Riforme, semplificazione, riunificazione, Europa a due (o più) velocità…sono tante le idee e proposte che tentano di rispondere alla inquietante domanda “Come pensiamo di far andare avanti a 33 o a 36 una Ue che già dimostra di non funzionare a 27?”
Allargamento, approfondimento o integrazione differenziata. Con le urne del 6-9 giugno in inesorabile avvicinamento, il 2024 sarà una tappa di tutto rilievo nella definizione di che tipo di futuro vuole l’Europa per il suo progetto politico continentale. A 27, a 30, a 33 o a 36 (o persino 37, se calcoliamo pure la Turchia nel lotto dei candidati all’adesione).
Otto anni dopo, la Brexit è un ricordo lontano, e il tempo ha dato – pur con una certa, innegabile amarezza – ragione all’Ue, mettendo a nudo le fragilità di un Regno Unito che fatica a ritrovare la bussola, mentre tra i britannici prevale il rimpianto dei tempi andati.
Al netto del fiasco della fuoriuscita di Londra dall’Unione, è stato un fattore esogeno ad aver rilanciato prepotentemente, negli ultimi mesi, il dossier dell’espansione dell’Ue al di là degli attuali 27 Stati membri: l’invasione russa dell’Ucraina che ha riportato la guerra nel cuore del Vecchio continente. Superando il decennio di “enlargement fatigue”, cioè la fatica da allargamento vissuta dopo l’ultimo ingresso nel blocco, quello della Croazia nel luglio 2013. “L’allargamento è un investimento geo-strategico per la pace, la sicurezza, la stabilità e la prosperità”, hanno ribadito i leader Ue nella dichiarazione finale del summit di Granada. Ma se “gli aspiranti membri dovranno intensificare i loro sforzi di riforma; parallelamente l’Ue dovrà porre le basi per una revisione del suo funzionamento interno”, in modo da farsi trovare pronta all’appuntamento con i nuovi ingressi, prosegue il documento di Granada.
La ripresa del dibattito porta inevitabilmente, quindi, ad aprire un altro fronte: mentre ci interroghiamo, attraverso screening e report (l’ultimo pacchetto allargamento è di novembre 2023), se e quando i Paesi candidati o potenzialmente tali saranno pronti a essere inglobati nel consesso Ue, tocca chiedersi cosa ne sarà dell’Unione stessa che ha mostrato tutti i limiti del suo funzionamento a 27, ostaggio di veti incrociati e procedure bizantine. Insomma – è la tesi -, una riforma dell’architettura istituzionale è imprescindibile per un’Unione in grado di rispondere alla chiamata della storia, e di espandersi non solo geograficamente, ma anche di rendere i propri riti efficaci ed efficienti.
E infatti la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha promesso per inizio 2024 la presentazione di una sorta di roadmap per la riforma dei Trattati, che da molti è vista come un’ipoteca su un suo secondo mandato a palazzo Berlaymont. Per usare le parole pesate con cura dagli stessi leader Ue, la riflessione comincia “dalla capacità di assorbimento di nuovi Stati membri nell’Ue”.
Il tema è tanto procedurale quanto finanziario: ampliare la platea con l’ingresso di una nuova classe di membri avrà delle consegue imponenti sotto vari profili. A cominciare da quelli finanziari: l’Ucraina, si ripete spesso a Bruxelles, diventerebbe di colpo, con il 20% del totale, la principale beneficiaria dei fondi della politica agricola comune, il tradizionale “granaio” del budget Ue. E pure per i fondi di coesione, la coperta, in un’Ue allargata, potrebbe rivelarsi troppo corta, e a farne le spese sarebbero quelle regioni meno sviluppate, tra cui il Meridione d’Italia, che hanno finora ottenuto lo stesso occhio di riguardo degli ultimi entrati dell’Est Europa.
L’orizzonte del 2030 per i prossimi ingressi divide (ancora una volta) il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, che l’ha proposto, e von der Leyen, che invece ha ricordato come il processo di adesione sia “basato sul merito”. Ma al di là delle tempistiche, tornare a parlare di allargamento, come ha (ri)cominciato a fare negli ultimi anni l’Europa unita, vuol dire guardare a un caleidoscopio di situazioni di partenza.
Partiamo dai Balcani occidentali che da tempo bussano alla porta: Serbia e Montenegro hanno aperto svariati capitoli negoziali, Albania e Macedonia del Nord hanno avviato i colloqui; la Bosnia-Erzegovina dovrebbe strappare prima della primavera di quest’anno lo status di Paese candidato, mentre il Kosovo è ancora oggi un potenziale candidato, di fronte alle tensioni tra Pristina e Belgrado, per tenere a bada le quali Bruxelles interviene regolarmente, e al fatto che manca il riconoscimento internazionali di cinque membri Ue.
Il summit di dicembre dei capi di Stato e di governo, con una decisione storica, ha portato con sé il sì all’apertura dei negoziati di ingresso con l’Ucraina e la Moldavia e un passo avanti pure per la Georgia, che ha ottenuto lo status di candidato (come stato, finora, Tbilisi rimane tuttavia una casella indietro agli altri due Paesi dell’ex blocco sovietico in contemporanea ai quali, due anni fa, aveva presentato i dossier).
La svolta è arrivata con un espediente formale per bypassare il veto dell’Ungheria di Viktor Orbán, che ha lasciato la sua sedia vuota per non prendere parte “a una pessima scelta”: l’assenza strategica dell’uomo forte di Budapest che ha consentito di salvare il risultato finale, minaccia però di complicare le prossime tappe, perché per proseguire nell’iter la palla tornerà in svariate occasioni al plenum dei Ventisette, e Orbán potrà decidere in ogni momento di tirare nuovamente il freno a mano.
Proprio ciò che accade a riprese regolari con Orbán, dal dossier migrazione a quello degli aiuti a Kiev, dà il polso dell’imperfezione di un’Ue che decide a Ventisette, e spesso si ritrova ostaggio del no di una sola capitale. “Come pensiamo di far andare avanti a 33 o a 36 una Ue che già dimostra di non funzionare a 27?”, è il più classico degli interrogativi nei corridoi dell’Europa Building durante i sempre più frequenti bracci di ferro con l’Ungheria.
Che l’Ue come la conosciamo non sia pronta ad accogliere nuovi Paesi, ad esempio, è una conclusione a cui arriva il report sulle riforme dell’assetto istituzionale commissionato a 12 esperti indipendenti da Parigi e Berlino, e presentato nel settembre scorso come base per un confronto tra le capitali. “Le istituzioni e i meccanismi decisionali non sono disegnati per un gruppo di 37 Paesi e, così come sono attualmente, rendono difficile perfino per i 27 gestire crisi in maniera efficace e prendere decisioni strategiche”, si legge nel documento, che delinea alcune iniziative per “farsi trovare pronti per un allargamento entro il 2030”.
Tra queste c’è, anzitutto, l’estensione del voto a maggioranza qualificata nei vari ambiti di natura non costituzionale (cioè, altri rispetto alla revisione dei Trattati) in cui oggi vige l’unanimità, come la politica estera, per cui basterebbe far ricorso a una disposizione abilitante, la cosiddetta “clausola passerella”.
Tra le proposte, rientrano poi una semplificazione della composizione della Commissione Ue, superando il principio per cui a ogni Stato corrisponde un membro dell’esecutivo Ue, e un potenziamento delle risorse del bilancio comunitario, da rendere quinquennale, di pari passo con il ciclo politico, anziché, com’è oggi, settennale, e sostenuto da nuove risorse proprie, le modalità di finanziamento dell’azione Ue indipendenti dai contributi finanziari dei singoli Stati.
Sostegno dal paper franco-tedesco è espresso anche all’orizzonte della modifica dei Trattati, ma con la consapevolezza che “ciò possa comportare una differenziazione”: è il ritorno dell’idea di un’Europa a geometria variabile, a due (o più) velocità e a cerchi concentrici, per tenere dentro tutti, ma con diversi gradi di impegno (quattro, in questo scenario). Si va dall’Eurozona a 20 membri o dai 26 dello Spazio Schengen (22 Ue più 4 extra-Ue), all’Unione a 27 che conosciamo oggi, fino a una nuova categoria di “membri associati” che potrebbero, ad esempio, partecipare alle libertà al mercato interno (opzione da proporre al Regno Unito post-Brexit e alla Svizzera, suggeriscono i 12 saggi), e quindi, a chiusura della costruzione, si passa alla Comunità politica europea, il forum di coordinamento politico-strategico continentale lanciato nel 2022, che si estende a tutto il Caucaso e che taglia fuori (perlomeno per ora) Russia e Bielorussia.
Per far funzionare l’integrazione differenziata, il paper franco-tedesco consiglia, ad esempio, la possibilità di prevedere degli “opt-out” negli ambiti più problematici per disinnescare eventuali veti e consentire di andare avanti solo con chi ci sta; fuori dalle possibilità di deroga, però, sarebbe il capitolo relativo allo stato di diritto e dei valori fondamentali. Insomma, l’Europa unita come comunità valoriale e di destino.
Ma dietro questa tentazione, per così dire, euro-realista, si nascondono anche delle insidie. Prendiamo la posizione del governo italiano, che racconta di un delicato mix tra narrativa identitaria e sponda politica per ricalibrare ciò che l’Ue fa e come lo fa. La “parola giusta” per riferirsi al processo non è “allargamento”, ha affermato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni al termine del summit dei leader di fine giugno, ma “riunificazione. L’Unione europea non è un club”. Se accogliere nuovi Stati “richiederà degli aggiustamenti, li faremo”, ma nello spirito del “principio di sussidiarietà”, cioè quello che delimita il perimetro delle competenze e dell’azione dell’Ue, da una parte, e dei suoi Paesi membri, dall’altra, ha avvertito in quell’occasione Meloni.
Rivelando il filo del ragionamento su cui punta la nuova destra Ue, in ascesa nei sondaggi in vista delle europee e con la prospettiva di una decisa affermazione nel prossimo Europarlamento: la scommessa di un’apertura a nuove adesioni è associata all’eventualità di espandere sì i confini geografici dell’Ue, ma, al tempo stesso, di ridurne il raggio d’azione tematico, limitandolo a una serie di compiti ben identificati. Sono i contorni, tutti da definire, della partita sul futuro dell’Europa.
Allargamento, approfondimento o integrazione differenziata. Con le urne del 6-9 giugno in inesorabile avvicinamento, il 2024 sarà una tappa di tutto rilievo nella definizione di che tipo di futuro vuole l’Europa per il suo progetto politico continentale. A 27, a 30, a 33 o a 36 (o persino 37, se calcoliamo pure la Turchia nel lotto dei candidati all’adesione).
Otto anni dopo, la Brexit è un ricordo lontano, e il tempo ha dato – pur con una certa, innegabile amarezza – ragione all’Ue, mettendo a nudo le fragilità di un Regno Unito che fatica a ritrovare la bussola, mentre tra i britannici prevale il rimpianto dei tempi andati.