Il sistema bancario tedesco è arcaico e non competitivo nel mondo. Le troppe banche tedesche sono tra le meno redditizie d’Europa
Una cosa che pochi sanno è che nel 2008 il sistema bancario europeo fu a un passo dal drammatico crollo. Crollo nel senso che con ogni probabilità il meccanismo europeo dei pagamenti si sarebbe bloccato, “i bancomat non avrebbero più funzionato”, raccontò qualche settimana dopo un grande banchiere italiano. A un centimetro dalla catastrofe, disse un finanziere al Corriere della Sera. Quel centimetro non fu percorso solo per l’intervento della Bundesbank e di Angela Merkel.
In seguito alla crisi della Lehman Brothers, la Hypo Real Estate (Hre) − una holding bancaria con sede a Monaco di Baviera – si trovò in una situazione drammatica. Dopo alcuni tentativi per farla salvare dal sistema creditizio del Paese, andati a vuoto, si arrivò, nella notte tra il 28 e 29 settembre 2008, a un bivio netto: o si nazionalizzava la banca oppure questa sarebbe fallita, con conseguenze drammatiche data la sua dimensione e la sua rilevanza nel mercato. Sarebbe stata una crisi greca su scala europea. Il problema, in quelle ore, fu che il Ministero delle Finanze, allora guidato da Peer Steinbrück, si rifiutava di intervenire, ligio al comprensibile concetto che il denaro dei cittadini non può essere usato per appianare le perdite dei banchieri. Il Presidente della Bundesbank, a quel tempo Axel Weber, salì in fretta su un aereo e da Francoforte volò a Berlino per incontrare nella notte Angela Merkel. Le rappresentò la drammaticità della situazione e solo a quel punto la Cancelliera intervenne e impose la nazionalizzazione. Che alla fine, nel giro di un anno, si concretizzò in un esborso pubblico di 102 miliardi di euro.
L’episodio racconta che il sistema bancario tedesco in quei giorni era estremamente vulnerabile. Purtroppo le cose non sono cambiate molto. Ancora oggi, l’intero complesso finanziario della Germania è arretrato, poco efficiente e redditizio, fondato su modelli di business tradizionali che in tempi di bassi tassi d’interesse soffrono. E ha un perverso legame con lo Stato, con il Governo centrale, con quelli dei Länder e con i municipi. La discussione di questi giorni, accesissima, sulla fusione possibile (e sponsorizzata dall’esecutivo di Berlino) tra Deutsche Bank e Commerzbank illustra la situazione.
Nell’opinione di gran parte degli esperti di affari bancari, la fusione non ha molto senso. Si metterebbero assieme due debolezze e si creerebbe un gigante complicatissimo, che per anni dovrebbe dedicare le proprie energie a mettere assieme due realtà molto diverse, a cominciare dal sistema informatico; soprattutto si creerebbe un’entità chiaramente too-big-to-fail, impossibile da lasciare fallire per gli effetti sistemici che ciò avrebbe. Il contrario di quello che nel mondo si è deciso di fare dopo la crisi del 2008. Il fatto è che il Governo di Berlino è terrorizzato dall’idea che entri in crisi la Deutsche Bank, in difficoltà e essa stessa già oggi too-big-to-fail. Su spinta del Ministro delle Finanze Olaf Scholz, ha quindi usato la quota azionaria che detiene nella Commerzbank (15%) per spingere ad aprire colloqui di fusione tra i due prestatori tedeschi. Le autorità di vigilanza europee sono scettiche, i mercati anche: se hai un grande problema, ha poco senso renderlo più grande.
La questione è seria. Una crisi nel sistema finanziario del Paese al cuore dell’Europa sarebbe devastante. Inoltre, la fusione Deutsche Bank-Commerzbank non farebbe nulla per risolvere i problemi di arretratezza strutturale e di debolezza dell’intero sistema bancario tedesco. Così come gli Stati Uniti sono il modello di economia che si finanzia per lo più attraverso il mercato dei capitali, la Germania è l’opposto, il caso più evidente, assieme a quello giapponese, di sistema banco-centrico. La salute dei suoi istituti di credito è quindi un affare vitale.
Nel Paese ci sono più di 1.800 banche. Stanno ristrutturando, chiudono filiali – che sono pur sempre 35 mila – alcune piccole si fondono. Il risultato, però, non è granché. Secondo Walter Sinn e Wilhelm Schmundt della società di consulenza Bain, nel 2017 il ritorno medio sull’equity è stato un modestissimo 2,0% e solo una banca su 12 è stata in grado di guadagnare il costo del capitale (ciò che il mercato chiede per investire in quella banca). Una delle ragioni, spesso sollevata in Germania, per questa bassa redditività sta nei tassi a zero – e negativi dello 0,4% per i depositi presso la Bce – decisi dalla Banca Centrale Europea: non consentono di guadagnare nel modo tradizionale in cui gran parte delle banche tedesche fa business, cioè lavorando sulla differenza tra tassi d’interesse di raccolta e tassi di impiego. Già questo è il segno di un problema di vetustà del modello, soprattutto in una fase in cui la concorrenza delle nuove forme bancarie, soprattutto la Fintech, cresce. Ma c’è molto di più e riguarda la struttura stessa del mondo bancario tedesco.
Il sistema funziona sostanzialmente su tre pilastri da quasi due secoli, unico caso del genere in Europa se non per quello simile austriaco. Ci sono le banche private, grandi, abbastanza grandi e piccole che in totale coprono il 40% del sistema in termini di asset. Il secondo pilastro è costituito dalle banche di risparmio, con coinvolgimento azionario pubblico, che a sua volta si divide in due sottogruppi: le locali (Sparkassen) e le Landesbanken, regionali ma spesso attive a livello nazionale; i loro asset complessivi sono vicini a quelli delle private. Infine abbiamo le banche cooperative, locali ma sostenute da un centro finanziario. Fuori dai tre pilastri ci sono banche specializzate, la più importante delle quali è la Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW), pubblica.
Quando si parla del mondo tedesco del credito, di solito si guarda alle grandi entità private. In realtà, storicamente, le più di 400 banche di risparmio, le sette Landesbanken e le cooperative hanno avuto e hanno un ruolo centrale nel finanziamento delle imprese piccole e medie della Germania. Fortemente legate al potere locale (sono in maggioranza presiedute da un politico), che non ne è legalmente proprietario ma esercita una notevole influenza (l’83% dei posti nei consigli direttivi è occupato da politici), sono spesso considerate una spina dorsale dell’economia. Le cugine Landesbanken sostengono le Sparkassen in operazioni che queste non sono in grado di esercitare. La crisi finanziaria ha duramente colpito le Landesbanken e ne ha costrette alcune a fondersi, cosicché oggi ne sono rimaste sette. Le oltre mille banche cooperative, per parte loro, sono delle specie di club i cui proprietari sono chiamati membri e operano in modo del tutto simile a quelle di risparmio: raccolgono denaro e lo impiegano a favore di imprese locali e famiglie.
Nel complesso, meno della metà delle banche tedesche (in termini di asset) è interamente privato e mosso solo dal profitto. Il resto, pubblico o cooperativo, deve agire (almeno in teoria) entro confini “sociali”. Ciò dà stabilità in alcune fasi ma crea problemi seri di redditività in periodi come l’attuale di tassi d’interesse a zero e di forte concorrenza. In più, la presenza dei politici nelle Sparkassen non aiuta ristrutturazioni e fusioni in un sistema con un netto eccesso di banche che riduce i profitti. Vecchie questioni, note ma mai affrontate.
Oggi, le banche tedesche sono le meno redditizie d’Europa escluse quelle greche e portoghesi. Deutsche Bank e Commerzbank sono forse un problema. Ma, nel mondo del dopo crisi e della Fintech, il sistema dei tre pilastri e dello strapotere dello Stato ha probabilmente fatto il suo tempo. C’è ben più da fare.
@danilotaino
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Il sistema bancario tedesco è arcaico e non competitivo nel mondo. Le troppe banche tedesche sono tra le meno redditizie d’Europa