pace, esigere la reintroduzione dell'eradicazione forzata delle piantagioni di coca (proibita dagli accordi del 2016) o il ritorno addirittura delle irrorazioni aeree di erbicidi contro le piantagioni che hanno storicamente messo in ginocchio l'economia contadina delle regioni andine. Bogotà potrebbe finire nella lista dei "paesi che non collaborano con la lotta alle droghe" del dipartimento di stato, condizionando così la cooperazione in molti altri ambiti, come la conservazione del patrimonio ambientale e culturale dell'Amazzonia, obiettivo su cui Petro si è seriamente impegnato anche in ambito internazionale.
Argentina
Sul fronte opposto, il presidente argentino Javier Milei vede nel ritorno di Trump un'opportunità: spera infatti che il leader repubblicano faccia pressione sul Fondo Monetario Internazionale per ottenere nuovi fondi e condizioni più favorevoli. Milei mira a ottenere l'appoggio di Trump per affrontare il debito ereditato dal prestito del 2018, concesso con il sostegno di Trump per stabilizzare il governo di Mauricio Macri e contenere le forze di sinistra. Sebbene non condivida quasi nulla dell'agenda macroeconomica del repubblicano (protezionista e nazionalista, mentre il presidente argentino si autoproclama globalista e "anarcocapitalista"), il ritorno di Trump al governo Usa rafforza chiaramente l'agenda della destra regionale, di cui Milei si sente principale esponente.