Le province di Alberta e Saskatchewan chiedono l’indipendenza ma ottenerla è complicato. E l’export del petrolio ne risentirebbe
Le elezioni federali dello scorso ottobre non sono andate benissimo per il Primo Ministro Justin Trudeau: ha ottenuto un secondo mandato ma ha perso il voto popolare e una ventina di seggi rispetto al 2015, ritrovandosi alla guida di un Governo di minoranza. Le analisi del voto hanno restituito un Canada diviso, con i Conservatori che faticano nell’est urbano e con i Liberali che, al contrario, non sono riusciti a conquistare nemmeno un seggio nelle province occidentali di Alberta e Saskatchewan. Il Canada è andato così ad aggiungersi alla lista di quei Paesi i cui destini politici sono segnati dalla divisione centro-periferia – lista in cui rientrano gli Stati Uniti e tanti altri –, ma dietro all’espulsione dei Liberali dall’ovest c’è di più.
L’Alberta e il Saskatchewan si sentono distanti dal resto del Paese e marginalizzate ad Ottawa, al contrario delle province centrali dell’Ontario e del Québec. È una percezione diffusa tra gli abitanti dell’ovest e sintetizzata spesso nell’espressione “alienazione occidentale”: un mix di rabbia, inquietudine e frustrazione che adesso qualcuno sta cercando di incanalare in un movimento politico che punta alla separazione dal Canada e alla formazione di uno Stato indipendente, composto dai soli territori dell’Alberta, del Saskatchewan, del Manitoba e di parte della Columbia britannica. Il nome di questo movimento/partito è Wexit (gioco di parole che sta per Western exit) e uno dei suoi motti è Make Alberta Great Again. I riferimenti sono evidenti.
Il leader di Wexit è Peter Downing, estremista di destra con un passato nella regia polizia a cavallo che si è guadagnato una certa notorietà diffondendo teorie del complotto. Il suo bersaglio preferito è Trudeau, che accusa di aver “normalizzato la pedofilia”, di aver permesso ai terroristi dell’Isis di entrare in Canada “travestiti” da rifugiati e di portare avanti una politica migratoria che danneggia la “razza bianca anglosassone”. C’è senza dubbio tanto razzismo e tanta xenofobia in Wexit, ma il movimento si innesta su un tessuto culturale ed economico ben più vasto.
L’Alberta, che è il cuore del separatismo occidentale canadese, si sente lontana dal resto del Canada per ragioni sia culturali che storiche: si unì infatti agli altri territori – assieme al Saskatchewan – soltanto nel 1905, ben trentotto anni dopo la nascita della confederazione. Ha mantenuto quindi un forte spirito di frontiera, tanto che la provincia è soprannominata “il Texas del Canada”. E in effetti lo ricorda, con i suoi pascoli di bestiame, i giacimenti di petrolio, i rodei, il conservatorismo, l’individualismo e l’avversione per il Governo centrale. La certezza che la provincia tragga pochi benefici dall’essere parte del Canada, e che anzi starebbe meglio da sola, è insomma ben radicata: oggi ne è convinto un terzo degli abitanti, secondo un sondaggio Ipsos. Per capire cosa stia succedendo, e perché la voglia di secessione sia esplosa proprio ora, bisogna guardare all’economia.
L’economia dell’Alberta – e del Saskatchewan – si fonda sul petrolio. Se nel 2018 il Canada è stato il quarto maggiore produttore petrolifero al mondo (dato EIA), lo deve soprattutto alle riserve dell’Alberta. La provincia è ricca e contribuisce per il 17% al Pil nazionale. A causa però della sua dipendenza dal greggio, l’Alberta ha sofferto moltissimo la fase di crollo dei prezzi nel 2014, che provocò la perdita di circa 100mila posti di lavoro. Oggi l’economia si è ripresa ma conserva alcune fragilità: a novembre il tasso di disoccupazione era del 7,2%, superiore alla media nazionale del 5,9%. Questo spiega la rabbia e la paura della popolazione; le politiche ambientaliste di Justin Trudeau hanno finito per alimentarla.
Il Primo Ministro vorrebbe infatti portare a zero le emissioni nette di CO2 entro il 2050 e ha imposto una tassa sul carbonio (carbon tax): una misura estremamente impopolare nell’ovest, tanto che Wexit la considera un “attacco diretto all’industria del Canada occidentale”. Gli abitanti dell’Alberta e del Saskatchewan incolpano inoltre Trudeau per i ritardi nella costruzione di nuovi oleodotti, che stanno limitando pesantemente la capacità di esportazione delle due province – si è cercato di ovviare al problema ricorrendo al trasporto su rotaia – e mantengono basso il prezzo del petrolio canadese. Le due condotte più discusse sono il Keystone XL (dall’Alberta al Nebraska, negli Stati Uniti) e soprattutto il Trans Mountain (dall’Alberta alla Columbia britannica, che si affaccia sull’oceano Pacifico). Nel 2018 il Governo Trudeau ha acquistato il Trans Mountain dalla società costruttrice per assicurarsi la prosecuzione del progetto: una decisione che gli costò molti attacchi da parte dei partiti di sinistra e che comunque non bastò a placare l’agitazione dell’ovest.
La crisi del settore petrolifero dell’Alberta è inoltre legata anche alla natura stessa del suo greggio, di tipo pesante e contenuto in giacimenti particolari – le sabbie bituminose (oil sands) – che rendono l’estrazione e la lavorazione della miscela sia molto costosa che molto inquinante: in una parola sola, sconveniente. Le oil sands sono responsabili dell’11% circa delle emissioni canadesi di gas serra, ma secondo gli estremisti di Wexit l’ambientalismo è parte di uno stratagemma comunista che mira a instaurare un Governo unico mondiale.
I separatisti si lamentano anche del meccanismo federale di perequazione, che permette di attenuare gli squilibri tra le province attraverso il trasferimento di risorse da quelle più ricche a quelle più povere. Sostengono che l’Alberta e il Saskatchewan paghino troppe tasse a Ottawa senza ricevere nulla in cambio e dipingono un ovest libero di prosperare una volta che si sarà sbarazzato del “parassitario” est.
Nella pratica, però, raggiungere l’indipendenza è complicato. I territori secessionisti dovrebbero innanzitutto concordare un referendum con il Governo centrale, e anche in caso di vittoria si aprirebbero ulteriori – e lunghi – negoziati, riguardo ad esempio all’appartenenza al Commonwealth, alla gestione delle basi militari e ai rapporti commerciali. Senza contare che non è chiaro in che modo l’Alberta e il Saskatchewan riusciranno a diventare una potenza esportatrice di petrolio senza neanche uno sbocco sul mare: convincere la Columbia britannica a unirsi alla loro ribellione non sarà facile.
Secondo i sondaggi, comunque, circa il 25% degli abitanti dell’Alberta voterebbe a favore della separazione dal Canada: è meno della metà di quanto servirebbe per far partire il processo, ma più che abbastanza per mettere in allarme Trudeau. Soprattutto se si tiene conto del fatto che anche i Governi dell’Alberta e del Saskatchewan – e in parte quello del Manitoba, non solo gli attivisti di Wexit, quindi – hanno iniziato a scontrarsi con Ottawa per conquistare maggiore autonomia per le loro province: chiedono la cancellazione della carbon tax e una riforma del programma federale di perequazione.
I fuochi di alienazione che bruciano nelle praterie dell’ovest sono tanti e Justin Trudeau non sa bene come spegnerli. Ha spostato Chrystia Freeland, figura di spicco nel suo precedente gabinetto, dal Ministero degli Affari esteri a quello per gli Affari intergovernativi perché spera che, essendo lei nata nell’Alberta, abbia maggiori possibilità di successo in questa missione di riconciliazione. Ma la decisione è anche il segnale di un ritorno a una politica maggiormente concentrata sulla dimensione domestica piuttosto che su quella estera. Le sfide internazionali tuttavia non mancano. Su tutte, la crisi più grave è quella con la Cina: come ritorsione per l’arresto della dirigente di HuaweiMeng Wanzhou, da oltre un anno Pechino sta trattenendo due cittadini canadesi e restringendo le importazioni di beni agroalimentari. Il Canada non ha abbastanza forza per reagire, o rischierebbe grossi danni economici. Per questo sta chiedendo aiuto agli Stati Uniti, l’alleato più importante, ma non sta ricevendo risposta.
Le elezioni federali dello scorso ottobre non sono andate benissimo per il Primo Ministro Justin Trudeau: ha ottenuto un secondo mandato ma ha perso il voto popolare e una ventina di seggi rispetto al 2015, ritrovandosi alla guida di un Governo di minoranza. Le analisi del voto hanno restituito un Canada diviso, con i Conservatori che faticano nell’est urbano e con i Liberali che, al contrario, non sono riusciti a conquistare nemmeno un seggio nelle province occidentali di Alberta e Saskatchewan. Il Canada è andato così ad aggiungersi alla lista di quei Paesi i cui destini politici sono segnati dalla divisione centro-periferia – lista in cui rientrano gli Stati Uniti e tanti altri –, ma dietro all’espulsione dei Liberali dall’ovest c’è di più.
L’Alberta e il Saskatchewan si sentono distanti dal resto del Paese e marginalizzate ad Ottawa, al contrario delle province centrali dell’Ontario e del Québec. È una percezione diffusa tra gli abitanti dell’ovest e sintetizzata spesso nell’espressione “alienazione occidentale”: un mix di rabbia, inquietudine e frustrazione che adesso qualcuno sta cercando di incanalare in un movimento politico che punta alla separazione dal Canada e alla formazione di uno Stato indipendente, composto dai soli territori dell’Alberta, del Saskatchewan, del Manitoba e di parte della Columbia britannica. Il nome di questo movimento/partito è Wexit (gioco di parole che sta per Western exit) e uno dei suoi motti è Make Alberta Great Again. I riferimenti sono evidenti.
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