Corsa alle armi
Negli anni, la spesa militare è cresciuta – e continua a farlo – in linea con l’espansione economica. Le intenzioni non sarebbero bellicose, però...
Negli anni, la spesa militare è cresciuta – e continua a farlo – in linea con l’espansione economica. Le intenzioni non sarebbero bellicose, però…
Una delle caratteristiche principali che la Cina cerca sempre di sottolineare è il carattere pacifico della propria ascesa. Pechino utilizza questo elemento per rassicurare, tanto quando si tratta del progetto della nuova Via della Seta, quanto in relazione ai propri vicini asiatici. La forza economica, cui segue un ovvio aumento delle potenzialità militari, costituisce uno dei principali motivi di sospetto dei Paesi asiatici che, se vedono la Cina muoversi con una certa disinvoltura sulla scacchiera della diplomazia internazionale, devono poi fare i conti, in Asia, con una muscolarità cinese sempre più evidente.
Nel corso dell’ultima sessione legislativa, nel marzo 2019, l’Assemblea Nazionale ha approvato il budget della difesa che prevede un aumento di circa il 7,5% delle spese militari (un aumento minore rispetto all’8,1% del 2018). Ma più che all’aumento in sé, un primo sguardo va posto sulla riforma delle forze militari che Xi Jinping ha voluto per adeguare il proprio esercito alle nuove sfide globali che la Cina dovrà affrontare. È necessario innanzitutto comprendere come l’attuale dirigenza concepisce il proprio apparato militare, prima di analizzare quali atteggiamenti Pechino stia tenendo in Asia, con particolare attenzione al Mar Cinese Meridionale e al confine indo-cinese da sempre argomento spinoso con il vicino indiano.
La riforma dell’esercito voluta dal Presidente cinese, tiene conto di alcune novità: innanzitutto l’evoluzione tecnologica, che permette di utilizzare nuove strumentazioni e che ovviamente finisce per modificare l’approccio ai temi militari; in secondo luogo – e si tratta di un argomento dirimente – il progetto della nuova Via della Seta (BRI) ha portato Pechino a modificare le proprie esigenze militari: la Cina avrà bisogno sempre più di forze capaci di muoversi in modo rapido, in ambienti differenti, che dovranno specializzarsi nel garantire più di tutto la sicurezza degli investimenti cinesi e del personale cinese impegnato nel controllo degli snodi commerciali più importanti della Belt and Road Initiative. Quindi, la recente riforma ha ristrutturato completamente l’esercito, portando il PLA a ridurre i propri uomini a 300.000, tagliando le forze di terra e aumentando la dimensione della forza in seno alla marina e all’aviazione. La ristrutturazione – come specifica un report del National Defense University Press – “rispecchia la volontà di rafforzare l’esercito per le operazioni congiunte in terra, in mare, in aria e nello spazio”. È stato creato anche un sistema di comando congiunto che integra altre modifiche recenti. Il potenziamento della marina, elemento che preoccupa più di altri gli Stati Uniti, è concepito proprio in funzione del controllo del Mar Cinese Meridionale.
Questa zona è quella più a rischio dell’intera regione, perché gli interessi sono tanti e perché le recenti attività di militarizzazione dell’area da parte della Cina hanno provocato una reazione altrettanto vigorosa degli Stati Uniti (che di recente hanno fatto sorvolare porzioni di mare dai propri B52).
L’ultimo in ordine di tempo a lamentarsi con Pechino è stato il Vietnam: il 28 marzo Hanoi ha accusato la Cina di violare le legislazioni internazionali. “Il Vietnam” – ha affermato il Ministero degli Esteri vietnamita, Le Thi Thu Hang – “ha piena base legale e prove storiche per affermare la propria “indiscutibile sovranità” sugli arcipelaghi Paracels e Spratly, in conformità col diritto internazionale chiediamo che la Cina rispetti le leggi internazionali, ne riconosca la sovranità e che non si ripetano attività simili che aumentano la tensione nell’area”.
Il Mar Cinese Meridionale è strategicamente rilevante per più motivi. Innanzitutto perché da lì passa circa un terzo del commercio mondiale, in secondo luogo perché i fondali sono ricchi di risorse, in terzo luogo perché alcune delle isole contese costituiscono un polmone economico – ad esempio per le Filippine – per l’industria locale della pesca. Negli ultimi cinque anni la Cina ha potenziato in modo esponenziale il controllo su alcuni atolli, arrivando a sviluppare strutture militari e civili lungo tutta la cosiddetta “linea a nove punti”, il vero e proprio confine marittimo della Cina, secondo Pechino. E, come ha espresso il Presidente delle Filippine Duterte, di fatto oggi la Cina è già in pieno controllo dell’intero Mar Cinese Meridionale. Il problema è che in quelle acque l’incidente potrebbe arrivare da un momento all’altro, a causa del grande traffico marittimo che vede protagonisti tutti i Paesi dell’area, e pure gli Stati Uniti.
L’8 marzo 2019, il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi, nel corso della conferenza stampa a margine della seconda sessione della 13ma Assemblea nazionale del popolo, ha affermato che “la chiave per la pace e la stabilità nel Mar Cinese Meridionale dovrebbe essere nelle mani dei paesi della regione. Il Codice di condotta (Coc) dovrebbe essere formulato congiuntamente e condiviso dai paesi regionali. Allo stato attuale, ha aggiunto il Ministro, il processo di consultazione del Coc è stato accelerato. La parte cinese si è offerta di dimostrare responsabilità entro tre anni, ovvero di definire gli orientamenti entro il 2021. Sempre più paesi Asean hanno iniziato a sostenere e accettare la proposta della Cina di accelerare le consultazioni”. Il problema è che Pechino, anche nel Mar Cinese Meridionale, non pare troppo disposta ad accettare quanto deciso da altri, come ad esempio la sentenza della Corte Internazionale di arbitrato dell’Aja che, nel 2016, aveva deciso che le acque rivendicate come proprie dalla Cina sono in realtà “acque internazionali”. Una sentenza che la Cina ha finto di ignorare, continuando a militarizzare la zona e provvedendo, con accordi commerciali, a sminare problematiche di natura diplomatica con altri Paesi.
Ma l’approccio muscolare cinese nell’area asiatica è visibile anche in relazione al proprio vicino indiano. Se è vero che entrambi i Paesi hanno aumentato i propri budget militari, così come è vero che Nuova Delhi ha sempre accusato Pechino di costruire una sorta di accerchiamento geopolitico nei suoi confronti (il cosiddetto “filo di perle”), negli ultimi tempi le dispute territoriali si sono acuite, rendendo la zona potenzialmente a rischio di uno scontro militare di proporzioni più vaste. Le aree contese sono due: la provincia dell’Arunachal Pradesh e la regione del Doklam (in cinese Donglang), dove nell’estate scorsa si è assistito a una pericolosa escalation in prossimità del confine tra Cina e Buthan. In questo caso è stato proprio il Buthan a costituire il centro del problema: il Paese è formalmente alleato dell’India, ma ha buoni rapporti con Pechino da cui è attratto per le possibilità di investimento cinesi, benché non abbia accettato di fare parte del progetto della nuova Via della Seta (un altro motivo di attrito tra Cina e India, specie a causa del corridoio sino pakistano che ha indispettito e non poco Nuova Delhi). Così il progetto della costruzione di una strada da parte cinese è diventato il pretesto per scaramucce che rischiano sempre di diventare qualcosa di ben più problematico.
All’epoca non venne sparato un colpo ma l’impasse diplomatica durò per oltre dieci giorni. I motivi di scontro tra i due giganti regionali sono tanti e gli sforzi di Pechino a questo proposito vengono veicolati proprio dalla Belt and Road Initiative: Pechino, come in altre aree del mondo, cerca di irretire anche potenziali avversari attraverso gli strumenti degli accordi commerciali, puntando ad alleggerire i sospetti nei propri confronti. Ma la sua recente crescita anche dal punto di vista militare, sfoggiata in ogni occasione propizia, ha creato un generale clima di sfiducia in Asia. A favorire Pechino c’è però l’attuale atteggiamento americano: l’affossamento da parte di Trump della Transpacific Partnership (Tpp) voluta fortemente da Obama proprio per isolare a livello commerciale la Cina, è stato letto come un messaggio di disimpegno. In questo modo Pechino, nonostante tutto, è tornata ad essere un punto di riferimento per tanti Paesi asiatici, anche con i rischi che la sua espansione comporta.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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