L’ondata conservatrice
I conservatori-neoliberisti alle prese con i consueti problemi economici irrisolti e i più alti tassi di violenza urbana al mondo
I conservatori-neoliberisti alle prese con i consueti problemi economici irrisolti e i più alti tassi di violenza urbana al mondo
L’elezione di Jair Bolsonaro a Presidente del Brasile chiude un lungo ciclo elettorale sudamericano che si era aperto nel 2015 con la vittoria di Mauricio Macri in Argentina per proseguire con le affermazioni di Pedro Pablo Kuczynski in Perù nel 2016, di Sebastián Piñera in Cile nel 2017, e di Mario Abdo Benítez in Paraguay e Iván Duque in Colombia nel 2018. Nei principali Paesi del Sudamerica sono tornati al potere politici conservatori, con colorature neoliberiste in materia economica. Si ripropone così una geopolitica del subcontinente che rimanda agli anni ’90. Timidamente come in Argentina, o platealmente come in Brasile, si torna infatti a parlare di ricette “di mercato” per il superamento della crisi: cioè di nuovo si ipotizza l’uscita dalla fase di difficoltà economica attraverso il taglio del welfare e la privatizzazione dei residui beni dello Stato.
In politica estera, dopo anni di retorica multilaterale e non allineata, che ha prodotto l’Unasur (l’Unione dei Paesi del Sudamerica), l’allargamento del Mercosur al Venezuela, il contribuito alla nascita del G20 e al gruppo dei Paesi Brics, si torna a guardare verso Washington. Anche sotto questo aspetto si prevede un ritorno agli anni ’90, quando governavano i Fujimori, i Menem, i Bucaram, i Cardoso, in gara tra loro per accreditarsi come affidabili davanti alla diplomazia Usa e agli organismi internazionali, Fondo Monetario Internazionale in primis. Quella stagione lasciò in eredità la crescita della diseguaglianza sociale, la svendita dei beni pubblici con gare internazionali poco trasparenti, il crollo della qualità dei servizi educativi e sanitari. In un paio di casi, Argentina ed Ecuador, si arrivò addirittura al default. Fu la reazione dei cittadini a provocare l’onda lunga che in quasi tutto il subcontinente portò al potere governi progressisti. Presidenti di cultura politica molto diversa che, con sorti alterne, tentarono di restituire allo Stato il ruolo di ridistributore del reddito, condividendo una lettura della globalizzazione che portò ad esempio al naufragio dell’ALCA, l’area di libero mercato delle Americhe spinta dagli Stati Uniti.
Negli anni Duemila non c’è stata solo una maggiore ridistribuzione della ricchezza attraverso il welfare ma sono fioriti anche i diritti civili, e il Sudamerica, grazie soprattutto alla guida brasiliana, è arrivato a giocare un ruolo importante nel mondo. Tuttavia i limiti della stagione progressista si vedevano fin da subito, con la sottovalutazione di due fenomeni destinati a travolgere i partiti che ne erano stati protagonisti. Il primo elemento trascurato è stato il progressivo dilagare della violenza urbana, cresciuta esponenzialmente da quando i cartelli del narcotraffico hanno cominciato a fabbricare nelle favelas la “droga dei poveri”: violenza sociale, miseria, soldi facili e una gran quantità di armi in circolazione hanno generato un cocktail esplosivo che ha cambiato in peggio il volto di intere metropoli.
Il secondo fronte ignorato è stato quello della legalità. I fenomeni di corruzione, antichi e sedimentati nei Paesi latinoamericani, non sono stati estirpati e nemmeno combattuti dai Governi di sinistra, ma anzi, buona parte dei progressisti ha utilizzato canali illeciti per finanziare la politica o arricchirsi personalmente. E i primi segnali che indicavano come quella piaga si stesse estendendo a sinistra sono stati ignorati con arroganza. Si spiegano così soprattutto le vittorie di Macri e di Bolsonaro, ma gli stessi motivi avrebbero prodotto un ricambio della classe dirigente anche in Venezuela, se in questo Paese non fosse stata attuata una svolta autoritaria.
La cornice dentro la quale i problemi sopra descritti sono diventati prorompenti è stata la crisi economica che ha colpito il mondo a partire dal 2008 e che è arrivata in America Latina nel 2012. La crisi ha messo a nudo i limiti di diverse formazioni progressiste che, pur capaci di ridistribuire il reddito ai tempi delle vacche grasse, si sono dimostrate incapaci di governare in tempi di vacche magre, riproponendo il drammatico cortocircuito tra indebitamento pubblico e inflazione.
I conservatori tradizionali alla Piñera, o i radicali alla Bolsonaro, a questo giro sono riusciti a far proprio il “marchio” del cambiamento, in un ciclo di alternanza tra conservatori-neoliberisti e progressisti che, dal ritorno della democrazia, si va ripetendo. Praticamente nessuno è stato eletto per le sue ricette economiche: a convincere è stata piuttosto la promessa di debellare la violenza, la criminalità, la corruzione. Il paradosso è che i cittadini che hanno concesso la maggioranza ai presidenti conservatori non sono d’accordo con buona parte del loro programma economico. I diritti acquisiti nella precedente stagione non si toccano, è questo il messaggio recapitato al nuovo potere.
La grande differenza, con tutti i noti limiti, tra i nuovi Presidenti e i loro predecessori è che questi ultimi avevano una visione geopolitica. Avevano interpretato le dinamiche che si erano aperte con la globalizzazione e, riprendendo la vecchia bandiera dell’unità latinoamericana, avevano anzitutto posto le basi per una comunità regionale, per poi diversificare gli interlocutori a livello globale. Medio Oriente, Africa, Russia e soprattutto la Cina sono diventati nuovi partner strategici e nuovi mercati, consentendo al subcontinente di spezzare la storica dipendenza dall’Europa e dagli Stati Uniti. Il limite più evidente era che, con la parziale eccezione del Brasile, la condizione di esportatori di commodities condizionava la prosperità dei Paesi sudamericani e vincolava la possibilità di fare politica all’andamento del ciclo delle materie prime. Per mandare in crisi lo schema sono bastati il raffreddamento della Cina e la lunga recessione europea. Nella fase che comincia ora si torna su strade già percorse: ogni Paese cerca di far valere singolarmente il proprio peso per ottenere accordi favorevoli.
Negli ultimi due decenni, a differenza di quanto accadeva in passato, la forza d’urto degli Usa in America Latina è stata più economica che politica. Il mercato statunitense assorbe 220 miliardi di dollari in merci provenienti dall’America Latina, mentre le sue imprese investono ogni anno 20 miliardi di dollari a sud del Río Bravo: cifre enormi che si aggiungono ai ben 40 miliardi di dollari spediti alle famiglie d’origine dai latinos che vivono negli Usa. Tra vecchie e nuove realtà, il rapporto asimmetrico tra Stati Uniti e America Latina resta comunque segnato dalla storia, e non pare che Washington abbia oggi la volontà di far diventare “soci” Paesi verso i quali ha sempre fatto valere la sua condizione di potenza. Donald Trump, che non ha alcuna visione strategica rispetto al Sudamerica, sfrutterà a suo favore il sentiment dei nuovi Presidenti giocando su aperture o chiusure del mercato statunitense. Essendo il suo interesse verso l’America Latina soltanto legato all’immigrazione e alla sicurezza, le priorità della sua presidenza si concentrano sui Paesi centroamericani e sul Messico.
Se il “combinato disposto” della crisi economica, dell’aumento della violenza e della corruzione politica ha generato il terremoto in corso, resta il fatto che per il Sudamerica il rallentamento della globalizzazione e la tendenza in corso a ridiscutere il multilateralismo rappresenta un danno. Una delle grandi opportunità mancate per i Paesi del Mercosur, e anche per l’Unione Europea, è l’accordo commerciale che langue da 15 anni per i veti incrociati soprattutto sul capitolo agricolo. Nel clima attuale è difficile che l’accordo possa chiudersi. Questo fallimento andrà a sommarsi alla prevedibile messa in standby del Mercosur stesso, come annunciato dal Presidente brasiliano Bolsonaro che nel suo primo viaggio all’estero ha ignorato l’Argentina, socio storico, per premiare il Cile, paese storicamente allergico al multilateralismo.
In questi anni non è stato secondario il deterioramento della democrazia, fra tentativi riusciti o mancati di cambiare le regole fondamentali, come accaduto in Bolivia, Venezuela, Paraguay, e scontri tra i poteri dello Stato come in Brasile. Cittadini vessati e arrabbiati mettono in discussione la democrazia e tornano a sognare “mani forti”. Nella passata stagione ci sono stati incredibili avanzamenti sul piano dei diritti individuali e sociali; oggi si invoca la restrizione degli stessi. Quanto i nuovi presidenti sapranno imbastire una narrazione positiva e inclusiva dopo la conquista del potere è tutto da vedersi. Soprattutto, quanto tempo ci metteranno i loro elettori a “scoprire” il pensiero economico dei loro eletti, lo stesso che in passato fu violentemente ripudiato.
Molto si è scritto sulla crisi della sinistra latinoamericana, che continua a rappresentare decine di milioni di elettori, ma molto poco sulla crisi del centrodestra storico. Quel centrodestra inghiottito dai falchi in Brasile, in Colombia e in Perù, moribondo in Argentina, minoritario per quanto al governo in Cile. Se le uniche carte che hanno da giocare i nuovi conservatori sono la svolta sicuritaria e le ricette neoliberiste il limite della durata dei loro Governi è già scritto, saranno esperienze brevi. Il punto è cosa ci potrà essere dopo, visto lo spiraglio di divisioni e reciproche accuse sull’altro fronte. In America Latina continua a mancare una visione condivisa sulla risposta da dare alla criminalità, alla corruzione e alla povertà. Finché non ci sarà, la politica dei Paesi sudamericani resterà in bilico tra populismi di diverso segno, instabilità e crisi economica. In un clima internazionale dove sta prevalendo il si salvi chi può, il frazionamento politico e la fine di un posizionamento sudamericano nella globalizzazione non è una buona notizia per il futuro del multilateralismo.
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