La ripresa dell’arricchimento di uranio da parte dell’Iran preoccupa soprattutto per la prevedibile corsa al nucleare delle altre potenze regionali
Pochi mesi, forse un anno e l’Iran disporrà del materiale fissile sufficiente a realizzare la sua prima bomba atomica? Da quando, il 6 gennaio scorso, l’Iran ha annunciato la ripresa “senza limiti” dell’arricchimento dell’uranio, le valutazioni sulla tempistica necessaria a Teheran per completare un programma nucleare iniziato nel 1967 con la cooperazione degli Usa (donarono allo Scià un reattore nucleare sperimentale da 5 MW) si fanno sempre più allarmistiche.
I più preoccupati, ma anche i più interessati a ingigantire il rischio della “bomba” iraniana sono i servizi di sicurezza statunitensi e israeliani che all’epoca della firma del Trattato sul programma atomico (JCPoA) valutavano mancassero solo due mesi all’Iran per disporre del materiale fissile necessario a realizzare un ordigno atomico.
Benyamin Netanyahu ha illustrato in più occasioni le conclusioni dei rapporti dell’intelligence che evidenziavano come all’Iran mancasse poco per dotarsi di ordigni atomici e come tali ricerche continuassero anche all’ombra del JCPoA, firmato nel 2015 e denunciato dall’amministrazione Trump nel maggio 2018. Allarmismi però puntualmente smentiti dalle ispezioni effettuate dai tecnici dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) che hanno sempre certificato il rigoroso rispetto del trattato da parte di Teheran.
A incoraggiare la ripresa del libero arricchimento dell’uranio non ha contribuito solo la posizione assunta da Washington e l’omicidio a Baghdad del generale Soleimani ma anche la consapevolezza che l’Europa, al di là delle parole, non è in grado o non ha la volontà di opporsi agli Usa i quali hanno annunciato sanzioni a quei Paesi (anche alleati) che continueranno a comprare gas e petrolio dall’Iran.
Il Direttorato per l’intelligence militare di Israele (Aman) valuta che l’Iran potrebbe avere abbastanza uranio arricchito per costruire una bomba atomica entro il 2020 ed entro altri 1/2 anni potrebbe realizzare testate nucleari per i suoi missili balistici. La stima si basa sulla valutazione che Teheran dispone di un numero di centrifughe sufficiente (in seguito al JCPoA molte sono state fermate, non distrutte) a produrre 1300 kg di uranio arricchito in bassa percentuale dai quali poter ottenere 25 kg di uranio altamente arricchito. Altre valutazioni elaborate dall’intelligence e filtrate alla stampa israeliana stimano che entro fine 2020 l’Iran potrebbe disporre di 40 kg di uranio arricchito al 90% necessario a produrre almeno una bomba atomica. Inoltre, la riattivazione del sito per l’arricchimento di Fordow, situato vicino a Qom nel sottosuolo, al riparo da attacchi missilistici, viene considerato da alcuni la conferma che l’Iran punta decisamente a dotarsi della “bomba”.
“Arricchire senza limiti vuol dire solo che si vuole avere il combustibile per un impiego militare dell’uranio, ovvero una bomba atomica, che però non sarà pronta prima di qualche mese” ha detto in una recente intervista all’AGI Emilio Santoro, fisico che ha diretto per anni il reattore di ricerca dell’Enea a La Casaccia.
Non tutte le valutazioni sono così allarmistiche. L’AIEA ha riferito che l’Iran ha ripreso la produzione di uranio arricchito al 4,35%, oltre il limite del 3,67 previsto dall’accordo del 2015, e che aveva accumulato circa 550 kg di esafluorurodi uranio, il composto impiegato nei processi di arricchimento, superando il limite fissato a 300 kg ma ha sottolineato che solo poche centinaia di centrifughe vengono finora impiegate. Secondo Arms Control Association l’attuale percentuale di arricchimento non rappresenta un rischio di proliferazione a breve termine e non avrà un impatto immediato sul tempo necessario all’Iran a dotarsi della “bomba”. Massimo Zucchetti, ingegnere nucleare del Politecnico di Torino che ha preso parte alle trattative del JCPoA ha espresso, in una recente intervista, la convinzione che l’Iran sia “lontanissimo dallo sviluppo di un’arma nucleare” aggiungendo che un simile tipo di arma necessiterebbe “di vettori missilistici e di tutta una tecnologia a latere”.
Il tema delle capacità iraniane di trasformare un ordigno atomico in un’arma impiegabile e di disporre dei vettori balistici dotati di testate atomiche è anche molto dibattuto ed è al centro delle pretese Usa di rinegoziare l’accordo del 2015 imponendo all’Iran la rinuncia ai missili balistici. Circa le capacità di “weaponizzare” un ordigno atomico non va dimenticato che l’Iran ha collaborato in passato con Corea del Nord e Pakistan: la prima è accreditata di un arsenale con stimati 20-30 ordigni e avrebbe già sviluppato la capacità di miniaturizzazione necessaria a realizzare testate missilistiche nucleari mentre il Pakistan dispone da anni di un arsenale di oltre 150 testate atomiche imbarcabili sui missili balistici.
Tenuto conto che i missili balistici pachistani, come gli Shahab iraniani, sono in buona parte derivati dai Nodong nordcoreani è possibile ipotizzare che la cooperazione tra i tre Stati, risalente agli anni ’90, abbia permesso anche all’Iran di acquisire tecnologie per lo sviluppo di testate atomiche. Dettagli rilevanti circa la cooperazione trilaterale nucleare e missilistica gestita dallo scienziato pachistano Abdul QadeerKhan (uno dei “padri” dell’atomica di Islamabad) emersero nel 1998 in seguito alle controverse rivelazioni di Iftikhar Khan Chaudry, ingegnere pakistano che fuggì negli Usa chiedendo asilo politico.
Nonostante i programmi di sviluppo di missili balistici a lungo raggio finora l’Iran ha messo in servizio solo armi a medio raggio, accreditate di un raggio d’azione al massimo di circa 2mila km. Una distanza sufficiente a colpire tutto il Medio Oriente e Israele ma non da costituire una minaccia diretta per gli Usa, a differenza dei nuovi missili Hwasong-15 testati dalla Corea del Nord in grado di raggiungere tutto il Nord America. Le forze missilistiche, schierate su lanciatori mobili occultati in basi sotterranee, sono sempre state considerate “non negoziabili” da Teheran che le ritiene l’unico suo deterrente per scoraggiare attacchi esterni poiché sono per loro natura vettori di armi di distruzione di massa (i missili iraniani dispongono già di testate chimiche).
Non è un caso che i regimi abbattuti con le armi dagli Usa e dai loro alleati, quello iracheno di Saddam Hussein e quello libico di Muammar Gheddafi, avessero entrambi rinunciato a disporre di armi di distruzione di massa. In termini strategici quindi il programma balistico e nucleare iraniano ha l’obiettivo di costituire un deterrente e di bilanciare l’arsenale nucleare israeliano, la cui esistenza non è mai stata ammessa da Gerusalemme ma che sembra possa contare su circa 300 testate tra bombe d’aereo, testate missilistiche tattiche imbarcate anche sui sottomarini e testate missilistiche strategiche installate su decine di missili della serie Jericho, con raggio d’azione fino a 6mila km, mentre sarebbe in fase di sviluppo un nuovo missile intercontinentale capace di colpire bersagli a oltre 10 mila km di distanza.
Il deterrente nucleare offre a Israele garanzie significative, di fatto ha contribuito a impedire nuovi conflitti arabo-israeliani, ma il rischio che l’Iran divenga una potenza nucleare è considerato una minaccia intollerabile. La ragione è legata non solo alla pretesa israeliana di avere “l’esclusiva nucleare” in Medio Oriente ma soprattutto alle ristrette dimensioni dello Stato Ebraico rispetto alla vastità dell’Iran. Basta osservare una mappa per comprendere che l’esplosione anche di un piccolo ordigno nucleare tattico spazzerebbe via Israele o lo renderebbe inabitabile per secoli.
Lo sviluppo di capacità nucleari in Iran darebbe anche il via a una corsa all’atomica in diversi Stati arabi che hanno le risorse finanziarie e tecnologiche per dotarsene in tempi ragionevolmente brevi. L’Arabia Saudita, che dopo aver finanziato l’atomica pakistana sembra abbia siglato un accordo segreto con Islamabad che consentirebbe a Riad di disporre di alcuni ordigni nucleari pakistani, schiera da anni in silos interrati missili balistici a raggio intermedio di costruzione cinese. Prima i DF-3 poi i più moderni DF-21 accreditati di un raggio d’azione di circa 1800 km e potenzialmente in grado di ospitare testate atomiche. Anche gli Emirati e il Qatar potrebbero essere tentati dalla corsa all’atomica, non solo per garantirsi da attacchi esterni ma anche per sottolineare l’influenza che le due monarchie sunnite ricoprono in molte aree del Medio Oriente e Africa. Infine la ripresa del programma atomico iraniano indurrebbe con ogni probabilità a seguire la stessa strada anche l’Egitto che è già la principale potenza militare del mondo arabo e africano.
Pochi mesi, forse un anno e l’Iran disporrà del materiale fissile sufficiente a realizzare la sua prima bomba atomica? Da quando, il 6 gennaio scorso, l’Iran ha annunciato la ripresa “senza limiti” dell’arricchimento dell’uranio, le valutazioni sulla tempistica necessaria a Teheran per completare un programma nucleare iniziato nel 1967 con la cooperazione degli Usa (donarono allo Scià un reattore nucleare sperimentale da 5 MW) si fanno sempre più allarmistiche.
I più preoccupati, ma anche i più interessati a ingigantire il rischio della “bomba” iraniana sono i servizi di sicurezza statunitensi e israeliani che all’epoca della firma del Trattato sul programma atomico (JCPoA) valutavano mancassero solo due mesi all’Iran per disporre del materiale fissile necessario a realizzare un ordigno atomico.
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