Francia: il coronavirus spinge Macron ad aiutare l’Africa con l'intenzione di cancellare il suo debito con l'Europa. Senza perdere di vista Mosca e Ankara
Francia: il coronavirus spinge Macron ad aiutare l’Africa con l’intenzione di cancellare il suo debito con l’Europa. Senza perdere di vista Mosca e Ankara
A sessant’anni dal processo di indipendenza che le portò via le sue colonie africane, la Francia si ritrova oggi in affanno nella grande corsa al continente nero, diventata ormai una gara aperta a tutti e sempre più competitiva, soprattutto ai tempi del coronavirus. Una frenata cominciata negli anni Novanta, quando Parigi ha visto crollare pezzo dopo pezzo quel castello di carte costruito su corruzione e relazioni clientelari con i Governi locali, ribattezzato Françafrique nel 1955 dall’allora Presidente ivoriano Félix Houphouët Boigny e diventato nel tempo l’emblema del neocolonialismo francese.
Il ritardo si rispecchia soprattutto nei rapporti economici e commerciali. Secondo la Compagnia francese di assicurazione per il commercio esterno (Coface) dal 2000 al 2017 le esportazioni transalpine destinate all’Africa subsahariana sono dimezzate, passando dall’11% al 5,5%.
Ma l’Esagono ha anche un problema di immagine. “Francia vattene!” era diventato lo slogan più gridato durante le decine di manifestazioni tenutesi nei mesi scorsi in alcuni paesi come Mali o Burkina Faso in segno di protesta contro Parigi, accusata di continuare a tessere le sue trame coloniali attraverso la presenza militare e l’utilizzo del franco CFA, la valuta simbolo del dominio francese che verrà sostituita dall’Eco.
Eppure, nel discorso tenuto all’università di Ouagadougou nel 2017, a solo sei mesi dalla sua elezione, il Presidente Emmanuel Macron aveva promesso una rottura con il passato dichiarando che “non c’è più una politica africana della Francia”.
“Ci sono fattori, però, che dimostrano come la linea non sia cambiata”, spiega François Gaulme, ricercatore associato presso il centro Africa del think tankIfri. “Le relazioni sono le stesse definite ai tempi del generale Charles de Gaulle: presenza militare, difesa del franco CFA e aiuti allo sviluppo. Si tratta di pilastri che si sono semplicemente evoluti”, spiega Gaulme.
L’arrivo del coronavirus nella regione subsahariana potrebbe mischiare le carte aprendo una nuova fase. Durante il discorso alla nazione pronunciato il 13 aprile in piena emergenza sanitaria, il Presidente Emmanuel Macron ha avuto il tempo di ricordare la situazione dei “vicini d’Africa”, sottolineando il bisogno di annullare “in modo massiccio” il loro debito.
L’inatteso slancio di solidarietà dell’inquilino dell’Eliseo, però, è stato ridimensionato pochi giorni dopo dalla moratoria concessa dal G20 e accettata dal Club di Parigi (associazione che riunisce i principali creditori pubblici del continente), che si limita a sospendere fino alla fine dell’anno, con un possibile proroga, il debito dei 77 Paesi più poveri del mondo, tra cui 40 africani. Una prima tappa, giudicata insufficiente da molte Ong e osservatori, ma emblematica per il suo carattere multilaterale, all’interno della quale l’annuncio di Macron appare più come un’operazione diplomatica. Ancora una volta, il Presidente cerca di ritagliarsi il ruolo di alfiere della causa, alzando la voce in un contesto internazionale dominato da attori ben più influenti.
Prima fra tutti la Cina, che ha accettato la moratoria del G20, sebbene da sola detenga il 40% dei 336 miliardi di euro del debito africano. Mentre i partner occidentali si mostrano indecisi e troppo impegnati nel gestire la crisi all’interno dei loro confini, Pechino rafforza la sua influenza nel continente adottando un approccio a lungo termine basato su strumenti di soft power sanitario applicati da enti pubblici e privati. Una “diplomazia della mascherina” in linea con la politica dei decenni scorsi e che oggi si inserisce nell’ottica del faraonico piano infrastrutturale One Belt, One road, concepito per unire la Cina all’Europa attraverso una serie di collegamenti che passeranno anche dall’Africa.
Dinnanzi a un simile concorrente, la Francia può fare ben poco. Il piano “Covid-19 – Santé encommun” – annunciato da Parigi a inizio aprile – prevede un aiuto sanitario di 1,2 miliardi di euro attraverso l’Agenzia francese per lo sviluppo (Afd), con una prima tranche da 150 milioni di euro sotto forma di donazioni e il restante miliardo erogato attraverso prestiti. Secondo molte Ong come Oxfam France e Medecins du Monde, il progetto porterà ad un incremento del debito dei paesi più poveri senza dare un vero sostegno economico.
Per tornare nel suo ex pre-carré la Francia è quindi costretta a passare per Bruxelles, agendo in linea con l’Unione europea, che a inizio aprile ha garantito ai Paesi più vulnerabili dell’Africa e del resto del mondo più di 20 miliardi di euro sotto forma di “garanzie per prestiti” e fondi già previsti ma “riorientati”, secondo quanto annunciato dall’Alto rappresentante Josep Borrell. “Da anni Parigi utilizza, quando possibile, i soldi per gli aiuti allo sviluppo dell’Ue a favore di progetti o di azioni francesi. È un classico, non è certo Macron ad averlo inventato”, afferma Gaulme.
Una strategia che l’Eliseo sta cercando di adottare anche per uscire dal pantano securitario in cui è finito con Barkhane, l’operazione militare anti-jihadista lanciata nel 2014 al termine della missioneServal, e diventata nel corso degli anni un rompicapo senza soluzione, con un costo in termini economici e di vite umane ormai insostenibile e che rischia di peggiorare dopo i primi casi positivi a Covid-19 riscontrati tra le truppe. Fino ad oggi, il dispositivo ha registrato la morte di più di 40 soldati, con una spesa complessiva di 600 milioni di euro all’anno. La questione militare del Sahel in questi ultimi anni ha assorbito tutte le energie di Parigi, che potrebbe approfittare dell’emergenza coronavirus per cambiare veste, passando dall’essere “gendarme” a “medico” dell’Africa.
Sebbene abbia incrementato gli effettivi portando a 5.100 il numero di soldati presenti sul territorio, il Presidente Macron vuole ridurre lo sforzo chiedendo aiuto alla comunità internazionale. La task forceTakuba, lanciata a fine marzo da Parigi insieme ad altri cinque Paesi europei (Danimarca, Portogallo, Belgio, Paesi Bassi, Estonia), è un primo passo – seppur simbolico visti gli scarsi mezzi a disposizione – verso un alleggerimento di Barkhane, che intanto ha visto confermarsi anche l’appoggio logistico di Stati Uniti e Regno Unito.
A fine aprile, l’Unione europea ha accordato un finanziamento di 194 milioni di euro ai Paesi membri del G5 Sahel, il dispositivo militare congiunto tra Mali, Niger, Burkina Faso, Mauritania e Ciad attivo a sostegno delle truppe francesi, aprendo inoltre il dibattito sulla possibile cancellazione del debito del continente. Bruxelles ha poi lanciato ufficialmente la Coalizione per il Sahel annunciata a gennaio al vertice di Pau con l’obiettivo di ampliare il quadro di Barkhane includendo nuovi attori nella lotta al terrorismo.
Ma la Francia si trova impegnata in una delicata partita anche nello scacchiere libico. L’autoproclamazione del generale Khalifa Haftar a “capo” della Libia, avvenuta il 27 aprile scorso tramite un pomposo annuncio televisivo, ha spiazzato l’intera comunità internazionale, in particolar modo il club dei suoi sponsor che, oltre a Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, conta Parigi come membro non ufficiale. L’Eliseo sostiene ufficialmente il Governo di accordo nazionale (Gna) guidato dal premier Fayez al-Serraj e riconosciuto dall’Onu, ma sottobanco appoggia l’uomo forte della Cirenaica, finito spalle al muro da quando la Turchia si è posizionata al fianco di Tripoli.
Mantenendo il solito atteggiamento ambiguo, la Francia si è unita al coro di condanne internazionali partito in seguito alla dichiarazione di Haftar, seppur con toni pacati, tramite una nota del Ministero degli Esteri. Un gesto formale, a cui è seguito l’invio di tre caccia francesi che hanno sorvolato a bassa quota e senza autorizzazione la zona da Abu Ghrein a Sirte, nella Tripolitania, sopra alcune delle zone più sensibili del conflitto. Un gesto forte e denunciato a gran voce dal Gna.
In questo contesto, Macron punta a riacquistare influenza nel dossier per contenere Ankara e Mosca, diventati ormai i due attori centrali in Libia, ma anche per far riaprire i pozzi di petrolio bloccati dalle truppe di Haftar. Una sfida resa ancora più difficile dal contesto di crisi sanitaria provocata dal coronavirus.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di giugno/luglio di eastwest.
A sessant’anni dal processo di indipendenza che le portò via le sue colonie africane, la Francia si ritrova oggi in affanno nella grande corsa al continente nero, diventata ormai una gara aperta a tutti e sempre più competitiva, soprattutto ai tempi del coronavirus. Una frenata cominciata negli anni Novanta, quando Parigi ha visto crollare pezzo dopo pezzo quel castello di carte costruito su corruzione e relazioni clientelari con i Governi locali, ribattezzato Françafrique nel 1955 dall’allora Presidente ivoriano Félix Houphouët Boigny e diventato nel tempo l’emblema del neocolonialismo francese.
Il ritardo si rispecchia soprattutto nei rapporti economici e commerciali. Secondo la Compagnia francese di assicurazione per il commercio esterno (Coface) dal 2000 al 2017 le esportazioni transalpine destinate all’Africa subsahariana sono dimezzate, passando dall’11% al 5,5%.
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica