Big Tech e cyber-sovranismo: da Internet a Splinternet
Internet, strumento della globalizzazione, rischia oggi di essere frammentato in tante reti nazionali e regionali sottoposte alle leggi del proprio Stato
Internet, strumento della globalizzazione, rischia oggi di essere frammentato in tante reti nazionali e regionali sottoposte alle leggi del proprio Stato
L’India l’ha bloccata lo scorso giugno, ufficialmente per proteggere “la sovranità e l’integrità” nazionali. Anche gli Stati Uniti la considerano una minaccia alla sicurezza e volevano vietarla, ma qui la situazione è più complessa ed evolve continuamente: mentre scriviamo, non è chiaro chi ne gestirà le operazioni in America e che cosa prevedrà l’accordo tra le parti.
Stiamo parlando di TikTok, l’app di proprietà dell’azienda cinese ByteDance attorno alla quale si è sviluppato un enorme caso geopolitico che ci riguarda tutti, anche se non l’abbiamo mai scaricata. Lo scontro su TikTok non verte sui contenuti del social network – brevi video musicali, principalmente – ma sui dati che raccoglie, sulla loro destinazione e sull’uso che se ne fa. Secondo i governi di Washington e Nuova Delhi, questi dati verrebbero inviati all’estero e finirebbero nelle mani del Partito comunista cinese, permettendogli così di “schedare” i cittadini indiani e americani. Nel caso dell’India, dietro alla messa al bando dell’app c’entrano le tensioni con la Cina lungo il confine. La crisi con Pechino è centrale anche per comprendere la scelta degli Stati Uniti, ma con l’aggiunta di un aspetto “simbolico”: TikTok è la prima app nata in Cina a essere diventata un fenomeno di massa, con circa 700 milioni di utenti mensili nel mondo. Finora, (quasi) tutti i servizi Internet ad aver ottenuto un successo simile erano americani.
Splinternet: cosa significa
È proprio Internet – il suo futuro, la “forma” che potrebbe avere – ad essere in ballo con il caso TikTok. Come hanno sintetizzato perfettamente Ana Swanson, David McCabe e Jack Nicas sul New York Times, la vicenda è “l’ultimo segno tangibile che l’Internet globale, che un tempo prometteva di abbattere i confini politici e di connettere i cittadini del pianeta, si sta fratturando dietro la spinta del nazionalismo e dei timori per la sicurezza”.
Ci eravamo abituati a pensare a Internet come a una rete aperta e libera, quasi fosse una cosa scontata, e invece potremmo dover rivedere la nostra idea. Da anni gli esperti ci parlano del rischio di uno splinternet, cioè di una sua frammentazione in tante reti locali dove la navigazione è sottoposta alle leggi nazionali e non tutti, quindi, potranno fruire degli stessi servizi. In Cina o in Russia è già così, per esempio: parecchi siti sono inaccessibili. Ma si tratta di Paesi non democratici, dove la censura è molto forte. La decisione di Nuova Delhi di vietare TikTok e altre centinaia di app cinesi, invece, è arrivata da quella che viene spesso definita “la più grande democrazia del mondo” e che però ha riproposto l’approccio di un regime a partito unico: come in Cina la popolazione non può navigare su Facebook o YouTube per motivi di “sicurezza”, così gli indiani non possono usare TikTok o WeChat. Gli Stati Uniti – non solo la democrazia più potente e influente, ma il Paese che finora ha avuto il predominio sulla rete – sembrano voler seguire la stessa strada.
5G e cyber-sovranismo
Washington e Nuova Delhi hanno copiato l’esempio e la retorica di Pechino, e sono mossi dalla medesima priorità: bloccare le app “ostili”; impedire che i dati dei propri cittadini, raccolti da aziende straniere, vengano trasferiti fuori dai confini nazionali. Stiamo forse assistendo all’affermazione di un fenomeno noto come “cyber-sovranismo” e che consiste nella trasposizione nel mondo digitale del concetto di sovranità territoriale. Un termine molto caro al Presidente cinese Xi Jinping, secondo il quale significa “rispettare il diritto di ogni Paese di scegliere […] il proprio modello di gestione di Internet e le proprie politiche pubbliche su Internet”. Ciascuno per sé, insomma. L’Internet aperto rischia davvero di essere sostituito dall’Internet diviso, fatto di tante reti chiuse (con evidenti implicazioni per le libertà online) oppure organizzato secondo un bipolarismo Usa-Cina: da una parte i Paesi che si rifanno ai canoni americani e dall’altra quelli che seguono il modello cinese.
I confini di questa contrapposizione si stanno già delineando. Per la Cina, la Nuova via della seta è anche una piattaforma utile all’espansione della propria influenza digitale: il Pakistan, ad esempio, si ispira al sistema cinese per la censura di Internet (il “Great Firewall”); l’Iran potrebbe affidarsi a Pechino – con cui ha raggiunto una partnership strategica – per ampliare il controllo sul cyber-spazio. Lo scorso agosto gli Stati Uniti hanno risposto con il Clean Network, il programma sulla sicurezza dei dati che mira a compattare gli alleati affinché escludano le aziende cinesi dalle infrastrutture per il 5G, dai cavi sottomarini, dai servizi di cloud e dagli app store: qualche successo lo stanno ottenendo. Circa un mese dopo, Pechino ha lanciato a sua volta un’iniziativa globale per fissare degli standard sulla data security.
La strategia digitale della Commissione europea
Se la proposta cinese potrebbe raccogliere adesioni soprattutto in Africa, è invece improbabile che ottenga seguaci in Europa. Con il Gdprl’Unione europea ha mostrato che, quando si tratta di nuove tecnologie, vuole essere lei a dettare le regole alla comunità internazionale. Ma essere una potenza normativa non è abbastanza, considerato quanto i big data stanno cambiando l’economia e l’ordine mondiale. Bruxelles lo ha capito, e ha elaborato dei documenti programmatici per colmare il divario innovativo con Washington e Pechino ed essere “pronta per l’età digitale”. Non solo: vuole essere “sovrana”.
“Sovranità tecnologica” è una parola che la Commissione di Ursula von der Leyen ripete spesso. Significa che l’Unione dovrà avere il controllo sulle nuove tecnologie, sia dal punto di vista della regolazione che del loro sviluppo. Il cyber-nazionalismo ha contagiato anche il Vecchio continente. Per il momento, però, l’Europa dipende fortemente dagli Stati Uniti in quasi tutti i settori digitali più strategici. Al contrario dell’America (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) ma anche della Cina (Baidu, Alibaba, Tencent), l’Europa non possiede delle Big Tech paragonabili per fatturato ed influenza globale. Se un’azienda europea, poi, volesse adottare soluzioni cloud o di intelligenza artificiale, finirebbe per rivolgersi a fornitori esteri. Le piattaforme che raccolgono i dati personali dei cittadini dell’Unione sono praticamente tutte statunitensi, mentre i cinesi sono molto avanti sul 5G.
Il potere delle Big Tech
Ribaltare questa situazione è complicato. Ma, per riuscire ad accorciare le distanze, sembra che anche l’Europa stia prendendo spunto dalla Cina: non intende certo abolire la concorrenza straniera, ma ridurla attraverso regole stringenti e standard elevati sì. Il tutto per favorire la crescita delle aziende autoctone. Nei mesi scorsi il Financial Times ha rivelato alcuni dei nuovi poteri di cui la Commissione vorrebbe dotarsi per limitare il potere di mercato dei giganti tecnologici. Tra le misure discusse c’è la possibilità di forzarne lo “spezzettamento” oppure di obbligarli a vendere parte delle loro operazioni in Europa, nel caso in cui minaccino la concorrenza. O, ancora, di costringerli a condividere i dati con le società rivali. Il rimedio più estremo – stando a quanto riporta il quotidiano – prevedrebbe addirittura la loro completa esclusione dal mercato unico.
Le Big Tech sono sotto lo scrutinio delle autorità anche in patria, negli Stati Uniti. Il 2019 è stato l’anno delle indagini antitrust. Lo scorso luglio c’è stata l’audizione al Congresso dei capi di Amazon, Apple, Facebook e Google. E – mentre scriviamo – il Dipartimento di Giustizia sembra essere sul punto di aprire una causa contro Google per abuso di posizione dominante. La concorrenza e i consumatori vanno tutelati, ma Washington rischia parecchio ad attaccare le proprie compagnie tecnologiche. Se dovesse spingersi fino a scorporarle in società più piccole, finirebbe per danneggiarle di fronte ai campioni digitali cinesi. Che, in assenza di rivali della stessa taglia, potrebbero espandersi nel mondo con maggiore facilità. L’America vuole esattamente il contrario.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
L’India l’ha bloccata lo scorso giugno, ufficialmente per proteggere “la sovranità e l’integrità” nazionali. Anche gli Stati Uniti la considerano una minaccia alla sicurezza e volevano vietarla, ma qui la situazione è più complessa ed evolve continuamente: mentre scriviamo, non è chiaro chi ne gestirà le operazioni in America e che cosa prevedrà l’accordo tra le parti.
Stiamo parlando di TikTok, l’app di proprietà dell’azienda cinese ByteDance attorno alla quale si è sviluppato un enorme caso geopolitico che ci riguarda tutti, anche se non l’abbiamo mai scaricata. Lo scontro su TikTok non verte sui contenuti del social network – brevi video musicali, principalmente – ma sui dati che raccoglie, sulla loro destinazione e sull’uso che se ne fa. Secondo i governi di Washington e Nuova Delhi, questi dati verrebbero inviati all’estero e finirebbero nelle mani del Partito comunista cinese, permettendogli così di “schedare” i cittadini indiani e americani. Nel caso dell’India, dietro alla messa al bando dell’app c’entrano le tensioni con la Cina lungo il confine. La crisi con Pechino è centrale anche per comprendere la scelta degli Stati Uniti, ma con l’aggiunta di un aspetto “simbolico”: TikTok è la prima app nata in Cina a essere diventata un fenomeno di massa, con circa 700 milioni di utenti mensili nel mondo. Finora, (quasi) tutti i servizi Internet ad aver ottenuto un successo simile erano americani.
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