Le nostre società, la politica e l’economia sono dominate dal dinamismo e dal potere transnazionale delle Big Tech. Come regolamentare dati e criptovalute?
Come si governa il mondo?, si chiedeva Parag Khanna in un saggio del 2011. Oggi verrebbe da rispondere: con i dati. “Attori non statali diventeranno più potenti degli Stati nazionali”, scriveva il politologo indiano-statunitense. Una profezia divenuta realtà con la crescita delle aziende tecnologiche americane – Google, Amazon, Facebook e Apple, note collettivamente come GAFA –, capaci ormai di influenzare la politica, l’economia e le società a un livello transazionale.
Mentre la Cina ha preferito creare le proprie Big Tech in casa – Alibaba, Baidu, Tencent – l’Unione Europea ha tentato di regolamentare lo strapotere delle GAFA attraverso indagini e multe che hanno spesso inseguito l’obiettivo di favorire la concorrenza e l’innovazione attraverso una politica difensiva: spezzare cioè la concentrazione di dati e di market power delle Big Tech statunitensi. Si è invocato un nuovo Sherman Antitrust Act per i big data, spesso descritti come il “nuovo petrolio”. Un’analogia che funziona solo in parte: un barile di greggio ha un certo prezzo, ma chi saprebbe assegnare un valore preciso a un volume di dati? Pensiamo però alla diffusione di Internet, degli smartphone e dei social media. Nel 2018 ci sono stati 5,1 miliardi di utenti mobile al mondo, oltre 100 milioni in più rispetto all’anno precedente; ci sono stati 4,3 miliardi di utenti Internet (366 milioni in più del 2017) e 3,4 miliardi di utenti sulle piattaforme social (un incremento di 288 milioni). È lo scenario ricostruito dall’ultima indagine di We Are Social e ci dice, in sostanza, che il mercato dei dati è appetibile perché è enorme. Proprio come enorme è il potere delle GAFA.
Dal grande potere delle Big Tech derivano grandi paure per gli Stati. Sorgono preoccupazioni legate sia alla sicurezza che alla tutela della privacy dei cittadini, così come al benessere delle aziende nazionali, minacciate dalla concorrenza dei giganti stranieri. Ed ecco che i Governi tendono allora a evitare di rivolgersi a fornitori esteri per lo sviluppo di tecnologie e infrastrutture critiche (pensiamo al caso Huawei). Oppure ad approvare norme stringenti sulla raccolta e l’utilizzo dei dati personali. Oppure, ancora, a innalzare barriere economiche quasi protezionistiche: cosa dobbiamo aspettarci dalla “sovranità tecnologica” annunciata da Ursula von der Leyen per l’Europa? Non dimentichiamo che l’innovazione si fonda sulla cooperazione: muri e restrizioni di vario tipo le sono di ostacolo. E l’innovazione è inarrestabile.
Il rapporto tra Stati e grandi aziende tecnologiche è un tema centrale nella geopolitica contemporanea. Il caso di Libra, la criptovaluta annunciata da Facebook, costituisce un ottimo esempio. Finché si parlava di bitcoin e di altri token etichettati come anarchici e insurrezionali, persisteva un certo scetticismo istituzionale nei confronti del mondo delle criptovalute. Ma da quando Facebook e la sua schiera di super-partner hanno parlato di Libra, gli Stati e le istituzioni di tutto il mondo hanno iniziato a prendere la questione davvero sul serio. Il tema dei pagamenti digitali e in particolare delle criptovalute è principalmente un problema di sovranità monetaria, che coinvolge direttamente il potere statale e quello delle banche centrali. Non sarà semplice governare il processo, ma l’adattamento sarà più probabile se pubblico e privato decideranno di cooperare, anziché combattersi.
I fatti stanno confermando che la strada verso Libra è tortuosa ma percorribile. Ventisei banche centrali nel mondo – tra cui FED, BCE e Bank of England – vogliono prima di tutto interrogare i responsabili di Libra per indagare le possibili conseguenze sulla stabilità dei mercati finanziari. Tra i nemici di Libra c’è uno Stato su tutti: la Francia. Per il Ministro delle Finanze, Bruno Le Maire, la moneta battuta da Mark Zuckerberg è “destabilizzante” e non deve varcare la porta d’ingresso dell’Europa. Il Ministro ha anche espresso il timore che Libra possa violare le norme anti-terrorismo francesi e rappresentare un modo di finanziare gruppi sovversivi eludendo le normative nazionali e internazionali. Nonostante queste critiche – condivise da molti, anche altrove –, utenti di tutto il mondo immaginano che fra pochi anni potranno disporre, comodamente sul proprio smartphone, delle app di Facebook per soddisfare ogni bisogno e desiderio: Messenger e WhatsApp per i messaggi; Instagram e Facebook per condividere contenuti e accedere alle informazioni; Calibra (la società dietro la criptovaluta) per fuggire dagli onerosi conti correnti delle banche tradizionali e poter scambiare e spendere denaro con un semplice click.
La regolamentazione delle criptovalute non è facile per il legislatore, costretto a inseguire l’innovazione tecnologica che viaggia sempre più veloce della giurisprudenza. Libra sottopone problemi connessi alla sovranità monetaria, alla privacy e alla posizione di dominanza dei mercati da parte di Facebook – solo per citarne alcuni. Estendendo il discorso, nell’ultimo periodo si è parlato – sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea – di rischi e di pericoli per i “consumatori digitali” (che poi sono i veri “produttori” dei dati) e, di conseguenza, anche degli urgenti interventi che le autorità di regolazione dovrebbero realizzare per limitare il potere di mercato delle GAFA. Ma è sempre consigliabile riflettere molto bene prima di agire. Anche perché il settore tecnologico è estremamente dinamico, tende a evolvere velocemente e i monopoli cambiano con la stessa velocità: le attuali Big Tech hanno rafforzato la loro posizione da pochi anni, e non è detto che rimarranno dominanti per sempre. Basti pensare all’ex-gigante Yahoo! scalzato da Google, una vicenda che tra l’altro dimostra quanto centrale sia l’innovazione nel determinare il successo di un’azienda rispetto a un’altra. E dunque, per quanto sia certamente opportuno evitare i rischi dell’under-enforcement della legge antitrust nei mercati digitali, allo stesso tempo è anche auspicabile evitare casi di over-enforcement a discapito di quelle piattaforme digitali che intraprendono investimenti consistenti per innovare e per promuovere rapidamente il benessere dei consumatori.
Regole troppo stringenti e standard troppo elevati per quanto riguarda, ad esempio, la gestione dei dati o il monitoraggio dei contenuti pubblicati sulle piattaforme, potrebbero paradossalmente avere l’effetto di rendere le Big Tech ancora più forti, invece che stimolare la concorrenza. Lo spiegava anche l’Economist: il rispetto di queste regole potrebbe risultare talmente costoso che solo una manciata di aziende, quelle più grandi, potrà permetterselo. Ad orientare le scelte dei regolatori deve allora essere, sempre e comunque, la qualità dei servizi. Ed è importante che le autorità di regolazione ricordino i benefici apportati dalla digitalizzazione dell’economia, che invece vengono spesso dati per scontati.
In riferimento poi alla grande raccolta di dati personali, non sembra efficace utilizzare gli strumenti antitrust tradizionali, che ad esempio – come è stato suggerito – potrebbero comportare la messa a disposizione dei dati detenuti dal soggetto più forte a favore dei concorrenti. I dati personali “appartengono” infatti alla persona alla quale si riferiscono, che ha il diritto di controllarne liberamente l’utilizzo. Ad aggiungere (necessaria) complessità alla questione, bisogna tener conto anche del fatto che i rapporti tra concorrenza e privacy non sono univoci: per il singolo utente, cioè, la rinuncia alla privacy porta a un maggiore consumer welfare, a prodotti migliori e a prezzi bassi. Non bisogna demonizzare i modelli di business che sfruttano i dati: finché questi ultimi vengono usati per scopi meramente commerciali, non c’è ragione di allarmarsi troppo. Preoccupazioni che invece possono – e devono – sorgere in caso di utilizzi extra-commerciali, dove si rischia un impatto negativo sul social welfare e sulla privacy collettiva (vedi il caso Cambridge Analytica).
@ginammi
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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