Fede e cibo, un connubio che risale all’alba dei tempi. Numerose regole alimentari religiose guidano i fedeli di gran parte del pianeta nella pratica più radicata della vita quotidiana: preparare e consumare i pasti.
Questo antico connubio fra cibo e religione poggia su un sistema complesso di ragioni e convinzioni, basato sull’analogia fra il nutrimento terreno e quello spirituale, fra la purezza di ciò che viene ingerito e quella dell’anima.
Molte religioni classificano i cibi in leciti e vietati. Seguendo il principio di ahimsa, la non-violenza, buddisti e induisti non devono uccidere animali e sono quindi vegetariani.
Gli ebrei devono mangiare kosher, astenersi da alcuni alimenti fra i quali il maiale, ma anche seguire regole articolate di preparazione del cibo.
I musulmani possono mangiare soltanto cibo halal (lecito) e devono rispettare non pochi divieti (haram), che vedono al primo posto il maiale e l’alcool. Se il cristiano gode di una grande libertà, molti cattolici rispettano l’astensione dalla carne tutti i venerdì dell’anno e il Mercoledì delle Ceneri.
La maggior parte delle religioni prescrive inoltre di nutrirsi con moderazione: non a caso la gola è uno dei sette peccati capitali, mentre l’ingordigia è considerata nell’islam come riprovevole. Un discorso a parte meritano le pratiche di digiuno.
Se i cattolici devono astenersi dal mangiare e bere nell’ora che precede la comunione, la più famosa prescrizione in questo senso è il Ramadan, nono mese dell’anno lunare dove i musulmani hanno il divieto di toccare cibo dall’alba fino al tramonto.
Michel Desjardins, professore al dipartimento Religione e Cultura dell’Università Wilfrid Laurier (Canada) e specialista del tema cibo e spiritualità, spiega: “Il Ramadan rappresenta una straordinaria opportunità per portare le persone più vicino alla propria spiritualità nella vita quotidiana; per indurle – sperimentando la fame – a pensare ai poveri; e al contempo, i pasti serali – dove si passa dal digiuno alla festa – sono fondamentali per costruire la comunità”. Desjardins racconta che un gruppo di cattolici canadesi, qualche anno fa, ha “copiato” il rito (non toccare cibo dall’alba al tramonto), notando che li aiutava a diventare fedeli migliori! Se il connubio fra alimentazione e religione è vecchio di millenni, alcune questioni – etiche, sociali, giuridiche – si pongono oggi con bruciante attualità, anche perché si intrecciano alle tematiche legate all’immigrazione.
Il primo tema – anche per le tensioni che genera – è il conflitto fra la crescente sensibilità occidentale per il benessere animale e le tecniche di macellazione rituale della carne halal (iugulazione e dissanguamento) e kosher (senza stordimento dell’animale).
La seconda questione, di carattere anche economico, riguarda la certificazione – pubblica o privata – delle filiere del cibo autorizzato da islam ed ebraismo. Ma forse le questioni più complesse riguardano le implicazioni pratiche della libertà religiosa.
Il giurista Antonio Chizzoniti, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e co-curatore dell’ebook Cibo e religione, diritto e diritti, osserva: “Quando, da diritto umano, la libertà religiosa diventa diritto riconosciuto a livello costituzionale, per la sua effettiva tutela necessita sempre più frequentemente di risorse pubbliche.
Pensiamo alle mense di scuole, carceri, ospedali: in uno stato ricco, non è un problema garantire a chiunque un pasto conforme alla propria confessione, ma diventa molto più difficile in tempi di austerità.”
Questo antico connubio fra cibo e religione poggia su un sistema complesso di ragioni e convinzioni, basato sull’analogia fra il nutrimento terreno e quello spirituale, fra la purezza di ciò che viene ingerito e quella dell’anima.