La Germania ha favorito lo sviluppo dell’Europa orientale ma oggi, con crescita economica e nazionalismi, l’Europa dell’est guarda a Occidente ma non all’Unione Europea
Nel 2018 il Pil dell’Ue nel suo complesso è aumentato del 2%. Quello della Polonia del 5,1%, poco più del Pil ungherese (+4,9%), lettone (+4,8%) o sloveno (+4,5%). La Slovacchia è cresciuta del 4,1%, l’Estonia del 3,9%, la Lituania del 3,5% e la Cechia del 3%. Un caso? Nel 2013 il rapporto tra l’aggregato europeo e la regione dal Baltico ai Carpazi era simile, anche se in un quadro macroeconomico più negativo: il Pil dell’Ue aumentava appena dello 0,3%, ma la crescita nei tre Paesi Baltici viaggiava sul 2-3%, a Budapest era del 2,1% e a Varsavia del 1,4%. Addirittura nel 2008, a fronte di un modesto +0,5% a livello europeo, l’economia ceca cresceva cinque volte tanto e quella polacca otto. Pur con le normali accelerazioni e rallentamenti, crisi locali e boom effimeri, i Paesi dal Baltico alla Mitteleuropa hanno registrato tassi di crescita nel complesso strepitosi da quando sono entrati nell’Ue. Un successo che ha radici profonde, qualche ombra e conseguenze politiche rilevanti.
Tra le radici del boom vi è sicuramente il fatto che in questa regione le comunità locali e nazionali hanno avuto una forte esperienza statuale, seppure a volte compressa in sistemi di Governo plurinazionali. L’Impero Asburgico è stato per secoli un modello di buona amministrazione e la sua eredità positiva si sente tanto nel lombardo-veneto italiano quanto in Cechia, Croazia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. D’altronde basta passeggiare per le strade di Praga, Budapest o Bratislava, per riconoscere una certa cura del bene pubblico. Più a nord, le città del Baltico facevano parte della fiorente Lega Anseatica già dal tardo medioevo e per secoli hanno sviluppato il commercio dalla Finlandia alla Manica in un’ottica mercantilista, cooperativa e rispettosa delle autonomie locali che si autogovernavano con cura della propria comunità.
Cosa c’entrano l’Impero Asburgico e la Lega Anseatica con il Pil dell’Europa centro-orientale nel terzo millennio? C’entra la base culturale e sociale che rende un’amministrazione pubblica efficiente, una società propensa agli investimenti strutturali e di lungo periodo, una comunità pronta a interagire con i vicini – specie quelli occidentali e nordici – e che garantisce un certo senso dello stato e della nazione come collettività. Anche in nazioni che per lungo tempo non hanno avuto un’espressione statuale indipendente, come la Polonia, tale base era così solida da resistere alle dominazioni straniere mantenendo un terreno fertile per la fioritura socio-economica dell’ultimo ventennio. Non è un caso che durante la Guerra Fredda i movimenti di riforma e di protesta contro l’occupazione sovietica siano nati a Danzica, Budapest e Praga, e non in Romania o Bulgaria, che avevano tutt’altra storia di secolare dominazione ottomana.
Caduto il Muro di Berlino, su questo terreno fertile si sono innescate due dinamiche uniche e fortemente positive. Da un lato una leadership locale determinata a tornare parte dell’Occidente a tutti gli effetti, dall’economia di mercato alla democrazia liberale, all’integrazione in Ue e Nato, ha guidato saldamente questi Paesi negli anni ’90 e 2000. Da tale leadership è venuto un grande sforzo di avvicinamento non solo all’Europa continentale ma anche al mondo anglosassone, con una parte significativa della nuova classe dirigente che è andata negli Usa, Uk, e ovviamente in Germania e altrove in Occidente, per poi tornare con esperienze, idee e network.
Dall’altro lato, la ferma volontà occidentale di re-integrare i cugini a est della Cortina di Ferro e restringere stabilmente l’area di influenza russa. Sia l’Ue che la Nato hanno forzato regole e prassi interne per correre ad allargarsi a oriente, approfittando della temporanea fase di debolezza di Mosca. Questa corsa ha portato nei Paesi di nuova adesione stabilità politica, drastiche riforme liberali e democratiche, pieno adeguamento normativo al acquis communitaire, e accesso al ricco mercato Ue. Una trasformazione che ha attratto gli investimenti privati esteri, con le aziende americane che hanno aperto in loco poli tecnologici o logistici – ad esempio in Polonia – e con il sistema industriale tedesco che ha de-localizzato e/o acquisito stabilimenti nel vicinato orientale integrandolo così nella propria catena dei fornitori, e facendone un mercato d’elezione per i prodotti finiti. Molto positiva anche l’espansione a est del sistema bancario e assicurativo occidentale, in particolare tedesco e italiano, che ha contribuito a fornire la liquidità necessaria per investimenti che hanno dato i loro frutti. L’ingresso nell’Ue ha anche permesso l’emigrazione della manodopera in eccesso da est a ovest – da cui lo stereotipo nord europeo dell’“idraulico polacco” – che è diventata a sua volta fonte di rimesse in patria, e ha favorito il flusso turistico in senso contrario, con le capitali della regione a portata di voli low cost. Non da ultimo, entrare nell’Ue con un livello di reddito più basso degli altri membri ha comportato forti investimenti tramite fondi Ue, vero motore di crescita nei piccoli Stati della regione. Basti pensare che dal 2004 il Pil ungherese cresce maggiormente nella fase centrale del bilancio settennale dell’Ue, quando si spendono più fondi europei di cui Budapest è grande beneficiaria, e rallenta nell’ultimo anno del settennato finanziario quando tale spinta propulsiva rallenta prima che parta un nuovo ciclo di finanziamenti.
La Germania ha avuto un ruolo importante in tutto ciò. Per la prima volta dai tempi della Prussia, Berlino ha visto la possibilità di essere circondata solo da Paesi amici e l’ha perseguita con costanza. Dal lato politico-istituzionale, con l’allargamento di Nato e Ue chiudendo un occhio su eventuali mancanze dei cugini orientali. Dal lato economico, con l’integrazione industriale, finanziaria e di mercato. Un doppio abbraccio che ha protetto la crescita dell’Europa centro-orientale, beneficiando al contempo anche l’economia e la sicurezza tedesca.
Ma non è tutt’oro quel che brilla a est di Vienna. La crescita economica si è costruita anche con un certo dumping sociale rispetto ai sistemi di welfare e quindi di tassazione dell’Europa occidentale. Il basso costo del lavoro e la leggera pressione fiscale sulle imprese, caratteristiche diffuse nella regione pur con specificità nazionali, hanno sì attratto investimenti, ma hanno anche creato disparità socio-economiche, ed hanno limitato la capacità del bilancio pubblico di re-distribuire la ricchezza prodotta aiutando così chi era rimasto indietro. Un quadro socio-economico quindi con molte luci ma anche alcune ombre, criticità e fragilità. Quadro a cui si è aggiunto un certo spaesamento socio-culturale per i vorticosi cambiamenti avvenuti in pochi anni, che in alcune classi sociali o anagrafiche, o in certe zone, può facilmente indurre paura per il futuro e desiderio di protezione a livello nazionale. Protezione che ben si sposa con la memoria di una statualità e nazionalità forti e radicate, e di un’oppressione straniera che non si vuole ripetere – tanto che ben pochi nella regione hanno voglia di aderire all’euro rinunciando così alla propria sovranità monetaria.
Questo articolato contesto economico, sociale e culturale, contribuisce a spiegare l’affermazione di partiti nazionalisti in Polonia o Slovacchia, e lo spostamento a destra di una forza politica di centrodestra come quella di Viktor Orbán – tutt’ora parte del Partito popolare europeo. Un trend paradossale nella misura in cui critica quell’Ue che è stata la pietra di volta dello sviluppo economico di tutta l’Europa centro-orientale negli ultimi 15 anni. Un trend che ha dato più di un dispiacere a Berlino, che dopo aver aiutato e protetto la crescita economica nella regione, si è trovata i Paesi di Visegrad a bloccare diversi dossier europei, a partire dal ricollocamento dei migranti, e i Paesi Baltici a guardare più all’Atlantico che al Reno in chiave di protezione dalla Russia. Comunque sia, un trend con cui fare i conti politicamente. E i conti fatti dopo le ultime elezioni europee hanno ridimensionato la rappresentanza di questo pezzo d’Europa nella governance Ue, poiché il polacco Donald Tusk è stato sostituito dal belga Charles Michel alla presidenza del Consiglio Europeo, e il puzzle delle altre cariche è stato risolto tutto a ovest di Vienna tra Germania, Francia, Italia e Spagna, su iniziativa proprio di quella Berlino protettiva ora infastidita dalle recenti posizioni di Visegrad. Si tratta di un equilibrio delicato, che necessiterà un’accorta gestione per ricomporre le divergenti traiettorie economiche e politiche in un quadro Ue sufficientemente funzionale e coeso. “Uniti nella diversità” è il motto dell’Ue, e non potrebbe essere diversamente in un continente così ricco di storia, culture e autonomie, che rappresentano motivi di tensione ma anche potenzialità di sviluppo.
@Alessandro__Ma
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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La Germania ha favorito lo sviluppo dell’Europa orientale ma oggi, con crescita economica e nazionalismi, l’Europa dell’est guarda a Occidente ma non all’Unione Europea