Mercoledì 24 giugno le trattative per la formazione del governo hanno registrato una nuova battuta d’arresto, a seguito delle elezioni tenutesi il 18 giugno per il rinnovo dei centosettantanove componenti del Folketing, il parlamento unicamerale della Danimarca.
Lars Løkke Rasmussen, leader del Venstre (Liberali) ha ammesso le molte difficoltà che ostacolano l’accordo con gli euroscettici di destra (Dansk Folkeparti) parlando con la televisione pubblica DR. Il terzo incomodo nei colloqui, Anders Samuelsen, a capo dell’Alleanza dei Liberali – forte del sette e mezzo per cento dei consensi e di tredici seggi – ha ricordato sia a Rasmussen sia a Dahl che Venstre e populisti euroscettici, anche sommati, non avrebbero i novanta seggi necessari ad una coalizione di maggioranza. Il leader del Dansk Folkeparti, Kristian Thulesen Dahl, ha dichiarato a sua volta che non si è ancora vicini ad un accordo.
Il Venstre (votato da circa il venti per cento degli elettori) resta ben al di sotto nei consensi rispetto ai Socialdemocratici guidati da Helle Thorning-Schmidt – al ventisei per cento – ma la coalizione “blu” riunita da Rasmussen prenderà ugualmente il posto del Centrosinistra: i risultati ottenuti dagli alleati dei Socialdemocratici, nonostante l’otto per cento ed i quattordici seggi del blocco rossoverde (Enhedslisten-De Rød-Grønne) alla loro sinistra, non sono sufficienti per formare un nuovo esecutivo progressista.
Il Venstre è tornato quindi in pista con Lars Løkke Rasmussen (che era già stato Primo Ministro, sostituendo, nel 2009, Anders Fogh Rasmussen quando questi divenne segretario generale della Nato) e pur essendosi fermato attorno al venti per cento, in compenso può contare su alleati la cui somma permette sulla carta la formazione di una coalizione di maggioranza, in realtà percorso impervio: su diversi temi – soprattutto Unione Europea, Immigrazione e Bilancio – i gruppi che fino a ieri hanno affiancato i Liberali nel campo dell’opposizione all’indomani dei risultati hanno dichiarato che sulle questioni cruciali non tratteranno, ma porranno vere e proprie condizioni, tali da rendere difficilmente immaginabili cooperazioni dei populisti del Dansk Folkeparti (DF) e Conservatori nello stesso governo.
I populisti del DF, oggi al venti per cento, vogliono più autonomia dalla UE e rigidità sull’immigrazione, ma i Conservatori intendono mantenere l’esecutivo nel solco dei modelli liberali-socialdemocratici scandinavi (Det Konservative Folkeparti – simile ad altri partiti conservatori in dell’area nordica – su welfare, società civile ed ambiente, ha programmi sociali avanzati: stavolta ha ottenuto solo sei seggi ma può agire come ago della bilancia). Sul bilancio, laddove il Dansk Folkeparti insiste per un incremento di quasi un punto percentuale della spesa pubblica, l’Alleanza dei Liberali (la “Ny Alliance” lanciata nel panorama politico danese a partire dal 2007 da politici provenienti dalla Radikale Vestre, la sinistra liberale-socialista), ha chiarito invece che si unirà ad una coalizione soltanto se nel programma sarà previsto un taglio della spesa.
Il fatto è che il sistema politico danese è proporzionale ed i Socialdemocratici, uscenti dal governo, restano tuttora il primo partito, anzi guadagnano due punti percentuali e tre deputati in più rispetto al 2011, quindi i liberali del Venstre allo scopo di formare il nuovo esecutivo hanno due scelte, costruire una maggioranza in cui mediare continuamente tra forze che si vedono reciprocamente come fumo negli occhi (la nuova destra anti-austerity del Dansk Folkeparti e quella moderata pro-welfare di Conservatori ed Alleanza dei Liberali) o scommettere sulla creazione di un governo di minoranza, accordandosi questione per questione.
In entrambi i casi suggeriti è immaginabile, anche in base alla storia recente del paese nordico, che Lars Løkke Rasmussen ed i suoi ministri lavoreranno molto assieme alle opposizioni socialdemocratica, e liberale socialista, anche per limitare l’influenza di alleati rispetto ai quali, su molti temi, le distanze sono maggiori di quelle registrabili rispetto agli avversari socialdemocratici. Fin dal week end successivo alle elezioni Rasmussen ha avviato consultazioni separate, nel corso delle quali i Conservatori hanno dichiarato a priori che non intendono far parte della squadra di governo, tanto per escludere subito qualsiasi trattativa con il Dansk Folkeparti, che a sua volta ha presentato le proprie proposte come aut-aut, dando l’impressione che entrambi i partiti abbiano presente come, in un sistema che affida al parlamento un peso notevole, la rinuncia ai ministeri possa offire una solida contropartita: l’influenza sui singoli provvedimenti legislativi per orientarli nella direzione proposta agli elettori durante gli anni dell’opposizione, cui si potrebbero sostituire, per quanto riguarda i Conservatori ed i populisti del DF, altri anni di opposizione, ma adesso a sostegno di un esecutivo a guida liberale e dipendente dall’appoggio condizionato di quanti concorreranno a definirne l’azione. Il Dansk Folkeparti ha già appoggiato “dall’esterno” esecutivi di Centrodestra tra 2001 e 2011, la sua presenza vicino all’area di governo non è quindi una novità assoluta.
Naturalmente, oggi che ci si trova in circostanze già difficili per quanto riguarda il rapporto tra la UE ed alcuni stati componenti, il peso acquistato dai populisti di destra potrebbe creare problemi al nuovo Primo Ministro, nella azione di coordinamento tra paesi UE in materia di immigrazione e di bilancio, soprattutto se il programma del Dansk Folkeparti dovesse entrare a far parte a tutti gli effetti di una coalizione di maggioranza: prospettiva che al momento, guardando alla geografia politica danese e ai suoi meccanismi consolidati in particolare nel frammentato campo del Centrodestra, non appare molto facile.
@AldoCiummo
Mercoledì 24 giugno le trattative per la formazione del governo hanno registrato una nuova battuta d’arresto, a seguito delle elezioni tenutesi il 18 giugno per il rinnovo dei centosettantanove componenti del Folketing, il parlamento unicamerale della Danimarca.