Riprendere ciò che manca è una sfida. Benché la nomina, nel marzo scorso, dell’argentino papa Francesco sembri aver rafforzato la posizione della Chiesa cattolica in Europa, senza dubbio la maggioranza di chi ha meno di cinquant’anni sosterrebbe che il Vecchio Continente è sempre più ateo o, al massimo, agnostico.
Si tratta di una deriva interessante – anche se in parte compensata dal flusso di immigrati provenienti da nazioni più religiose – nel senso che è un fenomeno che si basa su un’assenza: solitamente si dice che una persona “non è credente” piuttosto che atea, e l’ateismo in sé è definito come l’assenza di fede in qualsiasi genere di dio o divinità.
Parlando più nello specifico di film che propongono una riflessione su ciò che avviene nel mondo di oggi, ci sono innumerevoli pellicole che analizzano ciò che sta accadendo in Europa ma, fatto strano, praticamente nessuna sull’ateismo, proprio perché si tratta di un tema così invisibile.
Dal punto di vista dello sceneggiatore, l’ateismo ha pochi spunti drammatici: l’assenza di fede non può, per esempio, ispirare una crisi religiosa e, se il protagonista decide di diventare ateo, o un ateo comincia a convincersi che forse ci potrebbe essere qualcuno là fuori, a quel punto il film avrà come oggetto la religione tanto quanto l’ateismo.
È improbabile che il titolo “Ateismo” verrà mai girato e, soprattutto, non potrà mai essere una fiction. Ma un fenomeno ancora più strano è che altre pellicole recenti sembrano parlare di religione e abbracciarla, invece a ben guardare sono incentrate su altri temi. Un esempio calzante di questa tendenza – e anche un ottimo film – è Ida, del regista Pawel Pawlikowski, polacco residente in Gran Bretagna che gira per la prima volta nella sua lingua madre.
La storia, narrata in un sobrio bianco e nero, è ambientata nella Polonia comunista degli anni Sessanta, e ha per protagonista Anna (interpretata dal talento emergente Agata Trzebuchowska), una novizia che si sta preparando a prendere finalmente i voti. Il suo mondo viene però sconvolto quando, poco prima di consacrarsi a Dio, la Madre superiora la obbliga a incontrare l’unica sua parente rimasta in vita: Wanda Gruz (Agata Kulesza). Wanda, il cui soprannome è “Wanda la Rossa” ed è stata uno dei magistrati incaricati di inquisire i “nemici dello stato” (eufemismo tipico del periodo comunista), rivela ad Anna che il suo vero nome è Ida e il suo cognome Lebenstein, ed è ebrea.
Viste le premesse, ci si aspetterebbe che il film narri di un’orfana cresciuta in convento e da sempre convinta di essere cattolica, che deve poi affrontare la scoperta di essere in realtà ebrea.
Potenzialmente un ottimo spunto drammaturgico, dal momento che per sentirsi più vicina alla sua famiglia perduta sarebbe costretta ad abbandonare Gesù, pur sapendo che deve la sua sopravvivenza proprio alla carità cattolica. Ma pur trattando anche, e con squisita eleganza, tale tema, non è certo questo il cuore del film. Scritto dal regista insieme a Rebecca Lenkiewicz, ripercorre gli eventi che hanno trasformato la piccola Ida in Anna, spalancando il vaso di Pandora delle atrocità occorse durante l’occupazione nazista della Polonia e il trattamento riservato agli ebrei da parte della popolazione locale.
Quella che in superficie appare come una storia a tema religioso diventa un esempio di come il passato possa tornare a perseguitarti, di come tutto ciò in cui si crede possa essere il risultato di scelte compiute quando si era bambini e beatamente ignari di quel che stava accadendo, e, oltre a ciò, di come un gruppo di individui abbia (mal)trattato un altro in un capitolo oscuro della recente storia polacca, e che finora ha ricevuto poca attenzione.
Ciò che è notevole nel film di Pawlikowski è che riesce a suggerire tutto questo, e anche di più, nonostante la storia parli di una coppia femminile mal assortita: una giovane ingenua e innocente, Anna/Ida, che sta per prendere i voti e divenire una incolpevole reclusa per il resto della sua vita, e una donna magistrato che beve, fuma e bestemmia senza ritegno, e per la quale aver assistito a ogni sorta di umana crudeltà, non l’ha affatto resa migliore.
Osservando questi due personaggi contrastanti, viene da domandarsi se Anna non sarebbe stata più felice nel suo stato di inconsapevolezza, protetta dalla crudeltà del mondo, anche se è impossibile sostenere che sia più giusto per lei non sapere la verità sulla sua famiglia e cosa è accaduto a quelle persone amate ma mai conosciute. È curioso constatare che forse le due donne se la sarebbero cavata meglio da atee, anche se, in quel caso, non avrebbero avuto una storia così interessante da raccontare.
Riprendere ciò che manca è una sfida. Benché la nomina, nel marzo scorso, dell’argentino papa Francesco sembri aver rafforzato la posizione della Chiesa cattolica in Europa, senza dubbio la maggioranza di chi ha meno di cinquant’anni sosterrebbe che il Vecchio Continente è sempre più ateo o, al massimo, agnostico.