Macri ha indugiato troppo a riformare il Paese e ora non riesce ad arginare il ritorno di Cristina
In un clima di grande incertezza economica, si sono svolte ieri le elezioni presidenziali in Argentina. L’appuntamento elettorale è certamente cruciale per il Paese e il suo esito è stato atteso con preoccupazione dai mercati finanziari.
Quando salì al potere nel 2015, il Presidente Mauricio Macri promise “zero povertà”, denunciando la corruzione dilagante durante i 12 anni di Governo di Christina Fernández de Kirchner e del suo defunto marito Néstor Kirchner. Il suo motto era “riportare l’Argentina nel mondo”, e invece il Paese negli ultimi anni è sprofondato di nuovo in una crisi nerissima: l’inflazione è schizzata al 56% all’anno e la percentuale della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è passata dal 29% al 35%. Neppure l’intervento del Fondo Monetario Internazionale (il ventunesimo della storia argentina) è riuscito a risollevare il Paese, perennemente in bilico verso la bancarotta.
Un situazione gravissima a cui l’Argentina risponde affidandosi all’ennesima ricetta peronista: quella di Alberto Fernandez del Frente de Todos (ex capo di gabinetto di Néstor Kirchner) e della sua vice, Cristina Fernandez de Kirchner (sì, ancora lei), che hanno vinto il primo turno rispettando a pieno i sondaggi. Presidente per otto anni, Fernandez de Kirchner nel 2015 ha lasciato un Paese dissanguato dalla spesa pubblica e con la credibilità internazionale ai minimi termini.
Lo sfidante di Macri, Alberto Fernandez, si è presentato con un programma fortemente improntato sul sociale e promettendo la rinegoziazione del debito con il Fondo Monetario Internazionale.
A parte le ricette elettorali – anche se Fernandez appare più moderato rispetto alla sua vice – non è chiaro quale sarà la strategia della nuova amministrazione: tutti temono il ritorno a un populismo senza freni, che affosserebbe definitivamente il Paese.
Purtroppo, l’Argentina è un grande Paese, condannato però da una classe dirigente inadeguata a drammatiche crisi cicliche. Basterebbe poco, visto l’esiguo numero di abitanti (30 milioni, per un Paese grande sette volte l’Italia) e la ricchezza di materie prime e di produzione agricola.
Riforme e cultura del lavoro dovrebbero essere i punti di riferimento per conferire competitività a un Paese altrimenti perso in numeri impressionanti e disagi di troppe persone.
@GiuScognamiglio
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