Per Washington il rafforzamento dei rapporti strategici con Nuova Delhi è considerata la vera priorità diplomatica e sul fronte della sicurezza per fronteggiare il suo principale rivale: Pechino. Mentre Modi dimentica la democrazia
È la mattina del 27 febbraio 2002. Il Sabarmati Express si ferma nei pressi della stazione ferroviaria di Godhra, nello Stato del Gujarat, India occidentale. A bordo centinaia e centinaia di pellegrini indù di ritorno da Ayodhya, una delle sette città sacre per la religione dominante in India. Scoppia una discussione tra i passeggeri e i venditori sul binario della stazione. In circostanze mai del tutto chiarite, quattro carrozze del treno prendono fuoco. Scatta la fuga, ma decine di persone restano intrappolate a bordo. Le vittime sono 59: nove uomini, 25 donne e 25 bambini. Tutti morti tra le fiamme.
Bisogna andare indietro a quella tragica giornata di 21 anni fa per capire qualcosa in più del presente dell’India, sia sotto il profilo politico che sotto quello sociale e dei diritti. Oggi la cosiddetta “più grande democrazia del mondo” ha diversi punti oscuri. La minoranza musulmana lamenta leggi discriminatorie, mentre la situazione della libertà di stampa e quella digitale sono in costante peggioramento. E Rahul Gandhi, il principale leader di un’opposizione che sembrava stare cercando di ricomporre la frammentazione che l’ha caratterizzata negli ultimi anni è stato condannato a due anni di carcere. Rischiando di non potersi candidare alle elezioni del 2024.
Su questi 21 anni si staglia la figura di Narendra Modi, il potente Primo Ministro ultranazionalista che domina da tempo la politica indiana. Sin dall’inizio, è lui il protagonista di questa storia. In quel 2002 è lui il governatore del Gujarat, Stato in cui è nato. È lui a osservare quanto accade dopo la tragedia del Sabarmati Express. La colpa ricade sulla minoranza musulmana della regione. Parte una violentissima rappresaglia da parte della maggioranza indù, che nel corso di alcune settimane provoca la morte di mille persone. Almeno secondo i dati ufficiali, perché le stime degli attivisti e delle organizzazioni governative parlano invece di 2500 vittime.
Modi viene accusato di non aver fatto abbastanza per provare a evitare la strage. Ma dopo anni di indagini, la Corte Suprema dell’India sostiene che la sua squadra investigativa non ha trovato prove sufficienti per avviare un procedimento giudiziario contro di lui. Qualche ombra è però sempre restata, ed è tornata ad addensarsi negli scorsi mesi, quando è uscito il documentario della Bbc India: The Modi Question. Il film contiene documenti del governo britannico secondo cui le violenze del Gujarat hanno “tutte le caratteristiche di una pulizia etnica”. Jack Straw, all’epoca Ministro degli Esteri del Regno Unito, viene ritratto mentre afferma che vi erano “serie affermazioni” secondo cui Modi stava attivamente limitando le attività della polizia e “incoraggiando tacitamente gli estremisti indù”.
Lo sfilacciamento del tessuto democratico indiano
Il documentario è stato censurato in tutta l’India, col governo che lo ha definito “spazzatura” e “propaganda anti indiana”. L’esecutivo ha ordinato di non condividerne nemmeno link o spezzoni a tutti i social media, che hanno eseguito pedissequamente. Una vicenda emblematica che, al di là della veridicità delle accuse nei confronti del premier, dimostra un sostanzioso sfilacciamento del tessuto democratico indiano. A partire dal discorso pubblico. Dopo la polemica sul documentario, la sede locale della Bbc a Nuova Delhi è stata perquisita due volte nell’ambito di un’indagine fiscale. Con computer, agende e telefoni di diversi giornalisti che sono stati sequestrati. Non è un caso che l’anno scorso, l’India è scivolata di otto posizioni nell’indice della libertà di stampa, scendendo a 150 su 180 paesi: la peggiore posizione di sempre per il gigante asiatico. D’altronde, l’ambiente dei media indiani è ormai sempre più vicino al governo Modi e le voci critiche sono sempre meno. Ndtv, broadcaster che aveva mantenuto una linea scettica nei confronti di Modi, è stata di recente acquistata dal suo amico multimiliardario Gautam Adani al termine di una scalata ostile. Proprio quell’Adani a capo di uno dei principali conglomerati industriali indiani, finito in crisi per un report del fondo ribassista Hindenburg Research, che ha evidenziato presunte manipolazioni del mercato e irregolarità contabili attraverso “sfacciate alterazioni dei prezzi delle azioni” e “decenni di falsificazione dei bilanci”.
Adani ha definito le accuse del fondo statunitense “subdolamente malevole”, descrivendole come come un tentativo di un’entità straniera di sabotare l’ascesa indiana. La stessa linea mantenuta dal governo Modi sul documentario della Bbc. D’altronde, i due sono vicinissimi e si conoscono proprio dall’era del Gujarat, da dove è iniziata anche la fortuna di Adani. Proprio il rapporto con alcuni multimiliardari come lui e la spinta del mondo del business hanno rafforzato l’immagine internazionale di Modi come di un leader pronto ad aprire un mercato in immensa crescita agli investimenti internazionali.
Modi, il grande modernizzatore
Così l’Occidente si è infatuato di Modi, diventato premier per la prima volta nel 2014. Se a livello esterno ha sfruttato questa immagine di grande modernizzatore, all’interno Modi ha cavalcato i toni del nazionalismo indù per favorire la sua ascesa politica. Una volta salito al potere i toni sono saliti ancora di più e hanno sforato nel modello di governance, con leggi considerate da più parti come lesive della minoranza musulmana. Nel 2019, poco dopo aver ottenuto il secondo mandato da primo ministro, Modi ha revocato improvvisamente l’autonomia del Kashmir. L’unico Stato dove i musulmani sono la maggioranza è stato diviso in due parti: Ladakh e Jammu & Kashmir. Il primo non ha nemmeno più un parlamento statale. Non solo. Il governo centrale ha anche approvato una nuova legge sulla cittadinanza che stabilisce che per richiedere il passaporto indiano, uno straniero debba aver vissuto nel Paese o lavorato per il governo federale per almeno 11 anni. Sono previste eccezioni per i membri di sei minoranze religiose provenienti dai paesi limitrofi, in grado di chiedere la cittadinanza dopo sei anni. Ma sono esclusi gli ahmadi provenienti dal Pakistan e i rohingya provenienti dal Myanmar, entrambi musulmani.
Ma la stretta dei diritti riguarda un po’ tutta la società indiana. Nel 2022, i tribunali indiani hanno comminato 165 nuove condanne a morte. Il numero più alto in un solo anno per il paese dal 2000. I detenuti indiani nel braccio della morte sono dunque diventati 539, anche questo il dato più pesante a partire dal 2004. Da decenni l’India si oppone a qualunque tentativo di risoluzione delle Nazioni Unite per sospendere o vietare la pena di morte, e nel 2019 il governo targato Bharatiya Janata Party (BJP) ha ampliato lo spettro di reati punibili con la sentenza capitale.
Le proteste anti governative esplose negli scorsi anni sono state represse in modo anche violento. Come accaduto nel 2020, quando immense folle di contadini si sono concentrate nella capitale per protestare contro la riforma agraria. La repressione delle forze di sicurezza ha causato anche dei morti.
Un altro modo con cui il governo “oscura” il dissenso è il controllo della rete. Secondo il report annuale di Access Now, gruppo di difesa dei diritti digitali con sede a New York, nel 2022 sono state imposte in tutto 187 chiusure della rete internet. Di queste, ben 84 sono state ordinate in India. In oltre la metà dei casi (49) è coinvolto il Kashmir. Il poco invidiabile record nei blocchi alla rete non è frutto del caso ma nasce da lontano, visto che l’India occupa la prima posizione della graduatoria redatta da Access Now per il quinto anno consecutivo.
Anche le grandi piattaforme digitali internazionali subiscono forti pressioni dal governo per bloccare contenuti antigovernativi o ritenuti una minaccia per la sicurezza nazionale. Twitter, per esempio, ha seguito le indicazioni delle autorità sia in occasione delle proteste del 2020 e 2021, sia sul documentario della Bbc. Così come YouTube. Non sempre è bastato. In diverse parti del Paese, gli studenti hanno organizzato delle proiezioni di gruppo. Andando spesso incontro a interventi della polizia o degli atenei. In alcuni casi, si sono verificate anche delle violenze. Alla Jawaharlal Nehru University di Delhi un gruppo di studenti nazionalisti indù ha lanciato mattoni contro quelli che si erano radunati per guardare il documentario sui propri telefonini, visto che l’università aveva staccato la corrente per evitare l’utilizzo del proiettore.
In tutto ciò, l’opposizione è stata a lungo ridotta ai minimi termini. Ma negli ultimi mesi si è raccolta intorno a Rahul Gandhi, capo del Partito del Congresso, protagonista di una lunga marcia di 3500 chilometri attraverso il Paese durata cinque mesi fino allo scorso gennaio. L’esponente della più celebre dinastia politica indiana è stato condannato il 23 marzo dal tribunale della città di Surat, ancora una volta nel Gujarat. La pena è di due anni di carcere per diffamazione. Il motivo è quanto ha detto in un discorso prima del voto del 2019, in cui denunciava la corruzione dilagante e in cui aveva fatto riferimento al Primo Ministro e a due uomini d’affari latitanti, tutti col cognome Modi. Ai sensi della legge che regola il processo elettorale indiano, Gandhi rischia seriamente di non potersi candidare alle elezioni del 2024, a meno che la condanna non venga sospesa o cancellata. Se i due anni di carcere fossero confermati, non potrà invece candidarsi per 6 anni dopo la fine della pena.
Perchè l’Occidente guarda altrove?
In tutto ciò, l’Occidente ha spesso guardato dall’altra parte. E questo per due motivi. Il primo è commerciale: i paesi europei, e non solo, sono a caccia di opportunità di diversificazione della propria economia, nell’ambito delle grandi tensioni con la Russia e soprattutto con la Cina. L’India non ha solo un prodotto interno lordo in crescita, ma è anche al centro di una storica ascesa demografica che nel 2023 dovrebbe renderla la nazione più popolosa del mondo al posto della Cina, che ha invece appena iniziato un trend di calo demografico. Un fenomeno che amplierà ancora di più la base del mercato del lavoro indiano, così come quella dei consumatori. Due caratteristiche che fanno sì che Nuova Delhi stia attirando sempre più grandi aziende internazionali. Uno dei principali esempi è quello della Foxconn, principale fornitore di Apple per i suoi iPhone. Il colosso taiwanese è intenzionato a espandere la produzione di smartphone nel suo impianto esistente vicino a Chennai, nello stato indiano meridionale del Tamil Nadu. L’obiettivo è quello di aumentare la produzione fino a circa 20 milioni di unità all’anno entro il 2024. Ma Foxconn intende anche costruire un nuovo impianto di componenti per iPhone in un sito di 300 acri vicino all’aeroporto internazionale Kempegowda a Bangalore.
C’è poi la dimensione geopolitica e strategica. Gli Stati Uniti stanno lanciando una serie di ambiziose iniziative tecnologiche, spaziali e di difesa con l’India, nel tentativo di contrastare la Cina in Asia-Pacifico e di liberare Nuova Delhi dalla dipendenza dalla Russia per gli armamenti. A inizio febbraio, il consigliere per la sicurezza nazionale americano Jake Sullivan e il suo omologo indiano Ajit Doval si sono incontrati a Washington e hanno sottoscritto un accordo di cooperazione in diversi settori, tra cui l’informatica quantistica, l’intelligenza artificiale, le reti wireless 5G e i semiconduttori. Stati Uniti e India hanno inoltre creato un meccanismo per facilitare la produzione congiunta di armi. Mosca sta d’altronde facendo sempre più fatica a onorare le consegne a causa della guerra in Ucraina e a dicembre, per la prima storica volta, l’esercito indiano ha usato informazioni satellitari condivise in tempo reale dagli Stati Uniti per avvantaggiarsi negli scontri coi militari cinesi lungo il confine conteso. È dagli scontri mortali, i primi da decenni, del giugno 2020 che Nuova Delhi non ha del tutto riallacciato i rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare Cinese. In ogni caso, l’India continua ad avere una politica estera indipendente, come dimostra la sua contemporanea partecipazione a Quad, Brics e Sco (Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, insieme tra gli altri a Cina e Russia). Ma per Washington il rafforzamento dei rapporti strategici con Nuova Delhi è considerata la vera priorità diplomatica e sul fronte della sicurezza per fronteggiare il suo principale rivale: Pechino.
Una priorità che, nell’ottica statunitense e non solo, val bene un occhio chiuso sullo stato dei diritti all’interno di quella che continua a essere definita la “più grande democrazia del mondo”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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Bisogna andare indietro a quella tragica giornata di 21 anni fa per capire qualcosa in più del presente dell’India, sia sotto il profilo politico che sotto quello sociale e dei diritti. Oggi la cosiddetta “più grande democrazia del mondo” ha diversi punti oscuri. La minoranza musulmana lamenta leggi discriminatorie, mentre la situazione della libertà di stampa e quella digitale sono in costante peggioramento. E Rahul Gandhi, il principale leader di un’opposizione che sembrava stare cercando di ricomporre la frammentazione che l’ha caratterizzata negli ultimi anni è stato condannato a due anni di carcere. Rischiando di non potersi candidare alle elezioni del 2024.