La centralizzazione dei dati nazionali sulle avvenute vaccinazioni è un grande obiettivo, complesso sul piano manageriale, diplomatico e geopolitico
Nei corridoi dell’Unione europea c’è la preoccupazione che questo autunno si possa riaffacciare una disordinata sospensione della libera circolazione tra Paesi europei. Il worst case scenario, infatti, è che con il crescente diffondersi della variante delta, singoli paesi possano nuovamente ripiegare sulla chiusura dei confini. Il best case scenario, invece, è che nei mesi a venire funzioni in maniera ottimale lo strumento adottato anche per non interrompere più la libera circolazione europea: l’EUDCC – EU Digital COVID Certificate, noto soprattutto in Italia come Green Pass. Formalmente soluzione molto pratica, la certificazione verde si sta applicando tra molteplici complessità in termini di ritmo vaccinale, applicazioni nazionali, incognite mediche e risvolti geopolitici.
L’EUDCC – EU Digital COVID Certificate è stato introdotto ufficialmente nell’Unione europea lo scorso 1 luglio, anche per favorire al più presto il turismo interno all’Unione. La certificazione ha due effetti principali: permette maggior libertà nella vita quotidiana all’interno delle singole nazioni e permette facili spostamenti anche tra i vari Paesi Ue. Ai Paesi dell’Unione si aggiungono anche Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera.
La certificazione segue quella che nei Paesi in lingua tedesca viene chiamata formula delle “3 G”: Geimpft (vaccinati), Getestet (testati) o Genesen (guariti). Il ruolo principale della certificazione, tuttavia, è progressivamente quello di attestare la prima “G”, cioè la vaccinazione con uno dei 4 vaccini approvati dall’EMA (European Medicines Agency): Vaxzevria (Oxford-AstraZeneca), Comirnaty (Pfizer-BioNTech), Spikevax (Moderna) o Janssen (Johnson & Johnson). I QR code della certificazione vengono generati dai singoli servizi sanitari nazionali e si basano su applicazioni con nomi diversi in ogni Paese, ma sono riconosciuti in tutta l’Ue. La centralizzazione dei dati sulle avvenute vaccinazioni non è completa, come dimostrano le difficoltà riscontrate dai cittadini che abbiano fatto prima e seconda dose in due Paesi Ue differenti. Particolarmente complessa è stata anche la trattazione di chi si è trovato tra la condizione di guarito e, quindi, vaccinato con una sola dose. In ciascun Paese sono emerse problematiche fisiologicamente legate alla gestione burocratica di un sistema complesso creato in tempi molto brevi.
Un’applicazione molto eterogenea
L’uso della certificazione verde nella regolamentazione della vita quotidiana nelle singole nazioni resta molto eterogeneo.
In Francia, Emmanuel Macron ha cercato di rendere il Paese avanguardia nella regolamentazione tramite il passe sanitaire, ma ha inizialmente incontrato molte resistenze da parte di una minoranza molto rumorosa di novax e gruppi contrari alla certificazione. Da agosto il passe è ora necessario per accedere a spazi pubblici (musei, cinema, teatri e luoghi con più di 50 persone), bar e ristoranti (anche all’aperto) e per poter viaggiare in treni a lunga percorrenza o voli aerei interni. Altri Paesi che stanno applicando estensivamente la richiesta della certificazione per accedere soprattutto a bar e ristoranti, palestre, musei, centri estetici e altri spazi comuni sono Austria, Danimarca, Portogallo, Grecia e Irlanda. In Italia, Lettonia e Lituania non c’è ancora obbligatorietà di Green Pass nei ristoranti e nei bar all’aperto. Molto meno rigorose sono per ora le regole in stati come Paesi Bassi, Ungheria, Cipro, Malta, Svezia, Bulgaria, Croazia. In Germania la certificazione è stata inizialmente applicata con la classica cautela federale, ma la regola delle “3G” è ora obbligatoria su scala nazionale. Qualcosa di simile è accaduto in Spagna, dove le iniziative sono state in principio dei Governi regionali. Lo scenario qui descritto è tuttavia in continua e frammentata mutazione e i singoli Stati europei stanno aggiornando spesso le proprie decisioni.
L’applicazione molto eterogenea dell’uso dei certificati nei vari Paesi è rilevante nella dimensione in cui regole differenti potrebbero eventualmente favorire in alcune aree il diffondersi dei contagi di una terza/quarta ondata, rendendo ancora più disorganico l’andamento dell’epidemia all’interno dell’Unione. Ancora più decisiva in questo senso potrà essere anche la persistente disomogeneità nei ritmi di vaccinazione all’interno dell’Ue. Secondo i dati ECDC, nella penultima settimana di agosto il tasso di vaccinazione totale tra tutti gli abitanti adulti (18+) dei paesi EU-EEA è del 75% (almeno una dose) e del 65% (due dosi). Le differenze tra i vari Paesi sono però significative, e non solo perché alcuni Paesi hanno attivamente scelto di concentrarsi più sulle prime dosi che sulle seconde. Paesi come Malta (95% abitanti 18+ completamente vaccinati), Belgio (82%) e Portogallo (81%) sono molto avanti nelle campagne vaccinali. Paesi come Italia, Francia e Germania hanno comunque vaccinato a ritmi molto elevati (e sono tutti nei pressi della soglia del 70% di completa vaccinazione dei cittadini adulti). Ci sono però Paesi Ue come Slovenia, Slovacchia, Croazia, Lettonia, Romania e Bulgaria che sono parzialmente o profondamente indietro nelle campagne di vaccinazione (tutti sotto al 50% di popolazione 18+ vaccinata completa, in Romania solo il 31% ha ricevuto due dosi e in Bulgaria meno del 20%).
Per questa differenza ci sono diverse motivazioni, tra cui un forte scetticismo e una maggiore avversione sociale verso i vaccini nei Paesi dell’Europa centro-orientale. Non va però ignorato come i due paesi in coda alla classifica dei vaccini siano anche tra quelli meno ricchi di tutta l’Unione. Mentre alcuni Paesi europei già parlano di terza dose, altri non hanno quindi ancora completato le prime fasi della campagna. Se a questo scenario si sovrappone l’incognita oggettiva di varianti Covid che non sono completamente contenute dalle vaccinazioni, lo strumento della certificazione unica europea necessiterà inevitabilmente di ulteriori aggiornamenti e sforzi di management.
La certificazione nel resto del mondo
Continuano inoltre a essere argomento di dibattito le laceranti differenze tra le certificazioni europee e lo status di altri continenti di fronte alla pandemia. Se Paesi come Giappone, Stati Uniti, Regno Unito, Israele e Australia hanno forme (più o meno elaborate) di certificazione e sarà eventualmente possibile creare dei coordinamenti futuri, un’ampia parte del resto del globo non possiede alcun Green Pass.
L’Oms − Organizzazione mondiale della sanità − mantiene significativamente una posizione ambigua sulle certificazioni anti-Covid e sul loro uso per gli spostamenti internazionali. Già a marzo, nel documento “Interim guidance for developing a Smart Vaccination Certificate”, l’Oms ha sottolineato che i certificati dovrebbero rispettare anche standard di equità e accessibilità. Come mostra un’infografica continuamente aggiornata del New York Times, l’82% delle dosi di vaccino finora somministrate sono andate ai Paesi ad alto e medio-alto reddito, mentre solo lo 0,3% delle dosi sono state somministrate a paesi a basso reddito. Nazioni capaci di far sentire la propria voce come l’India stanno da tempo spingendo per il riconoscimento da parte delle dogane Ue delle vaccinazioni con i vaccini indiani Covaxin e Covishield (quest’ultimo ora accettato da una parte dei paesi Ue). Simili richieste vengono fatte da altri paesi, ad esempio in merito al vaccino russo Sputnik. Ma il continente africano, che ha attualmente una copertura vaccinale inferiore al 7% della popolazione, si è invece espresso tramite l’African Union, dichiarando tout court che i certificati digitali anti-Covid favoriscono le diseguaglianze a lungo termine.
Contando che la pandemia resta fenomeno globale che pone sfide proibitive a tutta la popolazione umana, il Green Pass europeo si dimostra quindi strumento tanto necessario in termini di realpolitik sociale ed economica quanto complesso sul piano diplomatico e geopolitico.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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L’EUDCC – EU Digital COVID Certificate è stato introdotto ufficialmente nell’Unione europea lo scorso 1 luglio, anche per favorire al più presto il turismo interno all’Unione. La certificazione ha due effetti principali: permette maggior libertà nella vita quotidiana all’interno delle singole nazioni e permette facili spostamenti anche tra i vari Paesi Ue. Ai Paesi dell’Unione si aggiungono anche Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera.