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Bosnia, etno-crazia in dissoluzione


La popolazione è indifferente al rischio secessione. Il 46,8% dei giovani ha il progetto di emigrare. Gli Usa impongono sanzioni, la Russia sostiene Dodik e la Ue deve ancora prendere una posizione

Se l’attuale crisi politica in Bosnia ed Erzegovina si potesse riassumere graficamente, sarebbe una curva appiattita. La rapida escalation dello scorso autunno, presentata come preludio di una possibile dissoluzione del paese e persino di un ritorno al conflitto degli anni Novanta, ha lasciato spazio a uno stallo. I protagonisti prendono tempo, senza compiere chiari passi né avanti, né indietro. Il quadro socioeconomico avrebbe invece l’immagine di due curve in rialzo costante: l’inflazione, in netta crescita degli ultimi mesi, e l’emigrazione che da ormai un decennio sta di fatto svuotando il paese di giovani e forza lavoro. Sfera politica e sfera sociale, “alto” e “basso” sono chiaramente collegati nel lungo periodo, ma forse non sono mai apparsi così distanti come in questi mesi. La logica della crisi in corso è tutta interna all’etno-crazia bosniaca, con importanti echi geopolitici, rimanendo estranea alla realtà quotidiana della popolazione, che sembra guardare agli eventi più con rassegnato distacco che con paura.

Sul piano istituzionale, il fronte principale resta quello aperto da Milorad Dodik, membro serbo della presidenza tripartita statale e dal 2006 leader assoluto de facto della Republika Srpska (RS: una delle due entità amministrative del paese, a maggioranza serba; l’altra è la Federazione di Bosnia Erzegovina, FBiH, a maggioranza bosgnacca e croata). Dopo un breve stand-by, nelle ultime settimane Dodik ha rilanciato l’agenda di secessione graduale. Lo scorso 10 febbraio il parlamento della RS − dove l’SNSD, il partito nazionalista di Dodik, conta su una larga maggioranza − ha approvato un disegno di legge che prevede la formazione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo da quello statale.

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