Bottini, tesori e il nostro patrimonio artistico.
Molti film di guerra narrano le drammatiche gesta di un manipolo di soldati, ideali rappresentanti delle esperienze di guerra di eserciti e popoli. I film che parlano invece degli aspetti più strategici e astratti della guerra si contano sulle dita di una mano – un famoso esempio è il film biografico Premio Oscar Patton, diretto da Franklin J. Schaffner e co-sceneggiato da un giovane Francis Ford Coppola – perché agli spettatori piace potersi identificare con i personaggi.
Un piccolo nucleo di film di guerra si è occupato del complesso destino delle opere d’arte durante i conflitti bellici, un materiale molto ricco che solo in pochi hanno esplorato, incluso il classico di John Frankenheimer del 1964 Il Treno, con Burt Lancaster. Ultimamente però i film sul recupero dei patrimoni artistici in tempo di guerra si sono moltiplicati e includono il colossal The Monuments Men diretto da George Clooney, con Matt Damon, Cate Blanchett, Bill Murray e John Goodman, e Diplomacy del regista tedesco Volker Schlöndorff, un adattamento di una pièce teatrale francese di Cyril Gely per due soli attori, interpretato da due veterani delle scene francesi, André Dussolier e Niels Arestrup.
Entrambi i film sono stati presentati al Festival di Berlino lo scorso febbraio e raccontano versioni romanzate di eventi della Seconda guerra mondiale, quando la Germania nazista aveva ordinato il saccheggio dei capolavori artistici d’Europa per allestire un Führermuseum a Linz, in Austria, vicino al paese natio di Hitler. Avevano iniziato dalle collezioni private di ebrei europei promulgando leggi che permettevano l’esproprio, poi con l’espandersi del Terzo Reich, perfino opere da Italia, Francia, Spagna e Belgio venivano dirottate verso la Germania.
Come racconta The Monuments Men, vennero trafugate migliaia di opere uniche e di grande pregio e dà una certa soddisfazione vedere un colossal americano dove i MacGuffin – vale a dire gli oggetti che i protagonisti devono assolutamente ottenere – sono capolavori rinascimentali come L’Adorazione dell’agnello dei fratelli fiamminghi Van Eyck e La Madonna di Bruges di Michelangelo.
Opere queste così notevoli che anche Napoleone aveva le aveva fatte portare in Francia, per poi essere restituite solo dopo la sconfitta di Waterloo (evento menzionato di passaggio nel film di Clooney). Sia Napoleone che Hitler avevano ben chiaro il vero valore di queste opere e le trattavano probabilmente molto meglio dei propri eserciti e popoli.
La questione di fondo in Monuments Men, spesso offuscata da battute forzatamente divertenti, è certamente connessa al valore dei lavori: può un’opera d’arte valere una vita umana? Nel film di Clooney, come avvenne nella realtà, i comandi alleati in Francia spesso rifiutavano l’appoggio ai manipoli di “protettori d’arte”, nonostante le consegne del Presidente Usa, perché non erano disposti a sacrificare la vita dei loro uomini per un dipinto, una scultura o un edificio storico.
Diplomacy, a differenza della ricca produzione di Clooney girata prevalentemente in esterni, si svolge quasi interamente in un ufficio nazista con vista su Parigi occupata. Il motivo del contendere è però lo stesso, visto che i nazisti, con l’approssimarsi della fine della guerra, hanno deciso di minare e allagare la capitale francese, riducendo secoli di meraviglie artistiche ed architettoniche a un cumulo di macerie
Il film racconta la lunga conversazione notturna durante la quale il console generale svedese Raoul Nordling (Dussolier) tenta di ragionare con Dietrich von Choltitz (Arestrup), il governatore nazista di Parigi, il giorno prima che vengano fatti brillare gli esplosivi collocati in tutta la città in ottemperanza agli ordini di Berlino. Di fronte alla possibilità di un tale scempio, Nordling sostiene che la città non appartiene a nessuno se non alla Francia e all’umanità intera e per questo deve essere preservata a qualsiasi costo.
Se in The Monuments Men scarseggia il senso di urgenza o di pericolo nella missione di questo gruppetto di appassionati d’arte che si aggira per l’Europa in cerca di capolavori da salvare, entrando talvolta in contatto con Tedeschi dal grilletto facile, Diplomacy è un thriller che non dà tregua, interamente costruito intorno a un lungo dialogo da cui dipende il futuro di Parigi e dell’arte francese ed europea in genere.
Il fatto che il finale di Diplomacy sia scontato, visto che Parigi è ancora in piedi, nulla toglie alla tensione del racconto, dato che si tratta in primo luogo di un confronto mentale e ideale e in secondo luogo perché inaspettatamente la trama prende una piega più intima quando von Choltitz rivela un’informazione cruciale (il generale era stato rappresentato in precedenza nel film di René Clement Parigi brucia?, anch’esso co-sceneggiato da Francis Ford Coppola).
Nonostante due dei suoi uomini perdano la vita nel tentativo di proteggere o rinvenire opere d’arte, il film di Clooney non arriva mai a toccarci, di qui la necessità verso la fine del film di far dire al Presidente Usa: “Ma valeva la pena sacrificare la vita di un uomo per una scultura? Lui che avrebbe detto?”. A dire il vero, l’intero film avrebbe dovuto esplorare le molte sfaccettature di questa questione. A riprova del fatto che alcune opere d’arte possono sì essere trascendentali – e per queste vale la pena di combattere e morire – altre sono null’altro che insipida replicazione tecnica.
Bottini, tesori e il nostro patrimonio artistico.
Molti film di guerra narrano le drammatiche gesta di un manipolo di soldati, ideali rappresentanti delle esperienze di guerra di eserciti e popoli. I film che parlano invece degli aspetti più strategici e astratti della guerra si contano sulle dita di una mano – un famoso esempio è il film biografico Premio Oscar Patton, diretto da Franklin J. Schaffner e co-sceneggiato da un giovane Francis Ford Coppola – perché agli spettatori piace potersi identificare con i personaggi.