Il progetto Willow è il più grande campo estrattivo petrolifero di sempre su territorio federale, in un’area protetta in Alaska, il cui processo di autorizzazione era stato avviato da Trump e ora confermato da Biden. Può costare al Presidente in carica la rielezione
Joe Biden ha un problema per il 2024: deve vincere le elezioni. Detta così non sembra una grande novità. Ma in realtà lo è. Lo è perché il contesto e il quadro elettorale in cui si giocherà la prossima corsa alla Presidenza è molto diverso da quello del 2020.L’anno prossimo, a fare da traino alla candidatura di Biden, non ci sarà l’evidenza cocente e concreta dei pessimi risultati dell’amministrazione Trump; non ci sarà nemmeno più l’urgenza di liberarsi di un Presidente inaffidabile, inconsistente e pericoloso; non ci sarà nemmeno la pagina bianca di una Presidenza nuova, ma solo quella, per forza di cose già scritta, di un presidente già in carica e in cerca di conferma.
Il progetto Willow mette in gioco la rielezione del Presidente
Ma oltre a questo, nel 2024, il vero problema, per Biden e i suoi, potrebbe essere un altro: a sostenerlo potrebbe non esserci più la gigantesca coalizione che lo ha portato a vincere le elezioni del 2020: un’enorme pletora di elettori, movimenti, opinion maker e associazioni che andava dal centro repubblicano alla sinistra progressista e che aveva reso possibile la sua elezione. La ragione per cui questa enorme coalizione potrebbe non esserci più ha a che fare non solo e non tanto con il modo (per altro equilibrato e efficace) in cui Joe Biden ha governato in questi difficili anni, ma con una sola delle sue scelte. Una sola. Che potrebbe rivelarsi decisiva ed esiziale per la sua elezione: l’approvazione del progetto Willow.
Il progetto Willow, per chi si fosse perso qualche pezzo, è un campo estrattivo petrolifero su terreno federale, il cui processo di autorizzazione era stato avviato dall’amministrazione Trump e poi completato, tra mille polemiche, sotto quella Biden. Già così, la cosa sarebbe un problema, dal momento che, per tutta la campagna elettorale Joe Biden aveva assicurato che mai, in nessun caso, avrebbe autorizzato nuove estrazioni su terreni federali: “No more drilling on federal lands, period” aveva detto il candidato Biden a un evento pubblico, incorrendo nello stesso goffo errore di George H. Bush e del suo ‘Read my lips, no more taxes’.
Durante la campagna del 2020, la questione dei permessi di esplorazione petrolifera era tutt’altro che di secondo piano: i repubblicani accusavano Biden di essere una specie di eco-terrorista, ostaggio della sinistra ambientalista più radicale e di voler essere un ‘presidente green‘ deciso a punire le aziende petrolifere e, di conseguenza, a impoverire l’industria e la classe media americana. Invece, la sinistra progressista che, più per ordine di scuderia dato da Bernie Sanders che per paura di Trump, stava sostenendo Biden, era comunque molto guardinga nei confronti del candidato Dem: temeva che non sarebbe stato sufficientemente duro nei confronti dei petrolieri e del petrolio. Per questo, come è sua caratteristica, Biden mediò tra le posizioni e disse che no, non avrebbe impedito l’avvio di nuove trivelle su terreni privati, anche perchè non sarebbe stato nei suoi poteri, ma avrebbe impedito, nel modo più assoluto, l’avvio di nuovi campi petroliferi su terreni federali.
E invece, tre anni dopo quella promessa, ribadita e ripetuta, Joe Biden non solo ha approvato un nuovo campo di estrazione in un terreno federale (cosa che già così farebbe fischiare il fallo ai suoi sostenitori più sinistrorsi) ma con Willow, ha approvato il più grande campo estrattivo di sempre su territorio federale, per di più in un’area protetta. Ce n’è di che far crollare il suo gradimento a sinistra e far svanire la sua, pur consistente, legacy ambientale.
L’incoerenza del primo “Presidente del clima” degli Stati Uniti
Per dare un’idea di quanto fragorosa sia stata l’eco della decisione del Presidente negli ambienti progressisti, basti sapere che pochi giorni dopo l’approvazione del progetto Willow, il sito-bibbia della sinistra americana, Mother Jones, ha ripreso un articolo del Guardian dal titolo “L’approvazione di Biden del progetto Willow mostra l’incoerenza del primo “Presidente del clima” degli Stati Uniti”. Negli stessi giorni, il New York Times titolava “Molti giovani elettori amareggiati per il sostegno di Biden alla trivellazione petrolifera di Willow”. Nell’articolo del New York Times, si citava un sondaggio di marzo di Data for Progress, dal quale risultava un calo del 13% degli indici di approvazione di Biden tra gli elettori di età compresa tra 18 e 29 anni all’indomani della decisione di Willow.
Dal punto di vista del consenso elettorale, dunque, l’approvazione di Willow è (e soprattutto potrebbe essere) una catastrofe, soprattutto considerando gli strettissimi margini con cui, in genere, si vincono le elezioni negli Stati Uniti. Ma il problema, quando si parla di Willow, è che le sue conseguenze sono solo in ultima istanza elettorali.
Prima di essere un tema di dibattito e di consenso, il progetto Willow è una buona metafora di numerosi di aspetti della politica e dell’economia americana e delle sue contraddizioni. Primo di questi aspetti è la discrasia tra percezione e realtà. È senza dubbio vero quello che dice il Guardian, ossia che la scelta su Willow ha polverizzato la fama di Biden di essere un Presidente ambientalista; eppure è altrettanto vero che questa percezione non è del tutto fondata. Biden ha dato sì il via libera a Willow, ma questo non muta e non ridimensiona il fatto che la presidenza Biden sia stata la più impegnata di sempre per l’ambiente e per il clima, molto più, solo per fare un esempio, di quella di Barack Obama.
Il primo atto in assoluto da presidente di Joe Biden, tanto per fare un altro esempio, è stato quello di rientrare nell’accordo sul clima di Parigi, quello dal quale Donald Trump era uscito senza colpo ferire. Oltre a questo, Biden ha nominato un inviato speciale per il clima, ha posto l’obiettivo del dimezzamento delle emissioni, ha messo più di 370 miliardi di dollari sul piatto dello sviluppo delle rinnovabili, ha imposto dure multe a chi non si adopera per ridurre l’inquinamento, ha finanziato con più di un miliardo di dollari le infrastrutture di sicurezza dei paesi insulari, quelli più esposti ai danni del cambiamento climatico.
Certo, questo impegno sarebbe più visibile e raccontabile se di mezzo non ci fosse il tema Willow, che ha mescolato le carte e, con la sua enormità, ha nascosto tutto il resto e soprattutto il secondo grande tema di cui Willow è epitome e metafora: le nostre oggettive difficoltà nel dire addio al petrolio.
Sostituire le fonti fossili con quelle rinnovabili è urgente per la nostra sopravvivenza
Il grande nodo gordiano di questi anni è il fatto che sappiamo di doverci liberare prima possibile del petrolio, ma non siamo pronti a farlo, né dal punto di vista infrastrutturale, né da quello economico. Sappiamo che continuare a fare uso di fonti fossili non è solo dannoso, ma mette a repentaglio la nostra stessa sopravvivenza, sia come specie che come individui. Per questo, con altrettanta evidenza, sappiamo che è urgente smettere di usare petrolio, carbone e (seppur in maniera diversa) gas, anche perché la tecnologia che ci può consentire di farlo è disponibile. Allo stesso tempo, però, pur essendo già in ritardo sulla strada che ci porterà ad abbandonare le fonti fossili e a sostituirle con quelle rinnovabili, non siamo pronti a farlo.
Non siamo pronti né a smettere di usare il petrolio (per esempio per produrre la plastica) né a sostituirlo del tutto con altre forme di energia. Per ora, l’unica cosa che stiamo riuscendo a fare è affiancare le fonti rinnovabili a quelle fossili, ma non a usarle in modo alternativo. Per questo, per quanto esiziale sia, la ricerca di petrolio non viene fermata. E con essa non vengono neppure fermati i copiosi investimenti (Willow, per esempio, da solo, vale circa 8 miliardi) da cui dipende buona parte dell’economia americana (più di 12 milioni di posti di lavoro e svariati miliardi di entrate fiscali).
Per questo è improbabile che, nonostante i proclami e i buoni propositi, la politica americana riesca a chiudere davvero con il petrolio, almeno sino a quando le fonti rinnovabili non saranno in grado di sostituirlo in modo completo e identico. Ma questo non sarà possibile fino a quando non si fermeranno gli investimenti, dal momento che sino a quando ci saranno aziende, come la ConocoPhillips, concessionaria di Willow, disposte a investire 8 miliardi in un progetto di estrazione, è logico credere che vorranno trarre il massimo profitto dalla loro attività, e affinché questo sia possibile è necessario che il petrolio venga usato, non abbandonato o pensionato prima del tempo.
Il terzo, complicato, aspetto della politica americana, che appare ben spiegato dal caso Willow, è quello della discrasia tra politica locale e politica nazionale. Una discrasia presente ovunque, a qualunque latitudine, ma che è particolarmente marcata in un Paese come gli Stati Uniti nel quale i sistemi elettorali che regolano sia il Senato che la Presidenza hanno matrice locale. Per questo, nella politica americana, la politica locale dà le carte a quella nazionale, e non viceversa. E per questo, la politica dello stato dell’Alaska ha avuto un ruolo così determinante nel consentire l’approvazione di Willow.
Alaska: foreste, tundre e petrolio
L’Alaska (a proposito di contraddizioni) è uno stato fortemente ambientalista. Di fatto chi vive in Alaska (meno di 700mila persone), vive in un rapporto quasi simbionte con una natura rigogliosa e imponente. Allo stesso tempo, però, gli alaskani sono consapevoli del fatto che, sotto quelle foreste e quella tundra meravigliose, c’è l’unica ricchezza e l’unica possibile fonte di lavoro che lo stato offre. Per questo, la popolazione e la politica locale non lesinano quando si tratta di trivellare e scavare pozzi: perché in Alaska non c’è altro da fare. E soprattutto, non c’è altro che convenga fare, dal momento che i profitti delle aziende petrolifere consentono all’Alaska di essere uno stato di fatto privo di imposte.
Così, a spingere Biden verso un soffertissimo sì a Willow, non sono state solo esigenze di realpolitik e non è stato neppure l’ampio credito che contava di aver ottenuto con la sinistra progressista in tre anni di politiche ambientali: sono state le pressioni bipartisan dei deputati e dei senatori dell’Alaska che hanno spinto e lavorato per il sì al progetto. Certo, per quanto sia un tema del quale in Alaska (stato per altro di solida fede repubblicana) sembrano non preoccuparsi, il problema ambientale rimane ed è enorme. Così come quello elettorale.
“Dicono che a tenere unite le anime della sinistra americana sia stato Joe Biden, ma non è vero: è stato Donald Trump – ci ha detto l’analista politica Katie Parsons, dell’istituto di ricerca 270 Strategies –. Non sappiamo se il miracolo si ripeterà, dal momento che questa è un’elezione per il secondo mandato: l’elettorato è meno mobilitato e, nonostante Biden abbia realizzato le politiche più di sinistra degli ultimi anni e nonostante abbia incassato da subito il sostegno del leader progressista Bernie Sanders, il suo consenso a sinistra si è un po’ sfilacciato. Molti del fronte ambientalista e progressista nel 2020, che non avevano votato per Hillary Clinton nel 2016, lo hanno sostenuto per puro anti-trumpismo. Ora potrebbero non farlo più e questo per due ragioni: la prima è che le politiche economiche e sociali di Biden, pur essendo fortemente progressiste e sociali, non sono state comunicate con efficacia. La seconda è il caso Willow”. Joe Biden ha un anno per farlo dimenticare.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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Joe Biden ha un problema per il 2024: deve vincere le elezioni. Detta così non sembra una grande novità. Ma in realtà lo è. Lo è perché il contesto e il quadro elettorale in cui si giocherà la prossima corsa alla Presidenza è molto diverso da quello del 2020.L’anno prossimo, a fare da traino alla candidatura di Biden, non ci sarà l’evidenza cocente e concreta dei pessimi risultati dell’amministrazione Trump; non ci sarà nemmeno più l’urgenza di liberarsi di un Presidente inaffidabile, inconsistente e pericoloso; non ci sarà nemmeno la pagina bianca di una Presidenza nuova, ma solo quella, per forza di cose già scritta, di un presidente già in carica e in cerca di conferma.