[LONDRA] Giornalista esperto di Asia meridionale e collaboratore del quotidiano Il Manifesto.
Il paradosso dell’India
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A oltre un anno e mezzo dall’inizio della pandemia globale da coronavirus, con il bilancio delle vittime altalenante e in costante aggiornamento, si può già stimare che nessun Paese ha subìto danni tanto ingenti quanto diffusi come l’India.
Come cornice analitica, più che parlare di pandemia, per provare a misurare la magnitudo del Covid-19 nel subcontinente indiano è più opportuno partire dal concetto di sindemia, ovvero “l’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, caratterizzata da pesanti ripercussioni in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata” (definizione Treccani).
Partire dalla sindemia ci aiuta a inquadrare una caratteristica peculiare di questa nuova condizione globale portata dal coronavirus: la malattia colpisce indiscriminatamente ogni angolo della Terra, ma fa più danni dove gli anticorpi della società sono più deboli.
E l’India, fino a qualche anno fa considerata prossima alla promozione definitiva a superpotenza mondiale in virtù di aritmetiche selettive e ottime dosi di wishful thinking, si è mostrata al mondo in tutta la sua drammatica immunodeficienza strutturale.
Durante la prima ondata, le notizie indiane parevano incoraggianti. Contagi e decessi infinitesimali, paragonati ai disastri europei e statunitensi; impatto sulla vita di tutti giorni ridotto all’osso, fino ai tre mesi di lockdown tra marzo e maggio 2020 – una serrata durissima e improvvisa, annunciata dal primo ministro Narendra Modi la sera per la mattina – che sembravano aver messo al riparo l’India e i suoi 1,4 miliardi di abitanti.
Modi e il suo governo neoliberista a trazione ultrahindu gongolavano discettando di eccezionalismo indiano: una popolazione, si diceva, naturalmente predisposta a reggere meglio l’urto di una crisi sanitaria senza precedenti. E, soprattutto, un’industria del farmaco pronta a contribuire massicciamente alla produzione e distribuzione internazionale di vaccini. A partire dal Serum Institute of India di Pune, da dove già pre-pandemia proveniva più del 60% della produzione vaccinale mondiale, e che ora, nel momento del bisogno, avrebbe spedito in lungo e in largo milioni di fiale di Covishield, il vaccino di AstraZeneca Made in India. Non solo all’interno dei confini indiani, ma soprattutto a tutti i Paesi in via di sviluppo, vicini e lontani, rimasti tagliati fuori dalla gara all’approvvigionamento di vaccini dettata dal mercato.
Le cose sono precipitate all’inizio del 2021, durante la cosiddetta seconda ondata, che ha investito un’India ancora indietro nella propria campagna vaccinale con una variante esponenzialmente più virale e letale scoperta proprio in un distretto del Maharashtra alla fine di febbraio.
Il virus, libero di propagarsi senza incontrare alcuna misura di distanziamento fisico, ha messo a nudo quell’inadeguatezza strutturale che tutti in India conoscevano ma di cui nessuno, nell’esecutivo, si è curato in oltre un anno.
Secondo una classifica stilata nel 2018 da The Lancet relativa ai sistemi sanitari mondiali, quello indiano si è posizionato al 145esimo posto, su 195. L’India, che investe nella sanità l’1% del Pil – tra i peggiori al mondo – per far fronte alla crisi pandemica aveva bisogno di almeno un milione di posti letto di terapia intensiva; ne aveva centomila.
Le immagini dell’ecatombe indiana le conosciamo: file interminabili fuori dagli ospedali, rimasti subito a corto di posti letto; file di morti per mancanza di bombole d’ossigeno; file di morti ammassati fuori dai campi di cremazione di tutto il Paese. Un Paese in ginocchio che, nell’ordine, ha prima richiamato un nuovo lockdown, poi ha chiesto – non pubblicamente, attraverso le cancellerie diplomatiche – aiuto alla comunità internazionale per far fronte alla carenza di ossigeno (richiesta esaudita) e infine ha sospeso a tempo indeterminato le esportazioni di vaccini, lasciando a bocca asciutta Paesi come Bangladesh, Myanmar e Brasile e, soprattutto, il programma internazionale Covax istituito dall’Onu per distribuire gratuitamente vaccini a chi non se li poteva permettere.
L’esatto numero di morti di Covid-19 in India, con ogni probabilità, rimarrà uno dei grandi misteri di questa pandemia. Al picco della seconda ondata, l’India registrava qualcosa come 400mila nuovi contagi e quasi quattromila morti al giorno. Numeri ufficiali, diffusi dal ministero della sanità.
Numeri che però, come si sono accorti subito i cronisti di alcune testate locali incrociandoli coi riti funerari celebrati sul territorio nello stesso periodo, raccontavano una parte infinitesimale della situazione reale sul campo.
Basti pensare che il 25 maggio 2021 il New York Times ha pubblicato un articolo, intitolato Just How Big Could India’s True Covid Toll be?, in cui esponeva gli esiti di una consultazione fatta con “dozzine di esperti” circa il bilancio delle vittime di Covid19 in India. Stando ai dati diffusi da New Delhi (fino al 24 maggio 2021) l’India contava 307.231 morti; la stima conservativa degli esperti del Times ne contava 600mila; quella “più probabile”, 1,6 milioni; quella “peggiore”, 4,2 milioni.
Mentre scriviamo, la curva pandemica è tornata ad abbassarsi anche in India e in linea col resto del mondo, ci si sta iniziando a preoccupare dell’altro grande tema dell’attualità: la ripresa economica.
E qui è necessario sottolineare di nuovo il concetto di sindemia: come il virus, abbattendosi sulle inadeguatezze del sistema sanitario indiano, ha smascherato le carenze strutturali del comparto, allo stesso modo il contraccolpo economico ha evidenziato la fragilità della quinta economia globale.
I dati dell’anno fiscale 2020-21 segnavano una contrazione del 7,3%, la peggiore nella storia dell’India indipendente. Un record negativo causato dal blocco totale delle attività produttive nella prima metà del 2020 e dalla totale mancanza di misure di welfare, in un Paese dove oltre il 90% della forza lavoro opera in un regime cosiddetto “informale”: senza contratto, senza previdenza sociale, senza tutele.
Il pacchetto di stimoli da 266 miliardi di dollari varato dal governo Modi nel 2020 è per il 90% finito alle banche, così da aumentare la liquidità e il credito garantito all’impresa; solo il restante 10% ha alimentato programmi di sostegno per i lavoratori giornalieri, la stragrande maggioranza sia nell’India rurale che in quella urbana.
Un indicatore esemplificativo è quello della disoccupazione, che il Centre for Monitoring Indian Economy (Cmie) dice aver raggiunto il massimo storico nell’aprile 2020, toccando quota 23,5%.
Oggi è tornato intorno all’11% ma anche questo, come tutti i numeri indiani relativi a economia e lavoro, è un dato da prendere con le pinze. Ci dice la stima di quanti lavorano in India, ma non ci dice la qualità del lavoro svolto e la conseguente retribuzione, quando va bene intorno alla soglia di sussistenza.
Il governo, all’inizio del 2021, prevedeva un rimbalzo post-pandemico, con una crescita del Pil di oltre il 10%. Stima inizialmente condivisa dalle agenzie di rating, che però ora stanno rivedendo al ribasso le proprie proiezioni, intorno all’8%.
Perché mancano i posti di lavoro, che l’India non crea da quasi un decennio – tanto da far parlare gli esperti di “jobless growth”; perché le esportazioni sono al palo, in attesa che la crisi pandemica rientri e ripartano le grandi economie occidentali che proprio in India acquistano componentistica e petrolio raffinato; e perché la crisi economica della prima ondata, secondo il Pew Research Center, ha colpito non solo chi già stava peggio (+75 milioni di persone sotto la soglia di povertà, rispetto al 2019) ma anche la classe media, il motore dei consumi, diminuita di 32 milioni di unità.
“Questa è la prima generazione con davanti a sé un futuro peggiore dei propri genitori in termini di lavoro e salario” ha scritto l’intellettuale Pratap Bhanu Metha su Indian Express all’inizio di giugno.
Senza misure energiche per l’aumento della quantità e della qualità dei posti di lavoro, l’India rischia ora una stagnazione sul lungo periodo. Il bivio tra superpotenza e “failed state”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.