La sconfitta del partito del Presidente a Istanbul, dove era sindaco, potrebbe davvero segnare l’inizio simbolico di un suo lento declino
“Chi conquista Istanbul, conquista la Turchia” ha più volte affermato il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, e oggi – dopo i deludenti risultati elettorali nelle più grandi città del Paese, in cui il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) ha subito importanti sconfitte − vi è un grande interrogativo sulla tenuta dello stesso e sul futuro corso politico del Paese. Con la ripetizione del voto a Istanbul Erdogan ha segnato un vero e proprio autogoal a favore del candidato dell’opposizione: con uno scarto di quasi 10 punti percentuali e la conquista della maggior parte dei distretti, Ekrem Imamoglu ha siglato una vittoria plebiscitaria, presentandosi come l’uomo nuovo in grado di cambiare le sorti della Turchia. Rispetto alla tornata del 31 marzo non solo il suo supporto è cresciuto esponenzialmente, sottraendo gran parte degli storici distretti conservatori alla sfera Akp, ma anche laddove il partito del Presidente è riuscito a imporsi, il sostegno è drasticamente calato. Una sconfitta probabilmente annunciata, ma certamente non auspicata. Infatti, dopo che il Supremo Consiglio Elettorale (Ysk) ha accolto il ricorso per presunte irregolarità presentato dall’Akp, gran parte della società si è mobilitata dietro lo slogan Her şey çok güzel olacak (sarà tutto molto bello), a dimostrazione che, nonostante tutto, le scelte individuali sono inviolabili. A poco, invece, sono serviti i caroselli dell’Akp che in posizione quasi difensiva ha replicato con l’hashtag #DahaGüzelOlacak (sarà tutto più bello).
Che fosse una partita vitale lo ha confermato il faccia a faccia tra i due candidati sindaci − il primo dopo 16 anni − e il basso profilo di Erdogan, trinceratosi dietro un insolito silenzio. Il 23 giugno ha segnato, quindi, un altro turning point nelle dinamiche politiche della Turchia, marcando l’inizio della parabola discendente dell’Akp. In verità, rispetto alla precedente tornata elettorale del giugno 2018, il supporto accordato a Erdogan e il suo partito è rimasto pressoché invariato, garantendo la maggioranza su scala nazionale e il controllo di 15 città metropolitane oltre che di 24 province. Tuttavia, a un’attenta osservazione, i primi segnali di crisi della gestione monocolore Akp furono ravvisabili già dalla chiamata anticipata alle urne dell’anno precedente quando, dopo la revisione della legge elettorale, nacque “Alleanza del Popolo” con l’obiettivo di rafforzare il supporto grazie alla convergenza con il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp). Allora l’Akp si mostrava preoccupato di capitalizzare i consensi del blocco nazionalista sulle questioni regionali, giocando in anticipo sulla drastica caduta del dato economico, vero collante sociale e motivo di orgoglio della sua amministrazione. Il 24 giugno 2018 si presentò, dunque, come l’elezione che avrebbe cambiato le sorti della Turchia in senso presidenziale ed Erdogan, candidato congiunto dell’Alleanza, ne uscì vincitore con un consenso del 52.5%. Sebbene il compromesso tra l’orgoglio nazionale e i valori religiosi sia stato il principale collante sociale, l’AKP mancò l’obiettivo di una maggioranza parlamentare assoluta, mantenuta comunque grazie alla coalizione con il MHP.
Nell’intento di contrastare il disegno egemonico del Presidente, per la prima volta nella storia, tutti i gruppi all’opposizione, pur appartenendo ad anime diverse e a tradizioni fino ad allora inconciliabili, hanno fatto blocco comune. In questo spirito si è assistito all’evoluzione delle tradizionali linee di frattura dal modello “religione-laicità”, “periferia-città” al cleavage “pro-contro Erdogan”. Lo stesso riallineamento, utile a disgregare il bacino elettorale dell’Akp, si è ripetuto nel più recente voto di Istanbul, cristallizzando il cambiamento sociale in atto nel Paese. Quello a favore di Imamoğlu, infatti, non solo è stato un voto di appartenenza dei sostenitori repubblicani, ma soprattutto un voto di protesta dei disillusi della gestione della cosa pubblica per la sua connotazione eccessivamente personalistica e clientelare; dei liberal-conservatori che con il tempo si sono sentiti alienati dal programma politico dell’Akp e dalla sua trasformazione in partito di stato; dei più conservatori e degli islamisti che a un certo punto sono stati estromessi dai network del partito in nome del connubio con i nazionalisti del Mhp, e di tutti coloro che vogliono essere riconosciuti nelle proprie richieste di rappresentanza. La ricerca del compromesso, di un linguaggio a misura di cittadino e di una legittimazione che provenga dal basso sono stati il motore del nuovo posizionamento elettorale, dimostrando comunque una certa convergenza verso il centro dello spettro politico turco.
E proprio in questa logica rientrano anche le recenti dimissioni dall’Akp di Ali Babacan, già Ministro degli Esteri e architetto del “miracolo economico turco”, e i relativi rumors riguardo la fondazione di un nuovo partito da lui diretto. Affermando di essere “cresciuto mentalmente e di sentirsi emotivamente separato dall’Akp” e che la Turchia ha bisogno di “una nuova visione”, Babacan ha annunciato di “condividere con molti colleghi un grande senso di responsabilità verso il Paese”, lasciando intendere che i tempi sono maturi per scendere in campo con una nuova formazione. Sebbene non ci siano ancora dettagli precisi, il progetto sarebbe condiviso dall’ex Presidente della Repubblica di Turchia – Abdullah Gül, cofondatore dell’Akp e promotore della concezione di “politica come servizio alle persone”. Fuoriuscito dai ranghi del partito dopo la fine del suo mandato presidenziale nel 2014, Gül è stato spesso al centro di speculazioni per i presunti dissidi con Erdogan. Quel che è noto è che le due visioni non si sono trovate sempre d’accordo, soprattutto in riferimento all’avvio del sistema presidenziale e alla critica questione dell’approccio populista dell’attuale amministrazione. Sebbene nella sua lunga carriera politica Gül si sia mostrato intellettualmente profondo e moderato − ma non incline ad alcun tipo di opposizione e sfida −, ci sono elementi per considerare il suo ruolo nella nuova formazione come guida e mentore. L’ex Presidente incarnerebbe, dunque, la figura di quello che in gergo turco è definito “ağabey” − ossia il fratello maggiore, quel saggio anziano che dispensa consigli ascoltati da tutti.
Come è noto, a fronte di tali movimenti la reazione di Erdogan non si è fatta attendere. Lo stesso si era incontrato personalmente con Babacan e nei commenti successivi è trapelato un certo fastidio. “Va bene, puoi andare per la tua strada. Ma non hai il diritto di fratturare l‘ummah. È quello che stai facendo, e non puoi giungere da nessuna parte disgregando l’ummah.” Certamente, la reazione non stupisce in quanto l’uso strumentale di concetti che si riferiscono alla comunità islamica rientra nella narrativa più recente del Presidente, che per certi settori della società è addirittura considerato come “Rab” (Signore). Il paragone tra Akp e ummah, dunque, è utile a elevare il suo discorso politico e ruolo di leader a quello di guida spirituale, per cui ogni tentativo fazioso è percepito come contrario ai dettami dell’islam. Ma non solo, i riferimenti alla defezione di Babacan indicano anche un certo timore per il disfacimento dei ranghi dell’Akp e del Governo stesso. “Coloro che sono coinvolti in tali tradimenti pagheranno pesantemente il prezzo di quest’opera”, ha tuonato Erdogan durante il vertice del suo partito. Non è un caso che le intenzioni di Babacan siano state ufficializzate due settimane dopo la storica disfatta di Istanbul, formalizzando quella spaccatura interna all’Akp che risale a qualche anno fa e che oggi segna un crescente dissenso verso il suo leader. Le principali critiche si riferiscono alle retoriche polarizzanti e alle propensioni autoritarie dell’attuale amministrazione mentre si prediligerebbe un discorso politico più moderato e aggregante, che punti all’ancoraggio europeo.
E in un momento di grande sofferenza del dato economico, l’attenzione è volta al contenimento dei rischi e al rilancio del Paese nello scenario internazionale. “Oggi la Turchia non ha altra scelta che essere un’economia aperta” − ha enfatizzato tempi addietro Babacan – “pertanto, è necessaria una struttura economica e finanziaria costruita sulla credibilità, che sia integrata con il mondo (…). Il populismo è un malessere comune in politica e non dobbiamo cadere in questa trappola.”
Ne discende che il nuovo gruppo intende ricalcare quello che fu lo spirito originario del primo Akp: un partito di centro destra, fortemente liberista e liberale in termini economici e di proiezione esterna, garante dello stato di diritto e socialmente conservatore, che mira ad attrarre le simpatie delle classi medie urbane e periferiche in uno spirito inclusivo e non polarizzante. Sebbene non vi siano conferme, con buona probabilità la squadra sarà composta da chi, avendo gestito portafogli importanti, è già fuoriuscito o è pronto ad abbandonare l’Akp e da profili di alto calibro disillusi dall’attuale trend politico.
Un certo criticismo giunge anche dall’ex Primo Ministro e Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu che, pur essendo ancora membro dell’Akp, concorda sulla necessità di rinnovamento e sembra stia lavorando per presentarsi come soluzione ai mali che affliggono il Paese. Tuttavia, una sua ipotetica candidatura non riuscirebbe a catalizzare le simpatie di gran parte dell’opinione pubblica che lo accusa di essere il fautore dell’isolamento e dei problemi vissuti dalla Turchia dopo le Primavere Arabe. Benché sulla tempistica delle discese in campo non vi siano certezze, la questione è di cruciale importanza anche in chiave di aritmetica parlamentare: secondo la legislazione turca, affinché un gruppo parlamentare si possa formare, sono necessari almeno venti seggi, utili a unirsi alle commissioni parlamentari. A fronte della già esistente spaccatura in seno al partito del Presidente e di un’ulteriore fuoriuscita di parlamentari, l’interrogativo riguarda la tenuta dell’AKP in termini di maggioranza assoluta e le sorti dell’alleanza con il gruppo nazionalista del Mhp all’interno della Grande Assemblea Nazionale Turca. D’altra parte Erdogan, seppur intimorito, sembra aver prediletto la linea dura e una retorica che punta su principi di fedeltà e di servizio alla nazione. “L’Akp è il partito della Turchia. È la porta d’accesso al servizio della nazione,” che – secondo lui − rimane aperta per tutti coloro che aspirano a servire la Turchia mentre “tutti coloro che non sono fedeli all’organizzazione e ai suoi membri non possono mostrare fedeltà alla propria città, al proprio paese e alla propria nazione.” Nonostante le aspettative, la strategia politica ricalca quella di sempre, enfatizzando l’importanza di più efficienti piani infrastrutturali; del miglioramento delle condizioni di vita; della lotta al terrorismo e di difesa dell’interesse nazionale sia internamente che fuori confine.
Insomma, Erdogan presidente, capo di governo e leader del partito in linea con la tradizionale retorica polarizzante sottolinea la necessità di “continuare a fare quello che l’Akp ha sempre fatto” con uno spirito di rinnovata fratellanza. Eppure oggi quella fratellanza “pigliatutto”, che ha contraddistinto l’ultimo ventennio di politica turca sembra scricchiolare spingendo l’Akp verso una sintesi più smaccatamente religiosa e nazionalista. Da una posizione di invincibile predominanza oggi il gruppo di Erdogan si trova nella posizione di dover elaborare strategie difensive ed efficaci. In fondo, i più recenti cleavage sociali sono il segnale che la Turchia è entrata in una nuova fase: vi è un cambiamento in atto veicolato da un dinamismo che con ogni probabilità creerà ulteriori fratture e opportunità anche a livello politico. La strada fino al 2023 – data del prossimo appuntamento elettorale − rimane lunga e tortuosa, e il vero vincitore sarà chi riuscirà a rappresentare tutte le istanze sociali, declinandole in modo pragmatico e liberale.
@valegiannotta
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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La sconfitta del partito del Presidente a Istanbul, dove era sindaco, potrebbe davvero segnare l’inizio simbolico di un suo lento declino
“Chi conquista Istanbul, conquista la Turchia” ha più volte affermato il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, e oggi – dopo i deludenti risultati elettorali nelle più grandi città del Paese, in cui il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) ha subito importanti sconfitte − vi è un grande interrogativo sulla tenuta dello stesso e sul futuro corso politico del Paese. Con la ripetizione del voto a Istanbul Erdogan ha segnato un vero e proprio autogoal a favore del candidato dell’opposizione: con uno scarto di quasi 10 punti percentuali e la conquista della maggior parte dei distretti, Ekrem Imamoglu ha siglato una vittoria plebiscitaria, presentandosi come l’uomo nuovo in grado di cambiare le sorti della Turchia. Rispetto alla tornata del 31 marzo non solo il suo supporto è cresciuto esponenzialmente, sottraendo gran parte degli storici distretti conservatori alla sfera Akp, ma anche laddove il partito del Presidente è riuscito a imporsi, il sostegno è drasticamente calato. Una sconfitta probabilmente annunciata, ma certamente non auspicata. Infatti, dopo che il Supremo Consiglio Elettorale (Ysk) ha accolto il ricorso per presunte irregolarità presentato dall’Akp, gran parte della società si è mobilitata dietro lo slogan Her şey çok güzel olacak (sarà tutto molto bello), a dimostrazione che, nonostante tutto, le scelte individuali sono inviolabili. A poco, invece, sono serviti i caroselli dell’Akp che in posizione quasi difensiva ha replicato con l’hashtag #DahaGüzelOlacak (sarà tutto più bello).