Giornalista, capo della redazione politica di La Repubblica. Autore di programmi televisivi tra cui Exit e Matrix. Tra i suoi libri, il romanzo Finchè vivrò (2014).
La crisi della sinistra di governo
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In poco più di quindici anni di vita il Pd ha perso sette milioni di voti dal suo esordio alle elezioni politiche del 2008, ha fallito la vittoria in quattro tornate nazionali consecutive, ha bruciato cinque segretari e tre reggenti. Ciò nonostante, ha governato per una buona parte della sua esistenza pur senza mai disporre di una maggioranza autonoma: se si eccettuano i pochi mesi del Prodi bis, quando al Senato la maggioranza era legata al voto dei senatori eletti all’estero e di quelli a vita, il Pd è stato coinvolto in governi di larghe intese (Monti, Letta e poi Renzi) o di salvezza nazionale (Draghi) oppure legati a formule improvvisate (Conte bis). Il bilancio delle riforme varate degli esecutivi guidati o partecipati dal Pd è proprio una delle questioni più delicate e spinose del dibattito interno: la riforma delle pensioni dell’era Monti, il Jobs Act e la Buona scuola all’epoca di Renzi, gli interventi sulla giustizia penale sotto Draghi.
Per alcuni sono medaglie, la prova che il Pd ha saputo farsi carico della responsabilità di scelte necessarie quanto impopolari. Per altri sono la testimonianza di un cedimento a pratiche e ideologie della destra, dunque la causa principale dell’emorragia di consensi che ha condannato i dem alle sconfitte più pesanti, quella del 2018 e quella alle ultime politiche dello scorso settembre. Detto ancora più brutalmente, il nodo è il seguente: il Pd ha perso perché ha troppo governato e senza meritarlo nelle urne, dunque per il suo cosiddetto governismo, o ha perso per aver svolto fin troppo responsabilmente un ruolo di equilibratore e solutore di problemi di governabilità del Paese? È chiaro che in mezzo a questa dicotomia così netta c’è un’infinita serie di sfumature e di distinguo sull’una e l’altra tesi, ma lo scontro poggia su questa annosa diatriba, che sembra essersi conclusa con la vittoria della seconda scuola di pensiero dopo la vittoria di Elly Schlein alle primarie del 26 febbraio.
Schlein, che lasciò il Pd quando Renzi era a Palazzo Chigi e che ci è rientrata appena in tempo per diventare segretaria, ha infatti vinto su una linea di radicale contestazione di gran parte di quelle riforme appena elencate, oltre che di altre scelte strategiche del Pd precedente, come per esempio quelle sull’immigrazione prese dal ministro dell’Interno Marco Minniti quando presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni. Come dopo tutte le primarie, anche stavolta, i giorni successivi al voto nei gazebo hanno visto prevalere un’aria di conciliazione interna, certamente destinata a evaporare come sempre accaduto in passato, anche perché è complicato immaginare che possa trovarsi una sintesi reale, e non solo di facciata, tra chi pensa che fin qui il Pd abbia sbagliato tutto e chi rivendica almeno una parte delle scelte fatte finora.
Che cos’è dunque oggi il Pd, che uno dei fondatori – Massimo D’Alema – definì “amalgama malriuscito” già pochi anni dopo la fondazione? La definizione di D’Alema potrebbe avere ancora una sua attualità, sebbene per ragioni molto diverse da quelle che allora ispirarono quella definizione. D’Alema si riferiva ovviamente alla fusione tra la tradizione del cattolicesimo democratico, figlia della Democrazia cristiana, e a quella dei postcomunisti provenienti dal Pci. Oggi quel confine non ha alcun senso, come dimostra una volta per tutte la mappa degli schieramenti alle ultime primarie, con un ex popolare e moderato come Dario Franceschini a sostegno di Schlein, alla cui ascesa ha guardato con favore anche il predecessore Enrico Letta, e molti altri moderati, dall’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini al sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che invece appoggiavano la candidatura di Stefano Bonaccini, cresciuto fin da ragazzino nella filiera Pci-Pds-Ds. La faglia che divide oggi i dem è un’altra e ha a che fare con la ricerca di una identità che il partito ha da sempre faticato a trovare, anche a causa della sua nascita proprio in coincidenza con la più grave crisi economica del nuovo secolo. Crisi che ha in pochi anni cambiato tutte le coordinate politiche e, non a caso, messo in difficoltà soprattutto i partiti della sinistra di governo, a vario titolo puniti, quando non estinti del tutto, in quanto considerati corresponsabili della situazione e difensori dello status quo e degli interessi che avevano originato lo smottamento sociale ed economico. È accaduto in Grecia, il Paese europeo più duramente colpito dalla crisi, dove i socialisti del Pasok sono letteralmente spariti, ma anche in nazioni più centrali: si pensi al lungo elenco di sconfitte dei laburisti seguito al ciclo di governo blairiano o alla consunzione dei socialisti francesi dopo la fine dell’ultima presidenza con Francois Hollande.
Il Pd, nato in controtempo, cioè pensando di poter ancora godere i frutti di una globalizzazione che nel frattempo stava invece presentando il conto delle sue contraddizioni, ha pensato di cavalcare quelle brillanti stagioni di governo quando ormai erano al tramonto nel resto d’Europa. E ha sbagliato. È successo con Walter Veltroni, primo segretario, e soprattutto con Matteo Renzi, che non ha mai nascosto la volontà di rifarsi al blairismo (come, oggi che non è più nel Pd da tempo, al macronismo). Ma non è detto che siano dalla parte del giusto i detrattori di quelle stagioni.
Proprio qui sta una delle questioni più controverse: perché, se è vero che il Pd ha cercato di cavalcare fuori tempo massimo la cosiddetta Terza via, è vero anche che chi teorizza vie alternative e opposte dovrebbe spiegare in modo non superficiale come mai siano falliti anche tutti i successivi tentativi di spostare più a sinistra la linea dei partiti socialisti e socialdemocratici.
Il Labour di Jeremy Corbyn ha galvanizzato l’elettorato storico e attirato molti giovani, ma ha fallito e non di poco l’obiettivo della vittoria elettorale. Per non parlare dei goffi tentativi massimalisti del Psf, che hanno sortito l’unico effetto di lasciare campo aperto alla sinistra radicale di Jean Luc Mélenchon, comunque a sua volta sconfitto alle presidenziali senza neanche arrivare al ballottaggio (in questo senso l’unica eccezione virtuosa è la Spagna, dove il Psoe ha saputo reggere alla sfida di Podemos e riguadagnare il governo della nazione). Insomma, il dubbio che i fautori del nuovo corso dem dovrebbero riuscire a diradare, prima possibile, è che anche stavolta l’Italia stia vivendo con qualche anno di ritardo quello che è già accaduto altrove in Europa, e cioè un rinculo a sinistra e la riscoperta di una vocazione identitaria (“Torniamo a fare la sinistra e vinceremo!”) che però non ha portato all’obiettivo di convincere la maggioranza di elettori necessaria per governare. Perché nella faida tra i “centristi” e chi grida “sinistra-sinistra” il rischio concreto è abbiano torto entrambi e che l’unica chance sia quella di tenere insieme entrambe le esigenze, cioè la rappresentanza dei ceti popolari con scelte anche coraggiose e radicali così come la necessità di mantenere un mercato elettorale ampio, parlando anche a un elettorato non ideologico e non identitario, cresciuto molto negli ultimi anni, che sceglie di volta in volta a chi affidarsi.
In questo senso le europee del prossimo anno, primo vero banco di prova della segreteria di Schlein potrebbero avere un effetto abbaglio. Si vota con il proporzionale puro e sono alte le probabilità che il nuovo Pd faccia meglio di quello di Letta e Zingaretti, recuperando parte dell’astensione e una quota dei voti finiti in pancia al Movimento 5 Stelle. Un Pd al 25%, che torna a fare il pieno o quasi del suo consenso di base, è però una condizione necessaria ma non sufficiente a garantirsi chance concrete di battere la destra meloniana alle prossime politiche.
Una missione resa ancora più complicata in Italia da una sciagurata legge elettorale concepita per ammucchiare coalizioni prima del voto e che obbliga i dem, fermi da anni intorno al 20%, a trovare alleati sia alla propria destra che alla propria sinistra, con effetti ancora più nefasti sulla chiarezza della linea, quale che sia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest