La resistenza dell’establishment
Nervi saldi per "contenere" il Presidente che, se si accorge di essere controllato, scalpita fino a quando non vede la testa del traditore rotolare
Nervi saldi per “contenere” il Presidente che, se si accorge di essere controllato, scalpita fino a quando non vede la testa del traditore rotolare
Che all’interno della Casa Bianca sia in atto una qualche forma di resistenza nei confronti del Presidente non è un mistero. Il 5 settembre del 2018 un editoriale anonimo pubblicato dal New York Times ne ha certificato l’esistenza. Non che in molti non lo sospettassero ma un conto è avere segnali, un altro è vedere pubblicato sulla prima pagina del più autorevole quotidiano del mondo un articolo scritto da un alto funzionario che rivela di essere “parte della resistenza”.
L’articolo è di quelli più letti della storia del sito web del giornale e ha suscitato un vespaio senza precedenti. Non poteva essere altrimenti. Il problema di Trump in questo caso è che non poteva prendersela con gli avversari politici. Se all’inizio del suo mandato decine di persone avevano lasciato il Dipartimento di Stato, stavolta le persone che si oppongono a Trump dalla pancia del governo federale sono repubblicani, persone scelte dal Presidente per occupare i posti che occupano. E sulla riforma fiscale che aumenta il deficit e rende meno progressivo il sistema, o sull’aumento della spesa militare, non hanno avuto nulla da ridire. La loro opposizione al Presidente non è politica né organizzata. Si tratta piuttosto di un lavoro certosino di limitazione del danno: perdita di tempo in attesa che il Presidente cambi umore e decisione su un tema controverso, cordone sanitario per evitare che si confronti troppo spesso con le figure sbagliate e non ortodosse di cui si circonda (i familiari, il genero Jared Kushner, il consigliere Stephen Miller), omissione di particolari o presentazione dei fatti in maniera tale da determinare una decisione piuttosto che un’altra. Coloro che la conducono vorrebbero fare in modo che la sua non fosse una presidenza catastrofica. Il problema è che hanno un’idea diversa dal loro capo su cosa si debba considerare un successo.
Una delle caratteristiche dei leader populisti emersi in questi anni a cui Donald Trump non si sottrae è quella di individuare continuamente nemici da indicare all’opinione pubblica. Che si tratti di migranti, Cina, media, Ue, Macron, le ragioni delle difficoltà americane sono sempre da imputare ad altri. I successi, come in economia, invece, sono il frutto del suo intuito. Il Presidente ha un atteggiamento simile nei confronti della sua disfunzionale amministrazione: se la sua Casa Bianca è un flipper impazzito la colpa è dello staff. Se i migranti continuano ad arrivare (o non spariscono del tutto), la colpa è della Segretaria alla Homeland Security Kristjen Nielsen, che per questo è destinata a essere sostituita.
Il Presidente è scostante e umorale, cambia idea su chi siano gli amici e chi i nemici, vuole affrontare questioni cruciali e delicate (il commercio internazionale, il nucleare coreano, l’Iran, i rapporti con Cina, Europa e Russia) come fossero partite a Risiko e Monopoli giocate con i dadi truccati del Bronx degli anni ‘70.
L’esempio perfetto di questo modo di essere è proprio l’atteggiamento nei confronti della Nielsen, che ha sostituito John Kelly, divenuto Chief of Staff dopo che il suo predecessore Rience Priebus era stato licenziato con un tweet. Nielsen è colei che ha messo in pratica l’agenda trumpiana, a partire dalle separazioni di madri e figli fermati alla frontiera. Ma non ha fatto la magia di far sparire il problema. E questo l’ha fatta finire più volte tra gli imputati durante le riunioni nello studio ovale. Il suo accusatore in genere è John Bolton, neo-consigliere per la sicurezza nazionale.
Attaccare Nielsen, una sua protetta e alleata, è anche un modo per spingere alle dimissioni John Kelly. Diversi alleati e protetti dell’uomo che ha cercato di rendere ordinato il lavoro dell’amministrazione sono stati rimossi o hanno abbandonato. In molti si aspettano che Trump licenzi anche lui: far fuori la Nielsen è un modo per indicare a Kelly la porta. Eppure Kelly ha sempre tentato di non prendere le distanze dal Presidente. Almeno fino a quando non ci sono state dispute furiose con lo staff della first Lady Melania su promozioni e quantità di persone da portare durante i viaggi ufficiali. O con la figlia Ivanka, che durante un viaggio in Corea del Sud per le Olimpiadi ha imposto un suo incontro con il Presidente Moon Jae (in quanto “figlia di”, figura istituzionale che ovviamente non esiste).
Il fatto è che il Presidente detesta chi vuole limitare la sua azione, specie nei casi in cui si entusiasma per soluzioni drastiche e ad effetto che appaiono perfette da vendere al pubblico. Proprio sul crinale tra policies concrete e soluzioni spettacolari è in atto un costante braccio di ferro tra il Presidente e i suoi collaboratori fidati da un lato − Stephen Miller, John Bolton i più influenti − e i realisti dall’altro. A tentare di limitare gli eccessi presidenziali, oltre a Kelly, c’è il Segretario alla Difesa, l’ex generale Mattis. Entrambi, in più di un’occasione hanno fatto capire che rimangono al loro posto per non lasciare le chiavi della macchina al Presidente e alla sua cerchia ristretta. Sparsi negli uffici di Washington decine di altri funzionari cercano di limitare i danni seguendo le figure considerate credibili. Questa tattica di fare da agente frenante ha funzionato fino a quando non ne hanno parlato troppo i media.
La guerra commerciale potenziale tra Cina e Stati Uniti è un esempio dei conflitti interni. I toni presidenziali su Cina ed Europa sono sempre stati sopra le righe e gli Stati Uniti hanno imposto tariffe del 10% su 360 miliardi di dollari di beni importati. La linea scelta dal Presidente è ispirata da Peter Navarro, il cui ultimo libro è Death by China. A frenare sul protezionismo invece è la fazione “libero commercio” guidata dal Segretario al Tesoro Mnuchin e dal Capo del Consiglio Economico Kudlow, espressione dell’establishment economico filo repubblicano (finanza, petrolio in testa). Tra questi non ci sono nemici di Trump, i secondi resistono all’idea che le tariffe restituiranno vigore all’industria decadente del Midwest a cui Trump ha promesso miracoli − è stato premiato nel 2016, per poi venire punito nel 2018.
John Kelly, si legge in Fear il libro di Bob Woodward sulla Casa Bianca di Trump, cerca di limitare l’accesso al Presidente di figure come Navarro. Il modo migliore per evitare colpi di testa è non far giungere certe idee alle orecchie presidenziali. Questi potrebbe riprenderle durante un summit internazionale in cui si sente escluso o per distrarre l’opinione pubblica − come nel caso dei tweet insultanti verso la Francia e Macron dopo le commemorazioni della Prima Guerra Mondiale.
A contenere il Presidente c’è anche il capo del Pentagono, James Mattis, altro ex militare amatissimo da Trump fino a quando non l’ha preso in antipatia. Anche di lui si dice sia in uscita. In due anni il Segretario alla Difesa ha impedito che si bombardasse a tappeto il Califfato come promesso in campagna elettorale ed evitato il ritiro senza piano B dall’Afghanistan. Mattis ha poi frenato una reazione eccessiva anti Assad dopo l’uso di armi chimiche da parte di Damasco con uno stratagemma: presentando al Presidente la più blanda delle reazioni ipotizzate come quella che avrebbe fatto più danni (e così convincendolo). Mattis, come in passato Tillerson, si è fatto garante della politica estera Usa al netto dei tweet presidenziali.
Su commercio, politica estera e immigrazione si spendono anche i think-tank più importanti: criticando fortemente il Presidente quelli tradizionalmente bipartisan come Brookings Institution, sposando la nuova agenda repubblicana, più estrema che in passato, quelli conservatori come Heritage.
La resistenza pacifica e burocratica ha molti caduti: dall’ex capo dello staff McMaster, al Segretario di Stato Tillerson, e quello alla Giustizia Sessions. Tutti eliminati da Trump dopo averli criticati pubblicamente sui media e sostituiti da figure minori o dalle vedute estreme. Il primo è il caso del neo Procuratore Generale Whitaker, scelto per aver espresso in Tv giudizi sull’inchiesta Mueller che piacevano al Presidente, il secondo è il caso di John Bolton. Dimissionaria è anche l’ambasciatrice all’Onu Nikki Halley, altro fattore di stabilizzazione. Per rimpiazzarla si parla di Heather Nauert, una ex conduttrice di Fox News.
Resistere a Trump è difficile perché si resiste a dei cambi di umore. E quel che capita, quando il Presidente se ne accorge, è di trovarsi nella condizione di lasciare o venire licenziati. All’interno dell’amministrazione repubblicana non ci sono fazioni in lotta, ma un cordone di sicurezza.
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Nervi saldi per “contenere” il Presidente che, se si accorge di essere controllato, scalpita fino a quando non vede la testa del traditore rotolare
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