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Il soft power iraniano


Dopo l’invasione americana in Iraq, Teheran ha rafforzato il suo appeal sfruttando i rapporti con attori locali sia in campo militare che religioso

Nel 2003, alla vigilia dell’invasione americana dell’Iraq, l’Iran è senza dubbio il Paese più isolato della regione: sul confine nord orientale ci sono i Talebani afghani, già responsabili qualche anno prima dell’uccisione di alcuni diplomatici iraniani del consolato di Mazar-e Sharif e profondamente anti-sciiti; sul confine sud orientale ci sono gli attriti col Pakistan, il cui servizio di intelligence (ISI) si coordina con la CIA, e i primi sanguinosi attentati di Jundullah – attivo nel Balucistan – ai danni di militari e civili iraniani; a sud ci sono i paesi del Golfo, già finanziatori di Saddam Hussein durante la guerra tra Iran e Iraq del 1980-88, nonché alleati degli Usa, di cui ospitano le principali basi militari in Medio Oriente; e sul confine occidentale c’è proprio l’Iraq di Saddam, con cui 15 anni prima è finito un conflitto devastante, ma che è in procinto di essere rovesciato dagli Usa. L’unico vero alleato iraniano nella regione è un attore non-statale, che Teheran ha finanziato sin dai suoi albori negli anni ’80: il partito-milizia libanese di Hezbollah, che nel 2000 ha costretto gli israeliani al ritiro dal sud del Libano ed è all’opposizione nel Paese dei cedri, il cui Primo Ministro è Rafiq Hariri, alleato saudita.

Il Governo del riformista Mohammad Khatami, quando un anno prima gli Americani hanno invaso l’Afghanistan, ha deciso di fornirgli lo spazio aereo per i raid contro i Talebani, non prima di aver battuto le diffidenze dei quadri alti dei Pasdaran. D’altronde, i Talebani sono anzitutto nemici iraniani, e in quei mesi anche le informazioni di intelligence – soprattutto dal capo delle forze Al Quds, Qassem Suleimani – si rivelano decisive per i successi dell’Alleanza del Nord.

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