Brexit: suicidio di massa
Ma Cameron avrà calcolato gli effetti dell’eliminazione dell’Inghilterra dai prossimi Europei di calcio sull’umore degli Inglesi?
Ma Cameron avrà calcolato gli effetti dell’eliminazione dell’Inghilterra dai prossimi Europei di calcio sull’umore degli Inglesi?
Il 23 giugno sarà la data in cui gli elettori britannici saranno chiamati a votare per il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Ad annunciarlo è stato il Primo ministro David Cameron lo scorso febbraio, dopo aver raggiunto un accordo con gli altri membri dell’Ue sul nuovo status dei rapporti tra Londra e Bruxelles. L’accordo, che nelle intenzioni del Premier dovrebbe permettere al Regno Unito di rimanere all’interno dell’Unione, entrerà in vigore solo quando il governo comunicherà che il referendum avrà confermato la volontà dei cittadini britannici di voler rimanere in Europa.
Il testo dell’accordo prevede un sostanziale compromesso sulle quattro aree su cui David Cameron aveva chiesto una rinegoziazione:
1. sulla sovranità, tema caro a molti euroscettici, l’accordo prevede che alla prossima riscrittura dei Trattati sarà specificato che il principio di “Unione sempre più stretta”, su cui si fonda la costruzione europea, non si applicherà più al Regno Unito;
2. sull’immigrazione, il punto più delicato dell’accordo, è stato deciso che Uk potrà attivare progressivamente in 7 anni il cosiddetto “freno di emergenza”, che servirà a limitare in modo graduale (e non immediato, come pretendeva Cameron) l’erogazione dei benefici previdenziali ai lavoratori Ue, durante 4 anni dal loro ingresso nel Paese;
3. sulla governance economica, l’accordo risponde a buona parte delle preoccupazioni espresse da Cameron, prevedendo che le decisioni prese per l’area euro non potranno costituire una discriminazione per gli Stati membri la cui moneta non è l’euro (il sistema bancario inglese non sarà sottoposto alla vigilanza Bce e Londra non parteciperà ai salvataggi degli altri paesi euro). Dall’altro lato, però, l’accordo mette nero su bianco che i Paesi fuori dalla Moneta unica non potranno avere potere di veto sulle decisioni dell’area euro e non potranno compromettere la realizzazione degli obiettivi dell’Unione economica e monetaria;
4. pieno accordo, infine, sulla richiesta di aumentare la competitività.
Anche se l’intesa accoglie molte delle richieste dei conservatori – e lo stesso Cameron l’ha salutata come un successo per la politica britannica – le critiche da parte degli euroscettici non sono mancate. Al Premier britannico, che tanto ha voluto questo referendum, toccherà ora convincere un’opinione pubblica molto indecisa. I sondaggi indicano poca distanza tra i due campi, il che rende la partita assai incerta, anche perché a dividere gli elettori non sono mai stati i nodi dell’accordo ma l’idea stessa se cedere o meno sovranità a Bruxelles. Un altro elemento di rischio è rappresentato dalle contingenze contestuali che si potrebbero verificare in prossimità del referendum, ad esempio se la crisi dei migranti dovesse conoscere una fase di recrudescenza. C’è poi un ultimo fattore che potremmo chiamare “effetto Johnson”. La decisione da parte del sindaco di Londra, Boris Johnson, uno dei politici più popolari, di schierarsi a favore del fronte del “Leave” ha aumentato di molto le preoccupazioni, soprattutto tra gli investitori, che il Paese possa votare davvero per un’uscita. Tuttavia, sebbene Johnson sia un comunicatore efficace, il suo probabile impatto non è da ritenersi così decisivo per gli esiti del voto. Se è vero che tutti questi fattori potrebbero portare il fronte del “Leave” a vincere è altrettanto vero che ci sono molti altri aspetti che rafforzano il fronte del “Remain”. Una delle ragioni più importanti è che i Britannici, dopo la Regina Elisabetta, l’istituzione della Monarchia e il cricket, hanno una preferenza innata per lo status quo. Inoltre, il mondo imprenditoriale, inclusa la Confindustria britannica, che rappresenta 190mila imprese, è largamente favorevole a restare nell’Ue per non perdere l’accesso al Mercato unico.
Secondo le stime degli analisti della compagnia assicuratrice Euler Hermes, nel caso di una soft exit (che preveda il mantenimento di un accordo di libero scambio), le aziende chimiche potrebbero subire una perdita di 3,2 miliardi di euro, mentre quelle di macchinari ed automobilistiche subirebbero una contrazione ciascuna di 1,4 miliardi di euro. Nello scenario di un isolamento commerciale invece, ovvero senza la presenza di un accordo di libero scambio, le esportazioni di questi tre settori potrebbero subire una perdita dai 9 ai 4 miliardi di euro e il fatturato delle aziende britanniche subirebbe una contrazione del -1% all’anno (rispetto ad un tasso di crescita attuale del + 4%); il saldo negativo del commercio, già a un livello record, aumenterebbe da 45 a ben 233 miliardi di euro entro 12 mesi dalla formalizzazione di un’uscita del Regno Unito dall’Ue. C’è poi il mondo finanziario: l’associazione che rappresenta il settore finanziario, CityUK, ha recentemente dichiarato che un’uscita “danneggerebbe la City e gli investimenti dall’estero e porterebbe ad un lungo periodo di incertezza”. Non a caso, il valore della sterlina è crollato del 12% in poco meno di un anno, in gran parte a causa di timori di una potenziale Brexit. Anche l’FTSE 100 – l’ indice azionario delle 100 società più capitalizzate della London Stock Exchange – ha sofferto a causa dell’incertezza Brexit, crollando in questo ultimo anno da un valore di 7.100 ad appena 5.500. Se non bastasse, lo scorso febbraio, le grandi banche americane, tra cui Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley e Bank of America avrebbero donato (secondo indiscrezioni) alla campagna contro la prospettiva Brexit cifre a sei zeri, visto che la prospettiva di un’uscita potrebbe costringerle a trasferire altrove la loro sede europea. Infine, ad essere penalizzato da una possibile uscita, sarebbe il tenore di vita dei cittadini britannici. La Fondazione Bertelsmann Stiftung ha calcolato che in caso di una fuoriuscita del Paese nel 2018, il Pil pro capite britannico potrebbe registrare un calo tra lo 0,6 % e il 3% nel 2030, che significherebbe per ogni cittadino britannico una diminuzione di Pil pro capite pari a 220 euro (in caso di soft exit) fino ad un massimo di 1.025 euro (in caso di isolamento commerciale). Se invece consideriamo oltre al danno al commercio, anche quello alla produttività, le perdite di Pil pro capite nel 2030 potrebbero aumentare a 692 euro (soft exit) fino ad un massimo di 4.850 euro (isolamento), ovvero una perdita pari a 313 miliardi di euro per l’intera economia. Inoltre, i magri risparmi che potrebbero derivare da una Brexit (es: cancellazione dei contributi al budget Ue, che attualmente ammontano allo 0,5% del Pil britannico – 8,6 miliardi di euro) non compenserebbero in alcun caso le perdite economiche, nemmeno nello scenario più favorevole.
È inverosimile però che gli elettori votino alla luce di dati e numeri; è per questo che la scommessa di Cameron è un azzardo non controllato e dunque irresponsabile! Io continuo a pensare che i Britannici alla fine voteranno per il noto piuttosto che per l’ignoto… Sempre che l’eliminazione dei “Bianchi” dagli Europei di calcio del prossimo giugno non irriti gli elettori e abbia la meglio sulle intenzioni di voto…
Ma Cameron avrà calcolato gli effetti dell’eliminazione dell’Inghilterra dai prossimi Europei di calcio sull’umore degli Inglesi?
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di geopolitica
Abbonati per un anno alla versione digitale della rivista di geopolitica