La decisione del Governo di suddividere il Paese in zone rosse, arancioni e gialle e il pianto greco dei Presidenti di Regione
Ci vorrebbe il Curzio Malaparte della “Pelle” per descrivere quel che è successo al pronto soccorsoCardarelli di Napoli: un uomo sospetto Covid trovato bocconi nel bagno, un anonimo che riprende tutto allargando il campo sugli altri pazienti accampati nelle corsie, le grida, le urla, l’inevitabile diffusione virale sui social.
Eppure in primavera il governatore De Luca quasi si vantava per “l’efficienza campana” nel gestire l’emergenza sanitaria, mentre nella Bergamasca si consumava una strage: “Talvolta il Sud riesce a dare lezioni al Nord”. Una frase che non gli ha portato fortuna. Tra gli enti locali, che gestiscono la sanità al 90%, si è scatenato un pericoloso spirito di competizione, oltre che un’insana ribellione verso la cabina di regia del Governo, indicata come matrigna. Servirebbe unità contro il nemico invisibile e invece per ragioni di consenso assistiamo a una sorta di palio delle Regioni.
Prendiamo l’assegnazione delle zone. I governatori di quelle rosse l’hanno presa male. Quasi che l’assegnazione di un colore corrispondesse a un voto in pagella o a una punizione: il giallo come un buon risultato, arancione così così e rosso dietro la lavagna. Non ci si rende conto che è solo un criterio di protezione basato sulla diffusione e sull’incidenza del virus, indipendentemente dall’operato di chi regge la macchina amministrativa e sanitaria degli enti locali. Tra l’altro, sono proprio le amministrazioni locali ad alimentare i dati con cui la cabina di regia del Governo effettua il monitoraggio e prende poi le decisioni, come ha ricordato il Ministro della Salute Roberto Speranza.
Ma tra i governatori lo sdegno circola più del virus. Anche il governatore calabrese è furente. “La mia regione non merita un isolamento che rischia di esserle fatale”, afferma il Presidente facente funzioni della Calabria Nino Spirlì. E conclude: “Il Governo ha deciso di punirci, ma noi non ci pieghiamo”. Punirci o evitare guai peggiori, visto che la Calabria ha la sanità commissariata da 15 anni e il suo commissario nemmeno sapeva che doveva provvedere al piano anti-Covid come gli aveva prescritto il Governo?
D’altro canto c’è, come il governatore Luca Zaia, chi esulta: “La zona gialla alla nostra regione è un riconoscimento al modello Veneto. Forza veneti, pancia a terra e facciamo squadra”. Questa interpretazione del colore delle zone come un riconoscimento o una punizione, quasi un titolo ambito che garantisce il consenso e la soddisfazione dei cittadini, non ha nulla a che fare con un Paese che sta lottando a muso duro, con centinaia di vittime al giorno, contro una pandemia. Manca il senso di responsabilità, di un’unità, di collaborazione. E invece assistiamo all’insano duello Stato-regioni, alle rivendicazioni autonomistiche e al rincorrersi di polemiche utili forse a conquistare il consenso degli elettori ma non a sbarazzarci un nemico comune che non guarda in faccia a nessuno.
Ci vorrebbe il Curzio Malaparte della “Pelle” per descrivere quel che è successo al pronto soccorsoCardarelli di Napoli: un uomo sospetto Covid trovato bocconi nel bagno, un anonimo che riprende tutto allargando il campo sugli altri pazienti accampati nelle corsie, le grida, le urla, l’inevitabile diffusione virale sui social.
Eppure in primavera il governatore De Luca quasi si vantava per “l’efficienza campana” nel gestire l’emergenza sanitaria, mentre nella Bergamasca si consumava una strage: “Talvolta il Sud riesce a dare lezioni al Nord”. Una frase che non gli ha portato fortuna. Tra gli enti locali, che gestiscono la sanità al 90%, si è scatenato un pericoloso spirito di competizione, oltre che un’insana ribellione verso la cabina di regia del Governo, indicata come matrigna. Servirebbe unità contro il nemico invisibile e invece per ragioni di consenso assistiamo a una sorta di palio delle Regioni.
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