[KIEV] Insegna Politica comparata alla University of Warwick. Scrive per East Journal, Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa.
Ucraina, una frattura identitaria
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Seguendo le cronache dell’invasione russa iniziata il 24 febbraio scorso si è spesso parlato dell’Ucraina come di un Paese diviso e polarizzato. Tra la minoranza russa e la maggioranza ucraina, tra russofoni e ucrainofoni. Il principale elemento di questa divisione sarebbe rappresentato da lingua e autoidentificazione etnica. È certo che all’indomani della dissoluzione dell’Unione sovietica, l’Ucraina ha ereditato una complessa composizione etnica e identitaria.
Secondo i dati dell’ultimo censimento condotto nel 2001, il 77.8% della popolazione si autodefiniva ucraina, il 17.3% russa, mentre il resto era composto da altri gruppi nazionali tutti sotto l’1% (Tatari, Bulgari, Ungheresi, Ebrei, Bielorussi, Moldavi). A rendere le cose ancora più complicate è la distribuzione geografica della popolazione. La minoranza russa era concentrata prevalentemente in Crimea (58%) e nelle regioni orientali come Donetsk (38.2%), Lugansk (39%), Kharkiv (25.6%), Zaporizhzhia (24.7%) e Odessa (20.7%) dove superava i venti punti percentuali.
Quello dell’autoidentificazione etnica, però, è solo uno degli elementi distintivi. Il secondo è rappresentato dalla lingua. Nel 2001 il 67.5% della popolazione considerava l’ucraino come “lingua nativa”, mentre circa il 30% sceglieva il russo. Il russo era prevalentemente parlato a est e rappresentava la lingua dominante in Crimea, Donetsk e Lugansk, superando il 20% in altre sei regioni orientali del Paese.
La composizione etnica e linguistica
Nasce da qui l’immagine di un Paese diviso tra est e ovest, tra filo-russi e filo-ucraini, russofoni e ucrainofoni. A confermare questa percezione sono spesso stati i dati elettorali. Uno sguardo alla distribuzione dei voti nelle elezioni presidenziali conferma una cesura tra la parte orientale del paese, più propensa a votare candidati russofoni e più vicini alla Russia, e quella occidentale dove il voto è solitamente a sostegno di politici ucrainofoni e sostenitori del vettore euro-atlantico in politica estera.
Ma fino a che punto questa visione della società ucraina come estremamente polarizzata è corretta? E fino a che punto gli aspetti identitari influenzano le attitudini politiche? A ben vedere l’idea di una divisione strutturale fondata su lingua e appartenenza etnica presenta svariati problemi. La prima questione riguarda i dati. I numeri sui quali tutt’ora basiamo le nostre analisi risalgono al 2001, un’epoca fa per un Paese che ha raggiunto l’indipendenza nel 1991. Come dimostrano numerosi studi, negli anni la composizione etnica e linguistica è cambiata, tanto che alcuni studiosi come Voldymyr Kulyk hanno iniziato a parlare di “de-russificazione dal basso”. Basandoci su sondaggi condotti dall’Istituto Sociologico Internazionale di Kiev (KIIS) tra il 2012 e 2017, vediamo una polarizzazione meno evidente e una cesura tra est e ovest che si è assottigliata negli anni. Se nel 2012 l’81.7% dei rispondenti si definiva ucraino, il 12.4% russo e il 4.1% sceglieva una categoria ibrida, definendosi allo stesso tempo russo e ucraino, nel 2017 vediamo un aumento di coloro che scelgono di definirsi ucraini (88.3%) e un conseguente calo dei russi (5.6%), mentre rimane invariata l’altra categoria (3.9%). Ancora più interessante è l’aspetto geografico. Mentre a ovest l’identità ucraina continua a essere dominante (92.2% nel 2012 e 94.8% nel 2017), nelle regioni orientali si è registrato un aumento di persone che si definiscono ucraine (dal 66.6% al 77.9%).
A subire lo stesso mutamento sono anche le pratiche linguistiche. Nel 2017 più del 68% della popolazione considerava l’ucraino lingua nativa, il 13% aveva scelto il russo e il restante 18% entrambe le lingue. Anche qui, a livello geografico vediamo un lento processo di assottigliamento delle differenze. L’ucraino è la lingua nativa per l’86% della popolazione delle regioni occidentali e per il 40% di quelle orientali. Tuttavia il russo è oggi considerato lingua nativa solo dal 25% della popolazione a est, mentre il 35% ha scelto entrambe le lingue. Un processo ancora più evidente se paragonato al 2012, quando a est oltre il 48% aveva scelto il russo e solo il 24% l’ucraino.
Un’identità messa in discussione
Oltre a mostrare un lento mutamento nell’autoidentificazione etnica e linguistica, questi dati mettono in evidenza un altro problema nel considerare l’Ucraina come un Paese strutturalmente diviso. Quest’immagine, infatti, si basa sull’idea che identità etnica e linguistica siano categorie rigide. Negli ultimi decenni, però, la visione di identità come aggregato sociale omogeneo e immutabile basato su elementi come storia, cultura e lingua è stata messa ampiamente in discussione. Nel contesto ucraino, non solo i confini tra quelli che si definiscono ucraini e quelli che si considerano russi rimangono porosi, ma anche gli elementi che definiscono l’appartenenza a una di queste categorie possono variare a seconda del luogo, del contesto e dell’effetto del ricambio generazionale. Identità e lingua rimangono categorie soggette a continuo mutamento e l’appartenenza è un fattore piuttosto soggettivo. Ad esempio, parlare russo non significa sentirsi etnicamente russo. Con il consolidamento dello Stato ucraino e lo sviluppo − lento e travagliato − della nozione civica di appartenenza, i confini tra le categorie sono diventati ancora più sfumati.
Infine, l’idea di un’Ucraina polarizzata è spesso seguita da un ulteriore assunto problematico, cioè che la minoranza russa e russofona sia automaticamente portata a sostenere il separatismo e l’integrazione con Mosca. Anche se è vero che questa parte di popolazione vede di buon occhio la vicinanza con Mosca, questo non significa che sia a sostegno del separatismo o di un’integrazione con la Russia.
In altre parole, pensare a una correlazione diretta tra appartenenza identitaria e attitudini politiche è sbagliato in quanto il legame tra questi fattori è più sfumato. Parlare russo non solo non significa automaticamente autoidentificarsi come russo, ma nemmeno essere filo-russo da un punto di vista politico. La sociologia contemporanea, infatti, ci dimostra che non solo gli aspetti identitari plasmano le attitudini, ma che l’identità è a sua volta plasmata da numerosi fattori. Nel caso ucraino identità e attitudini politiche sono influenzate dalla narrazione politica, da una complessa sovrapposizione tra identità etnica e una serie di identità regionali, nonché da fattori economici e di classe, come dimostrato dal fatto che le rivolte separatiste hanno avuto successo nel Donbass ma non in altre regioni dove la popolazione russa e russofona era altrettanto significativa.
Il dibattito pubblico
La complessità etno-linguistica è stata spesso utilizzata strumentalmente dalla classe politica. Il dibattito su storia, identità e pratiche linguistiche ha assunto un carattere polarizzante. I vari presidenti che si sono succeduti hanno cercato di coltivare la propria base elettorale e la questione identitaria è diventata uno dei terreni di scontro.
Così, la legittima riscoperta dell’identità culturale e storica ha assunto tratti spesso divisivi. La questione linguistica è diventata centrale nel dibattito pubblico solo negli ultimi anni a causa della sua politicizzazione. Fino a un decennio fa il rapporto tra ucraino e russo si reggeva sull’equilibrio stabilito in epoca sovietica. L’ucraino era la lingua nazionale ma il russo godeva di particolare prestigio e poteva essere utilizzato con la pubblica amministrazione e nel sistema educativo. Nel 2010, l’allora Presidente Viktor Yanukovich varò una nuova Legge sulla lingua, innalzando il russo a lingua regionale (al pari dell’ucraino) in quelle regioni dove era parlato da almeno il 10% della popolazione. La legge fu ampiamente criticata dall’opposizione e dalle frange nazionaliste come tentativo di russificare il paese. Non sorprende che proprio nelle elezioni parlamentari del 2012 alcuni partiti del nazionalismo etnico riscossero un successo senza precedenti.
L’elezione di Petro Poroshenko all’indomani della Rivoluzione di Maidan nel 2014, in un contesto in cui Kiev vedeva parte del proprio territorio (Crimea) annesso dalla Russia e l’inizio di un sanguinoso conflitto in Donbass, non ha fatto che rafforzare la componente nazionalista all’interno delle strutture di potere promuovendo politiche di ucrainizzazione dall’alto. Rientrano in questo quadro tutta una serie di iniziative volte alla de-comunizzazione e rafforzamento dell’identità nazionale ucraina, riscrivendo alcune delle pagine più contese della storia sovietica del paese. La lingua russa, così, divenne di nuovo centrale nel dibattito politico e uno degli strumenti utilizzati da Poroshenko per legittimare la propria posizione e tenere a bada le frange più estremiste. Una serie di riforme, infatti, hanno lentamente marginalizzato l’uso del russo nella vita pubblica e culturale del paese, provocando critiche anche da parte della comunità internazionale.
La disgiunzione tra pratiche linguistiche e autoidentificazione dal basso, e politiche adottate dalla classe dirigente dall’alto qui è evidente. La società ucraina è meno polarizzata di quello che siamo soliti pensare. Non solo negli anni le persone che si sentono ucraine sono aumentate, ma è anche cresciuta la disgiunzione tra pratiche linguistiche, appartenenza civica e attitudini politiche, dimostrando ulteriormente la porosità di queste categorie. Sono invece le pratiche politiche ad aver spesso accentuato la percezione di una contrapposizione tra russofoni e ucrainofoni, imponendo, sotto pressione delle frange nazionaliste, politiche spesso contestate dalla pluralità della popolazione.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
A conti fatti
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Sono passati più di quattro anni da quando, il 18 marzo del 2014, con un colpo di mano e in violazione del diritto internazionale, la penisola di Crimea è stata sostanzialmente integrata nella Federazione Russa. La successiva esplosione della guerra nel Donbass e l’intervento russo nel conflitto siriano hanno di fatto spostato l’attenzione della diplomazia e dell’opinione pubblica internazionale. La Crimea, così, appare oggi come parte integrante della Russia e sembra difficile prevedere che il suo status possa essere in qualche modo ridiscusso nel prossimo futuro.
L’annessione della penisola ha provocato una dura reazione dell’Ucraina e della maggior parte della comunità internazionale che si sono rifiutate di riconoscere la legalità del referendum e la conseguente annessione alla Russia e hanno imposto un regime di sanzioni internazionali. Da allora la Crimea rimane nel limbo, de jure parte dell’Ucraina, de facto sempre più integrata nella Federazione Russa.
La penisola, infatti, è ormai pienamente sotto la giurisdizione russa. Il rublo è la moneta ufficiale e il sistema economico-fiscale è stato assimilato a quello vigente sul resto del territorio della Federazione. Le forze dell’ordine locali e tutte le strutture inerenti alla sicurezza, compresi i servizi segreti (FSB), sono state riformate o ricostruite. Ma non solo. Secondo la legislazione approvata dal Parlamento russo, infatti, tutti i cittadini residenti nella penisola il marzo del 2014 sono diventati cittadini russi. La concessione della cittadinanza è cominciata immediatamente dopo l’annessione e ha portato, secondo quanto sostiene il Ministero degli Interni, all’emissione di circa due milioni di passaporti.
La rapida russificazione politica, che si è sostanziata con la trasformazione del sistema elettorale e la creazione delle sezioni regionali dei partiti politici russi, è stata gestita e coordinata da un direttivo creato ad hoc tra le mura del Cremlino e presieduto da un collaboratore fidato di Vladimir Putin, Dmitrij Kozak. Se le personalità di alto rango che hanno ricoperto ruoli significativi nelle confuse fasi dell’annessione, come Sergej Aksёnov e Vladimir Konstantinov, hanno mantenuto le loro posizioni in cambio della fedeltà al Cremlino, ufficiali di medio livello hanno subito una massiccia riconfigurazione.
Mentre la formazione dei nuovi apparati politici e governativi è stata piuttosto rapida, la questione legata alla comunità tatara di Crimea rappresenta ancora un serio grattacapo per Mosca. Pur essendo una minoranza (circa il 12%), i tatari rimangono una comunità fortemente radicata, politicizzata e ben organizzata. Le complicate relazioni con Mosca hanno origini storiche che affondano le radici nella Russia zarista, nelle purghe degli anni ’30 e nella deportazione staliniana dopo la seconda guerra mondiale. Secondo numerosi storici, più di duecentotrenta mila persone sono state forzatamente deportate verso l’Asia Centrale. I tatari poterono far ritorno in Crimea (passata sotto l’amministrazione dell’Ucraina nel 1954) solo con l’avvio della perestrojka, divenendo cittadini dell’Ucraina indipendente nel 1991.
Nonostante l’iniziale tentativo di Mosca di cooptare il Mejlis (organo rappresentativo dei tatari), i tatari si sono opposti all’annessione illegale della Crimea. Il pugno duro non si è fatto attendere e restano numerosi i casi di violazione dei diritti umani nei confronti della popolazione tatara e non solo. A farne le spese non sono state solo le istituzioni e organizzazioni della comunità (il Mejlis e’ stato dichiarato organizzazione estremista e bandito nel 2016) o personalità di spicco come Refat Chubarov e Mustafa Cemilev, ma, come riportano i numerosi report di Amnesty International e altre organizzazioni, anche attivisti comuni la cui libertà di associazione è spesso violata. Lo stesso vale per molti mezzi d’informazione e giornalisti, tatari e non, che hanno subito pressioni, sono stati arrestati e messi a tacere durante i 4 anni di occupazione.
Dal punto di vista economico, la realtà oggi sembra in buona misura contraddire le speranze di chi vedeva nell’annessione russa un’opportunità. All’aumento dei salari e delle pensioni, che sono stati portati ai livelli del resto della Russia, fa da contraltare l’inflazione e l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, e la rottura dei rapporti economici con l’Ucraina e le sanzioni internazionali (spesso aggirate come dimostra il caso delle turbine Siemens) hanno avuto un impatto negativo sulla situazione economica della penisola. Come riporta un recente studio di Institute of Contemporary Development (INSOR), nonostante gli oltre trecento miliardi di rubli (circa quattro miliardi di euro) investiti da Mosca per il suo sviluppo, ancora oggi oltre il 70% del budget della Crimea è coperto da sussidi del governo centrale. Un dato che, oltre a sottolineare la dipendenza della penisola da Mosca, rappresenta un intervento finanziario eccezionale se messo nel contesto di una riduzione dei sussidi per molte altre regioni a causa dei tagli dovuti alle sanzioni e al calo dei prezzi del greggio.
In prospettiva generale, la Crimea appare oggi più isolata, e orientata prevalentemente verso la Russia. La creazione di una frontiera artificiale con l’Ucraina e la politica di non riconoscimento da parte dell’Ue hanno di certo contribuito ad alienare la popolazione. Secondo un recente sondaggio (ZOiS Report) solo il 12% e il 3% dei rispondenti hanno avuto modo di viaggiare rispettivamente verso l’Ucraina o altri paesi (esclusa la Russia). Non sorprende il significativo flusso migratorio dalla penisola che si è verificato dopo l’occupazione, diretto prevalentemente verso altre regioni della Russia, con una parte marginale della popolazione che ha lasciato la Crimea per trasferirsi in Ucraina. Il quadro è rafforzato dalla diminuzione dei contatti con i familiari che vivono in Ucraina.
La popolazione della Crimea non appare però solo più isolata dall’Ucraina e dall’Europa, ma in linea generale anche indifferente o in certa misura in favore della recente annessione. Sempre secondo lo studio, la maggioranza sembra vedere nella politica di Kiev a partire dall’indipendenza la principale causa dell’annessione, rimarcando la negligenza e il malgoverno da parte dell’Ucraina. Se il referendum dovesse essere ripetuto oggi, circa l’80% dei rispondenti non cambierebbe la propria scelta.
Considerando la situazione politica della penisola e l’integrazione di quest’ultima nel panorama mediatico russo, i sondaggi andrebbero presi con cautela, ma appare evidente che l’opinione della maggioranza della popolazione riguardante l’annessione alla Russia è difficilmente destinata a cambiare.
La Crimea è diventata il simbolo del mutamento e della continuità. Simbolo del nuovo corso in politica internazionale e del rinato patriottismo russo. Del ritorno sulla scena internazionale come grande potenza e della breve luna di miele tra nazionalisti e imperialisti all’ombra del Cremlino. Della continuità simbolica con il passato imperiale. Quello che da molti sociologi e politologi è stato definito ‘effetto Crimea’ ha avuto un impatto significativo sull’immagine di Putin all’interno del paese. Non a caso le elezioni presidenziali sono andate in onda proprio il 18 marzo, giorno in cui, quattro anni fa, la Crimea diventava parte (non riconosciuta) della Russia. Se la recente inaugurazione del ponte sullo stretto di Kerč’ che connette la penisola al resto della Russia ha simbolicamente cementificato l’annessione, le elezioni hanno giocato il ruolo di un secondo referendum che l’ha resa di fatto irrevocabile. Secondo i dati ufficiali il 71,5% della popolazione della penisola si è recato alle urne con oltre il 91% di preferenze per Putin. Vero che i tatari hanno boicottato il voto, così come sono vere le numerose testimonianze di brogli, pressioni e intimidazioni nei confronti dei votanti. I numeri reali potrebbero essere ben più bassi ma il messaggio simbolico, oggi, vale più dei numeri.
Malgrado la palese violazione del diritto internazionale, le proteste di Kiev e delle potenze occidentali, de facto la Crimea appare indissolubilmente ancorata alla Russia.