[BANGKOK] Giornalista, copre il Sud-Est asiatico per l’Ansa e per il quotidiano La Stampa.
Thailandia: un Paese per giovani
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Quando gli storici guarderanno alle proteste che hanno sconvolto la Thailandia negli ultimi mesi, due episodi in particolare saranno presi a simbolo della fine di un’era. 10 agosto: una studentessa di 21 anni legge davanti a una platea di giovani un manifesto di riforma della monarchia in dieci punti, e viene applaudita. 14 ottobre: duecento thailandesi gridano “phasii gu!”, “le nostre dannate tasse”, quando si trovano davanti la Rolls Royce con dentro la regina e l’erede al trono 15enne. Entrambi gli episodi erano inconcepibili fino a pochi anni fa e sono pura blasfemia in un Paese dove la legge di lesa maestà più severa al mondo protegge un monarca semi-divino, e simbolicamente “padre” di tutti i thailandesi.
Ma i tempi sono cambiati in fretta. Quattro anni fa la Thailandia diceva addio al “re dei re” Bhumibol dopo sette decenni sul trono. Milioni di sudditi piansero lacrime sincere, tanto forte era il legame con il sovrano che guidò il regno dalla povertà allo sviluppo. Oggi, mesi di proteste a Bangkok e decine di province hanno portato in piazza centinaia di migliaia di giovani per chiedere non solo di cambiare il Governo del generale golpista Prayuth Chan-ocha e cestinare la Costituzione scritta dai militari nel 2017, ma anche di arginare i poteri del nuovo re Vajiralongkorn (68 anni), figlio di Bhumibol. Monitorare le spese del sovrano, revocare le leggi di lesa maestà, abolire i privilegi reali, recidere il connubio tra il monarca e le forze armate: fare in sostanza della Thailandia una monarchia costituzionale in stile europeo.
Le proteste nel Paese
Il risultato è una crisi senza precedenti nella storia del Paese. Proteste di piazza e spaccature sociali non sono nuove: studenti di sinistra negli anni Settanta, la classe media di nuovo contro i militari nel 1992, i dieci anni di divisioni tra le “camicie gialle” monarchiche e le “camicie rosse” fedeli all’ex premier Thaksin Shinawatra. Ma mai nessuno aveva chiesto di riformare la monarchia. Era l’argomento tabù, il collante che teneva insieme la società thailandese, l’elemento che la propaganda governativa aveva sovrapposto all’identità nazionale: essere buoni thailandesi voleva dire adorare il sovrano. I pochi che avevano idee diverse o anche solo più sfumate le tenevano per sé, pena l’emarginazione sociale se non decenni di carcere. Oggi, c’è chi disegna graffiti “Repubblica di Thailandia” e prende in giro apertamente il sovrano. E durante le proteste, in migliaia hanno ripetutamente gridato in coro insulti sia a Prayuth sia a Vajiralongkorn.
Perché ora? Perché in breve tempo si sono create le condizioni per la tempesta perfetta. Già quando era principe, l’eccentrico stile di vita di Vajiralongkorn e la sua turbolenta vita sentimentale − è arrivato alla quarta moglie, e ha quattro figli maschi diseredati − erano oggetto di mille pettegolezzi. Se il padre era un uomo di poche parole ma con la fama di avere a cuore lo sviluppo del Paese, dimostrato con svariati viaggi nelle campagne quando era ancora in forze, Vajiralongkorn vive nel lusso in Baviera, visitando la Thailandia di rado e solo per poche ore. Specie ora con la recessione causata dalla crisi del coronavirus, il distacco dal popolo è ancora più evidente. Il fatto che il sovrano abbia accumulato poteri e si sia appropriato degli asset della corona, stimati in 70 miliardi di dollari, è un pugno nello stomaco per un Paese dove le disuguaglianze sono ormai fuori controllo, con l’86% delle ricchezze nelle mani del 10% più benestante. E poi c’è stato lo scioglimento per via giudiziaria del partito “Nuovo futuro”, votato in massa dai giovani nel marzo 2019 per le sue posizioni riformiste anti-establishment in un panorama politico di dinosauri. L’ennesima dimostrazione che chi prova a dare una scossa al sistema muore, e che la Thailandia non è un Paese per giovani.
Le giovani generazioni
Quella è stata la scintilla. Ma il terreno per lo scontro generazionale era cosparso di benzina da tempo. Internet e i social media, dando ai giovani nati a cavallo del nuovo millennio infinite possibilità di rimanere agganciati alle tendenze in altri Paesi, hanno reso l’immobilismo del sistema educativo sempre più asfittico. Studenti costretti a tagli di capelli militari, un rigido sistema di uniformi, insegnanti che non tollerano domande: la scuola thailandese è considerata il simbolo della stasi autocratica da cui la Thailandia non riesce a uscire. E nei sei anni di governo Prayuth è diventata ancor più una fabbrica di indottrinamento nazionalista. A questo va aggiunta un’economia che anche prima del Covid-19 cresceva meno che in passato, limitando gli sbocchi lavorativi.
Andare contro a tutto questo ha provocato una diffusa euforia tra gli studenti. È la sfida a un intero sistema, per molti la prima ribellione in una società dove tradizionalmente i teenager non passano dalla fase del rigetto dell’autorità. Ma ovviamente ha portato anche a enormi conflitti in casa. Alle elezioni dell’anno scorso, che hanno dato una patina democratica alla continuazione del regime dei militari nato nel 2014, era tipico il caso di famiglie dove i figli hanno votato per “Nuovo futuro”, mentre genitori e nonni hanno scelto il partito messo su da Prayuth.
Per l’élite e la classe media oltre la mezza età, lo spauracchio era e rimane l’ex premier Thaksin Shinawatra, che aveva vinto ogni elezione per oltre un decennio grazie alle sue politiche populiste a favore delle classi medio-basse, specie nelle campagne. Dare fiducia all’uomo forte Prayuth, con solide credenziali di difensore della monarchia, era la priorità; “Nuovo futuro” e il suo fondatore Thanatorn Juangroongruangkit erano vissuti come la seconda venuta di Thaksin, di cui temono perennemente il ritorno dall’auto-esilio in cui vive dal 2008. Ma per i manifestanti di oggi, Thaksin è semplicemente un altro volto vecchio. Sebbene alle proteste si veda qualche irriducibile delle “camicie rosse”, il cambio generazionale è evidente.
Il clima rivoluzionario
Il risultato è un clima rivoluzionario non da ricchi contro poveri, come nelle proteste del 2010, ma di giovani contro vecchi, e intriso di riferimenti pop dell’ultimo decennio. Dalle tre dita alzate in segno di resistenza alla tirannia prese da The Hunger Games all’uso dei social media e al coordinamento sul campo ispirato alle tecniche dei giovani autonomisti a Hong Kong, con i quali c’è una sorta di gemellaggio anti-autoritario. Ma è alta anche la coscienza storica e le sfide che la Thailandia affronta da quando terminò la monarchia assoluta, nel 1932. Le speranze accese da quel “Partito del popolo” − nome ora ripreso da parte del movimento di protesta − furono poi tradite man mano che il blocco conservatore ripristinò le prerogative del sovrano, dando vita all’infinito ciclo di colpi di stato poi avallati da Bhumibol. Il fatto che Vajiralongkorn abbia smantellato pezzo dopo pezzo i monumenti commemorativi di quel movimento è visto dai giovani come l’aspirazione a tornare a una monarchia di fatto assoluta.
L’epilogo è ancora da scrivere, e si giocherà sul lungo periodo. Nel breve, gli ostacoli da superare sono enormi. Ci sono troppi interessi di potere da difendere, per un establishment di militari e grandi famiglie che controllano l’economia, la burocrazia, e la retorica nazionale. Dimostranti pro-monarchia, che ostentano le loro magliette gialle (il colore associato al re), sono già stati mobilitati da zelanti dirigenti pubblici ansiosi di lustrare le loro credenziali di thailandesi modello agli occhi dei loro capi. La storia insegna che il blocco conservatore della Thailandia alla lunga vince: ha i soldi, le armi, la magistratura e la propaganda dalla sua parte. Decine di attivisti di spicco sono già stati arrestati, e ora si temono provocazioni da parte dei fanatici difensori della trimurti “nazione, religione e re”, come inculcato dalla propaganda.
Ma se una generazione di adolescenti e ventenni si è svegliata dall’incantesimo e vuole rifare il Paese daccapo, a lungo termine che futuro ci può essere per la monarchia thailandese e l’intero sistema di potere fatto di gerarchie e rispetto per l’autorità? La risposta la sanno anche Prayuth, i vertici delle forze armate, e forse lo stesso Vajiralongkorn. È il tramonto di un’istituzione che non ha saputo rinnovarsi, difendendo l’indifendibile. E che probabilmente continuerà a farlo, perché ha il terrore di essere spazzata via.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.