È urgente una stagione di profonde riforme strutturali che mobilitino nuove energie in un Paese certo non privo di capacità, intelligenza e competenza
Le superstar stanno perdendo lustro, invecchiate: le maggiori imprese tedesche sono ancora grandi nomi ma ormai campionesse del secolo scorso, lontane dai confini tecnologici nei quali si gioca il futuro. Le banche della Germania soffrono più di altre il regime di tassi d’interesse bassi nel mondo, negativi nell’eurozona, e la loro redditività è troppo bassa. La Cina, tanto coltivata da Angela Merkel, rallenta e con essa le esportazioni sulla tratta ferroviaria Duisburg-Chongqing e dal porto di Amburgo. A Berlino, la politica è ogni giorno più introversa, imperniata su una Grosse Koalition che palesemente non ha molto da dare al Paese, forse qualcosa da togliere. L’àncora di stabilità europea della scorsa dozzina d’anni – che prendeva la forma dell’egemonia tedesca e il volto della cancelliera Merkel – è insomma alla fine del ciclo. Nel 2019, si scopre instabile. Non è una buona notizia: una Germania forte che sa dove andare è decisamente preferibile a una Germania incerta, se non confusa.
Nel decennio passato, l’economia del Paese è cresciuta in media al 2% l’anno: niente di straordinario ma non male. L’occupazione è salita ai livelli tra i più alti tra i membri dell’Ocse e la disoccupazione è ai minimi storici, sotto al 4%. Il bilancio pubblico continua a essere in surplus e il debito è sceso sotto il parametro di Maastricht del 60% del Pil. Negli ultimi trimestri i salari sono aumentati. Per essere chiari, dunque, occorre dire che si parte da una posizione macroeconomica invidiabile. Perché, dunque, tanto pessimismo in un Paese che non solo mostra fondamentali più che decenti ma che anche ha sempre saputo rispondere ai momenti difficili (ad esempio la riunificazione, quando sembrò essere “il malato d’Europa”)? Fondamentalmente per l’incrocio tra i grandi mutamenti in corso nel mondo – economici e geopolitici – e l’incapacità dell’establishment allargato di vederli e di affrontarli.
“Al momento, le prospettive per l’industria tedesca sono tutto meno che rosee”, sosteneva all’inizio di agosto Robert Lehmann, economista dell’Ifo di Monaco, uno dei centri di ricerca più autorevoli d’Europa. “Più e più imprese stanno annunciando che intendono tagliare la loro produzione nel prossimo trimestre. Significa che il numero dei pessimisti ora eccede di gran lunga il numero degli ottimisti. Una fine della recessione nell’industria tedesca al momento non è in vista.” La manifattura va insomma male e ciò riverbera sull’economia in generale: una recessione dell’intera economia è più che possibile, anche secondo la Bundesbank, e la Brexit in arrivo la rende ancora più probabile.
Nel breve periodo, i colpi sono stati portati prima dalle crisi del settore auto e chimico e poi dal rallentamento dell’economia cinese, primo partner commerciale tedesco ormai da tre anni. Con una visione più lunga, però, si deve notare che le imprese tedesche rimangono eccellenti in settori nei quali hanno consolidato la loro leadership negli anni ma sono deboli in quelli più innovativi, dalla produzione delle batterie che saranno il cuore delle auto del futuro alle nuove telecomunicazioni. Con eccezioni, naturalmente: è però indubitabile che, dall’alto della loro egemonia, i grandi gruppi industriali non abbiano visto con chiarezza arrivare le grandi trasformazioni del Ventunesimo Secolo.
L’intera Germania si lamenta dei bassi tassi d’interesse, i quali tagliano i profitti alle banche e alle assicurazioni e penalizzano i fondi pensione in un Paese di grandi risparmiatori. E tende a incolpare la Banca centrale europea e Mario Draghi quando, invece, i tassi sono bassi perché l’economia dell’eurozona è debole e l’inflazione minima. La realtà è che, ancora di più dell’industria manifatturiera, il settore bancario è ingessato in modelli del passato che vedono un eccessivo numero di istituti di credito e una struttura nella quale i rapporti con il potere, nazionale e soprattutto locale, sono forti e spesso chiudono la strada dell’innovazione: in una fase nella quale la disintermediazione delle banche si fa sempre più sentire e nella quale i tassi d’interesse sono bassi (e tali resteranno), gran parte del sistema punta ancora, per fare profitti, sul vecchio modello del differenziale di rendimento tra depositi e impieghi. In un panorama troppo frammentato: le prime cinque banche, per dire, in Germania contano per il 29,7% del totale degli asset del sistema, contro il 36,9% nel Regno Unito, il 43,4% in Italia, il 45,4% in Francia. In questo quadro, la redditività è pessima. La Bundesbank calcola che il costo del capitale − cioè il tasso di ritorno sull’investimento necessario per convincere qualcuno a comprare azioni di una banca tedesca – sia dell’8%: negli scorsi tre anni, nessuno dei tre maggiori istituti di credito (Deutsche Bank, Dz Bank, Commerzbank) si è nemmeno avvicinato a quella soglia. Anche qui, una preoccupante sclerosi.
Com’è che la Germania − Paese di ingegneri e di scienziati e anche di grandi banchieri nel passato − fatica a innovare? La risposta si può trovare nelle raccomandazioni che il Fondo monetario internazionale le ha suggerito lo scorso luglio. Ridurre il peso fiscale, soprattutto per le famiglie più povere. Aiutare la cura dei bambini per aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Migliorare l’istruzione: l’Ocse dice che “i risultati dell’istruzione e i successi degli studenti nel mercato del lavoro continuano a essere strettamente collegati al loro background socio-economico”; l’ascensore sociale, insomma, non funziona. Incoraggiare l’aumento dei salari. Effettuare riforme strutturali per incentivare l’innovazione; sviluppare il venture capital; alleggerire la burocrazia. Pressare affinché il settore bancario ristrutturi e aumenti la redditività. L’Ocse aggiunge la necessità di migliorare la produttività nei servizi – francamente bassa e caratterizzata da posizioni di scarsa concorrenza in settori come il commercio e le comunicazioni.
In altri termini, sia l’Fmi che l’Ocse chiedono a Berlino di riprendere la strada delle riforme strutturali. Il Paese non ne fa di significative da 15 anni, dall’Agenda 2010 di Gerhard Schröder della prima metà degli Anni Duemila. In quasi 14 anni da cancelliera, Angela Merkel non ne ha promosse, né quando ha guidato gli ormai tre governi di Grande Coalizione né quando ha guidato quello con i Liberali. Il risultato è che, pur con la sua forza industriale e con il poderoso sistema di consenso che la caratterizza, la Germania pare essere un Paese che non riesce a tenere il passo con le sfide economiche e tecnologiche del momento, soprattutto con la capacità innovativa dei suoi maggiori partner commerciali, Cina e Stati Uniti. Non le mancano le capacità, le intelligenze e le competenze. E nemmeno le possibilità teoriche sia nei grandi gruppi che nelle straordinarie medie imprese. È l’attitudine politica a creare l’immobilismo, a mantenere uno stato di fatto in cui le tasse sono alte, la burocrazia cospicua e non sempre efficiente, la finanza frustrata dai vincoli di un sistema bancario vecchio ma dominante.
Spesso, fuori dalla Germania si ritiene che il problema sia lo Schwarze Null, la scelta di avere un bilancio pubblico in equilibrio o in surplus. Meglio ancora: si dice che Berlino dovrebbe spendere di più. La questione, naturalmente, è più complicata. Non solo perché l’ordoliberismo tedesco, cioè l’ortodossia dominante, va in direzione opposta. Ma anche perché sia i Governi sia la maggioranza della popolazione ritengono che un bilancio dello Stato robusto sia un’assicurazione per i momenti difficili. Quello ad esempio degli anni scorsi quando è arrivato un milione e mezzo di profughi da integrare. O quello che ha permesso al Paese di superare abbastanza bene la crisi del 2008 e poi quella dell’euro. E quello che si prepara a causa di una demografia caratterizzata dall’invecchiamento. Certo, la Germania ha bisogno di una pressione fiscale minore. Ma ha anche bisogno di riforme strutturali profonde, quelle che Frau Merkel si è dimenticata quando è diventata cancelliera nel 2005 e ora, a fine carriera, non ha la forza, e probabilmente la voglia, di realizzare.
@danilotaino
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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È urgente una stagione di profonde riforme strutturali che mobilitino nuove energie in un Paese certo non privo di capacità, intelligenza e competenza