La pace armata nella maggioranza di Governo gialloverde potrebbe essere destinata a durare dopo settimane di alta tensione, ma con altri protagonisti
“Mi auguro che dopo il 26 maggio tornino normali.” Si era sfogato così il vicepremier e leader politico del Movimento 5 Stelle (M5S) Luigi Di Maio a una sola settimana dal voto per le europee, riferendosi all’alleato di Governo della Lega. Si era arrivati al culmine di una campagna elettorale che tutti si aspettavano meno aspra e che ha invece finito per evidenziare ulteriormente l’incoerenza di fondo di una maggioranza composta da partner così distanti.
Non era mai stato così duro, Luigi Di Maio. “Ormai sono un disco rotto, monotematici, parlano solo di migranti e, quando non sanno che dire, la sparano.” Dopo settimane di ripetuti attacchi passati in cavalleria, il super Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico si era lasciato andare a una sferzata liberatoria in risposta all’ultima provocazione di Matteo Salvini. Il giorno prima, il leader della Lega aveva appreso in diretta TV dello sbarco a Lampedusa, da lui non autorizzato, di 47 persone soccorse in mare dalla Sea Watch 3 e non sapendo con chi prendersela si era fatto scappare una mezza accusa al Ministro dei Trasporti, il grillino Danilo Toninelli.
La rottura della non belligeranza artificiale aveva portato Di Maio a chiedere un ritorno alla normalità, tornare, cioè, a quella fase di innamoramento durante la quale i due vicepremier non lesinavano occhiate di intesa reciproca a mezzo stampa. Come lo scorso novembre, quando Di Maio diceva di “fidarsi ciecamente” di Salvini e di sentirlo “dieci volte al giorno”. Solo quattro mesi dopo, dopo il primo serio dissapore con la Lega sulla battaglia storica 5 stelle della TAV in Val di Susa, Di Maio aveva detto di fidarsi soltanto di Conte.
È sempre stato chiaro che quello tra Lega e M5S fosse un matrimonio di convenienza, che sarebbe durato ça va sans dire finché sarebbe convenuto alle due parti. E a dispetto dell’enorme risultato ottenuto dal partito di Salvini alle elezioni, è errato credere che solo la Lega ci abbia guadagnato o che abbia addirittura condotto l’agenda politica nel primo anno di Governo. Tra i provvedimenti messi a punto finora, si può riscontrare un sostanziale pareggio in termini di contenuti proposti. Ma soprattutto entrambe le parti hanno portato a casa, dopo una lunga trattativa con la Commissione Europea sulla legge di bilancio, le due misure cardine preelettorali, vale a dire il reddito di cittadinanza e “quota 100”.
Dunque, cosa è andato storto? Le dimissioni forzate di Armando Siri hanno decisamente inacidito la Lega, allora rampante nei sondaggi. Era scontato che l’elettorato grillino, nonostante l’alleanza di governo, si sarebbe scagliato contro un sottosegretario, nonché consigliere economico di un leader politico, indagato per corruzione. Sia Salvini che Di Maio avevano iniziato a fare pressioni su Conte, chi per il mantenimento chi per la rimozione del sottosegretario. Quando le dimissioni forzate sembravano prossime, gli argini si sono rotti e la Lega ha fatto partire la rappresaglia con il primo vero attacco esplicito a un membro grillino del Governo, il Ministro della Difesa Elisabetta Trenta.
Il pretesto è stato un tweet del suo Ministero con cui si complimentava con la Marina per un’azione di soccorso di pescherecci italiani sotto scacco dei libici. Un’azione che però non c’era mai stata: ingannati da un’agenzia stampa inesatta, al ministero avevano provato a rimuovere velocemente il tweet errato, ma non abbastanza per passare inosservato al Viminale. Fonti dell’entourage di Salvini avevano poi contattato la stampa dichiarando che le forze armate italiane meritavano di più. Per il Movimento si era varcato il Rubicone istituzionale, mentre sul blog si parlava di attacco senza precedenti e di utilizzo delle istituzioni a fini elettorali. Ormai è una battaglia quotidiana con Salvini, dirà un’esasperata Trenta al Corriere il 10 maggio.
Poco prima dell’attacco a Toninelli che aveva portato Di Maio a chiedere un ritorno alla normalità, era stato invece l’altro uomo forte della Lega, Giancarlo Giorgetti, ad alzare il tiro, affermando che Conte non era più super partes. Il Presidente del Consiglio aveva detto che c’era una “grammatica istituzionale” da rispettare, un termine pomposo che avrebbe ripreso anche in seguito. Il messaggio era chiaro: l’imparzialità e l’operato del presidente del Consiglio non si dovevano mettere in discussione.
Quella crisi nata dai malumori successivi alle dimissioni forzate di Siri e sviluppatasi con gli attacchi della Lega ai Ministri a 5 Stelle, si è in parte ricomposta con la conferenza stampa convocata da Conte il 3 giugno, il cui contenuto è rimasto misterioso per un giorno e che era seguita all’ennesimo attacco di Salvini, ancora una volta a Toninelli per via dell’incidente della nave da crociera a Venezia.
La conferenza di Conte è stata un rinnovo delle promesse di un matrimonio mai così in crisi come dopo l’evento traumatico delle elezioni, che aveva certificato la rottura di un equilibrio che in fondo si immaginava esser già andato in frantumi. Anche se non in termini assoluti per via della diversa affluenza, lo svuotamento del Movimento 5 Stelle a favore della Lega è stato particolarmente evidente soprattutto nei numeri: i leghisti sono passati dal 17.3% al 33.6%, i grillini dal 32.7% al 16.7% in un solo anno.
Squarciato il velo di Maya dell’equilibrio nel Governo, Conte ha messo il proprio destino nelle mani dei suoi vice, chiedendo il rispetto di una condizione sostanziale per mantenere il governo in vita: la fine della campagna perenne di Salvini contro l’altro alleato di Governo. Conte l’ha chiamato rispetto delle competenze sue, ad esempio nelle trattative con l’Ue, e degli altri Ministri, appunto quella “grammatica istituzionale” precondizione per la fiducia reciproca.
Se la crisi sembra rientrata, adesso Salvini parrebbe essere in una posizione di vantaggio, cioè quella di chi può staccare la spina quando vuole. Di Maio deve invece inseguire, guardando con maggiore preoccupazione allo scioglimento delle camere. Ma in realtà, staccare la spina non dipende quasi mai solo dalla volontà politica, essendo spesso dettata dai tempi istituzionali.
La finestra temporale per sciogliere le camere è, al momento, abbastanza ristretta. Quasi impossibile andare al voto a settembre, perché la campagna sotto l’ombrellone rischia di far disperdere le energie di chi la fa. Altrettanto difficile votare con la finanziaria in discussione, specie se questo Governo vorrà metterci il cappello sopra e considerando anche che non si sono ancora riusciti a trovare i circa 30 miliardi per sterilizzare un impopolare aumento dell’IVA.
La finestra in cui mettere sotto pressione i grillini dovrebbe pertanto aprirsi nella primavera del 2020 e dovrebbe durare fino alla primavera del 2021: nell’estate, infatti, si entrerà nel semestre bianco che precede la fine del settennato di Mattarella e le camere non potranno essere sciolte. E se si dovesse arrivare all’elezione del nuovo Presidente, a quel punto le probabilità che la legislatura finisca il proprio mandato è quasi certa, anche perché con le nuove regole, deputati e senatori possono godere della pensione piena dopo quattro anni e mezzo di mandato.
Il fatto che la legislatura possa durare nella sua interezza, non vuol dire che l’attuale Governo duri i 5 anni del suo mandato. Sono tre le variabili nell’equazione della maggioranza gialloverde: il contratto, la composizione dell’esecutivo e la sua guida. Toccare le prime due variabili vorrebbe dire scoperchiare il vaso di Pandora ai danni dei vincitori delle elezioni del 2018. Potrebbe invece aiutare a mantenere vivo l’innaturale idillio tra Lega e M5S un cambio al vertice, oggi occupato da una figura vicina al Movimento ma ancora di garanzia. La maggioranza resterebbe dunque uguale, ma si politicizzerebbe il suo vertice. O magari altre figure centrali, al momento di garanzia e non politiche come il titolare della Farnesina e l’inquilino di Via XX Settembre.
@gerardofortuna
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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La pace armata nella maggioranza di Governo gialloverde potrebbe essere destinata a durare dopo settimane di alta tensione, ma con altri protagonisti
“Mi auguro che dopo il 26 maggio tornino normali.” Si era sfogato così il vicepremier e leader politico del Movimento 5 Stelle (M5S) Luigi Di Maio a una sola settimana dal voto per le europee, riferendosi all’alleato di Governo della Lega. Si era arrivati al culmine di una campagna elettorale che tutti si aspettavano meno aspra e che ha invece finito per evidenziare ulteriormente l’incoerenza di fondo di una maggioranza composta da partner così distanti.