Giornalista. Direttore editoriale di China Files. Collabora con diverse testate tra cui Eastwest, La Stampa, RSI, Il Manifesto, Wired. Attualmente di base a Taipei.
La guerra civile che dura da quasi 4 anni
Primi vertici internazionali sulla situazione in Myanmar: ai colloqui in Indonesia sono presenti ASEAN, Ue, il governo ombra di unità nazionale del Myanmar e l’Onu. Segnali diplomatici anche dal summit nel Laos: si cerca di accelerare sul consenso raggiunto nel 2021 per la tregua, ma mai messo in pratica dalle autorità birmane.
“Con Ishiba possibili attriti tra Giappone e Usa”
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Il Partito liberaldemocratico giapponese ha scelto il suo nuovo leader, che martedì 1° ottobre viene nominato premier. Quali sono gli scenari? Intervista a Jeffrey W. Hornung di RAND
Martedì 1° ottobre, Shigeru Ishiba diventa il 102esimo premier del Giappone. È il risultato delle elezioni interne al Partito liberaldemocratico di venerdì 27 settembre, mai così incerte e combattute. Ishiba, ex ministro della Difesa e dell’Agricoltura, ha prevalso al secondo turno contro l’ultranazionalista Sanae Takaichi, nome di riferimento dell’area che un tempo faceva riferimento al premier Shinzo Abe. In passato, Ishiba era stato sconfitto quattro volte in passato nel voto per la leadership del partito che governa quasi ininterrottamente dal secondo dopoguerra. Stavolta, dopo che il premier uscente Fumio Kishida ha sciolto quasi tutte le fazioni interne in seguito a un maxi scandalo sui finanziamenti, ce l’ha invece fatta. Si ferma invece al primo turno Shinjiro Koizumi, 43enne figlio dell’ex premier Junichiro. Per analizzare il risultato e gli scenari del governo Ishiba, abbiamo intervistato Jeffrey W. Hornung, Japan Lead della National Security Research Division di RAND Corporation.
Quanto è sorprendente la vittoria di Ishiba al quinto tentativo?
Conosco Ishiba dal 2005 e sono stato in passato nel suo ufficio durante una delle votazioni che ha perso. Devo dire la verità, non sono sorpreso. O meglio, quando è iniziato il processo che avrebbe portato alle elezioni, non pensavo che avesse possibilità. Credevo che i suoi giorni migliori fossero alle spalle perché ci sono molte persone nel partito che non lo amano, visto che ha sempre avuto una posizione di critica interna. Ma quando i rivali hanno iniziato a salire e scendere, da Kobayashi a Koizumi, ho iniziato a pensare che Ishiba avesse una possibilità concreta. Soprattutto nell’ultima settimana dopo che Koizumi è affondato nei sondaggi. Ho iniziato a pensare che avrebbe vinto anche perché, nonostante sia una discepola di Abe, un eventuale governo Takaichi avrebbe messo a disagio molte persone per le sue posizioni estremamente conservatrici. Credo si sia iniziato a vedere Ishiba come l’alternativa comoda, anche se non è completamente amato all’interno del partito, perché è popolare tra il pubblico. E perché non è un conservatore.
Ishiba ha vinto perché il partito pensa alle prossime elezioni generali?
Certo. Come ogni partito politico, cercano la sopravvivenza elettorale. E sanno che lui è estremamente popolare tra il pubblico. Takaichi non porta necessariamente la stessa popolarità elettorale. Aveva degli aspetti positivi, come il fatto di poter diventare la prima donna premier, ma Ishiba è molto popolare nelle prefetture locali. E quindi penso che alla fine il partito si sia guardato intorno e abbia detto: “Va bene, se vogliamo vincere le elezioni questo è ciò che dobbiamo fare”.
Si aspetta una politica estera in continuità con quella di Kishida?
Mi aspetto una sorta di fusione. Nel segno della continuità, ovviamente sarà data priorità all’alleanza USA-Giappone. A differenza che con Takaichi, credo che vedremo continuare il trilateralismo con la Corea del Sud perché non ha alcun bagaglio storico negativo riguardo al santuario Yasukuni (luogo controverso dove vengono commemorati tra i caduti anche 14 criminali di guerra dell’era coloniale) o commenti sprezzanti su Seoul, al contrario della destra radicale a cui appartiene l’avversaria. La differenza, però, è che credo che con Ishiba ci possa essere un potenziale di attrito con gli Stati Uniti. E la ragione per cui lo dico è che per quanto dia priorità all’alleanza, ha parlato apertamente di rivedere l’accordo sullo status delle forze. Ha parlato apertamente di creare una NATO asiatica. Ha parlato di condivisione del nucleare. Sono tutte cose a cui gli Stati Uniti si oppongono fermamente. Quindi, soprattutto per quanto riguarda l’accordo sullo status delle forze, se si presenterà ai negoziati o al prossimo vertice con gli Stati Uniti dicendo che vuole davvero negoziare si arriverebbe a degli attriti. Ma in termini di strategia generale della politica estera giapponese non mi aspetto grandi cambiamenti.
Forse con Ishiba ci si può aspettare una maggiore spinta sul ruolo regionale del Giappone? Anche per cercare probabilmente di ottenere una parziale autonomia strategica dagli Stati Uniti, se posso usare questo termine.
Sì, credo che sia corretto. Anche se non pronuncia questa parola, credo che sia proprio questo suo desiderio che causerà attriti con gli Stati Uniti. Perché gli Stati Uniti dicono sempre, nei vertici e nelle dichiarazioni congiunte, che stanno difendendo il Giappone, comprese le isole Senkaku. Gli Stati Uniti fanno di tutto per rassicurare il Giappone che sono impegnati nella difesa del Paese. E poi quando hai un candidato che parla di tutte queste cose sta essenzialmente comunicando che non si fida degli Stati Uniti. C’è la preoccupazione che gli Stati Uniti non siano presenti. E penso che sia valida, a seconda del candidato che diventerà presidente degli Stati Uniti alle elezioni di novembre. Ma se si spinge su questo punto, ci sono persone negli Stati Uniti che lo leggeranno come se il Giappone stesse cercando un’autonomia strategica. E questo causerà attriti.
Pensa che questa dinamica possa intensificarsi se Donald Trump sarà il prossimo presidente?
Sì. Lo penso. La cosa che ha funzionato bene per il Giappone l’ultima volta, era il fatto che anche se Trump criticava gli alleati questo non impattava su Tokyo, perché Abe era molto forte politicamente. Non ha lasciato che le critiche lo colpissero personalmente. E se lo chiamava piccolo Abe o se sbagliava il suo nome in una conferenza stampa, se metteva dazi sull’alluminio, Abe non l’ha mai presa sul personale. Non ha mai risposto a Trump per quello che riteneva l’interesse del Giappone. Il test per Ishiba sarà capire se avrà la stessa personalità per essere in grado di sopportare quelli che potrebbero essere anche attacchi molto personali, sanzioni o tariffe sui prodotti giapponesi. Credo che Ishiba abbia la capacità di non prenderla sul personale, ma di continuare a guidare la nave nella giusta direzione, indipendentemente da quanto gli Stati Uniti lo critichino? Questo non lo so.
La personalità del nuovo primo ministro potrebbe essere ancora più importante dopo che il sistema delle fazioni si è in parte dissolto?
Sì, è vero. In un certo senso, la personalità è sempre stata importante, anche nel sistema delle fazioni, ma si poteva avere una pessima personalità e, nonostante ciò, poiché le fazioni ritenevano che fosse il tuo momento, potevi diventare primo ministro. Poiché ora è necessario entrare in contatto con il pubblico, avere una popolarità elettorale, la personalità è molto importante. Conoscendolo, in passato Ishiba mi era spesso sembrato acido. Negli ultimi anni invece mostra anche il suo lato più leggero, mostrandosi in eventi mondani in una sorta di operazione di ringiovanimento. Penso che abbia funzionato. Ha dimostrato che può entrare in contatto con la gente. Ma fare campagna elettorale e governare sono due cose diverse. Riuscirà a mantenere quel lato leggero quando sarà martellato dal partito di opposizione? E penso che per certi versi sarà davvero interessante per il sistema politico giapponese perché c’è l’ex primo ministro Noda a capo del partito di opposizione. Noda è un avversario molto temibile perché conosce bene la politica e sa governare. Se c’è qualcuno che può bucare il palloncino del Partito liberaldemocratico, questo è Noda.
Si aspetta una nuova spinta da parte di Ishiba al processo di revisione della costituzione pacifista?
Non credo che ci sarà una spinta, almeno all’inizio, perché deve assicurarsi che la sua posizione politica sia solida nel partito. E l’unica cosa che potrebbe facilmente buttarlo fuori dal partito in fretta è se cerca di fare qualcosa di affrettato con la revisione costituzionale. Se il partito vincerà alla grande alle prossime elezioni, quando si terranno, penso che allora lo si potrà vedere immergersi in queste acque. Ma finché non saprà di essere solido politicamente nel partito, non credo che lo farà. Credo che la sua priorità sarà l’economia. Ha detto che vuole cercare di aumentare i salari, di affrontare la deflazione. È su questi temi che si giocherà nel breve termine la sua posizione politica. E poi potrà dedicarsi anche ad altre cose.
Elezioni in Sri Lanka: netta rottura con il passato
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La svolta è totale, il legame col passato è stato reciso in maniera drastica. Lo Sri Lanka ha scelto come suo nuovo presidente Anura Kumara Dissanayake, candidato marxista che non era ritenuto uno dei più favoriti alla vigilia delle elezioni di sabato 21 settembre. Tra i 39 candidati alla presidenza, tutti uomini, i nomi più caldi erano altri. A partire da quello di Ranil Wickremesinghe, il leader uscente entrato in carica al culmine del collasso economico del 2022.
L’ormai ex presidente è uomo di fiducia della potentissima dinastia politica dei Rajapaksa, costretta al passo indietro al culmine delle proteste di due anni fa per il tracollo economico. Wickremesinghe ha saputo in parte rialzare lo Sri Lanka, migliorando i numeri, ma lo ha fatto seguendo dure politiche di austerità imposte dal contestato piano di salvataggio del Fondo monetario internazionale. Ed è questo che lo ha punito, visto che si è fermato al terzo posto al 17,27% dei consensi.
Male anche anche Namal Rajapaksa, figlio dell’ex presidente Mahinda e ultimo rampollo della famiglia che ha dominato per anni la politica del Paese dell’oceano Indiano. D’altronde, la maggior parte del partito di famiglia, Fronte del Popolo dello Sri Lanka, aveva optato per sostenere la candidatura di Wickremesinghe. A nulla è servito il suo programma pieno di promesse sulla riduzione della pressione fiscale: troppo stretto il legame tra il suo ingombrante cognome e quanto accaduto negli scorsi anni. Così come il legame dello stesso Wickremesinghe, veterano della politica nazionale sulla scena già da oltre tre decenni. In ogni occasione, a partire dalla prima volta tra il 1993 e il 1994, era stato chiamato a governare in un frangente di grave crisi economica. Ma la sua fama da “aggiustatore” ed “equilibratore” non è bastata, perché il popolo dello Sri Lanka ha mostrato con chiarezza di aspirare al cambiamento.
Ed ecco allora che la vittoria è andata a Dissanayake, leader del Fronte popolare di liberazione, il più radicale tra i partiti strutturati in gara. Dissanayake, 55 anni, ha ottenuto il 42,31% dei voti, con la commissione elettorale che ha annunciato la sua vittoria dopo una intensa due giorni di spoglio visto che non è arrivato al 50% necessario per salire al governo al primo conteggio. Dopo l’esame delle preferenze, la sentenza che pareva comunque già scontata dopo il grande vantaggio rispetto ai rivali emerso già nella serata di sabato. Al secondo posto Sajith Premadasa, figlio del defunto presidente Ranasinghe Premadasa con un forte seguito tra la minoranza tamil. La sua proposta di una piattaforma socialdemocratica gli ha consentito di arrivare davanti a Wickremesinghe, con il 32,76% dei voti, ma lontano da Dissanayake.
“Questa vittoria appartiene a tutti noi. Insieme, siamo pronti a riscrivere la storia dello Sri Lanka, ha scritto il neo presidente X. Dissanayake, professione originaria avvocato, non ha mai nascosto quella che vuole essere l’etichetta sulle sue convinzioni politiche, vale a dire “marxista”. Aveva già sfidato Wickremesinghe nel 2022, quando il parlamento aveva dovuto nominare il successore di Gotabaya Rajapaksa, raccogliendo la miseria di tre voti.
Ben più forte il consenso raccolto tra gli elettori, soprattutto tra i giovani. Dissanayake ha saputo attirare l’attenzione su di sé quando ha partecipato attivamente alla caduta del governo Rajapaksa e negli ultimi due anni è stato in una sorta di campagna elettorale permanente, in cui ha accusato senza riserbo le mosse del governo e l’austerità imposta dal FMI. Da parte sua, Dissanayake ha presentato un programma in cui si parla di trasformazione sociale, economica e politica, con un rafforzamento del welfare, la lotta alla corruzione e un forte accento sulla digitalizzazione. Non è tutto. Sul fronte politico, propone l’abolizione del sistema presidenziale per tornare a una democrazia parlamentare. Un modo, a suo dire, per ridurre la possibilità che lo Sri Lanka finisca “ostaggio” di potentati quasi dinastici come i Rajapaksa. In campagna elettorale, Dissanayake ha anche promesso di affrontare la corruzione e di ridurre i privilegi della classe dirigente, come le generose pensioni e i permessi per le auto, e si è impegnato a riaprire tutti i casi di presunte violazioni dei diritti umani verificatisi durante la brutale guerra civile, terminata nel 2009.
Di certo, all’FMI chiederà di rinegoziare alcune condizioni del piano di salvataggio, per fare ricadere meno gli effetti collaterali sulla popolazione. In cambio, verrebbe messa in piedi una riforma fiscale. L’accordo originario, messo a punto nel marzo 2023, ha una durata prevista di quattro anni e sinora è arrivato circa un miliardo di dollari dei tre previsti in totale.
Da capire quale sarà l’approccio sul fronte internazionale. Il suo posizionamento ideologico potrebbe renderlo affine alla Cina, che negli anni ha già sviluppato importanti interessi nello Sri Lanka, a partire dalla controversa gestione del porto di Hambantota dopo che il Paese non era riuscito a ripagare i debiti accumulati per gli ingenti investimenti e prestiti promossi da Pechino negli anni. Nei giorni scorsi, uno dei massimi consiglieri del neo presidente, Anil Jayantha, ha però provato a dipingere una linea equilibrata tra Cina e India. “Il nostro partito e il nostro leader vogliono impegnarsi con Nuova Delhi. L’India è certamente un nostro vicino e una grande potenza. Recentemente siamo stati invitati dall’India per un vertice sull’agricoltura. Abbiamo visitato Delhi e il Kerala. Il nostro leader vuole trattare con tutte le grandi potenze per stabilizzare l’economia dello Sri Lanka”, ha dichiarato in un’intervista. Narendra Modi e Xi Jinping osservano con attenzione.
Il tramonto demografico dell’Asia orientale
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C’era una volta il mito della popolazione sempre in crescita dell’Asia orientale. La Cina, soprattutto, che fino al 2023 è stato il Paese più popoloso del mondo. Un ruolo che le è stato tolto dall’anno scorso dall’India. Giappone e Corea del Sud sono protagoniste di un calo, che assume spesso le caratteristiche di un crollo, già da ben prima. I governi stanno provando a reagire con diverse misure, comprese le più fantasiose, per provare a sostenere le nascite. Il tramonto demografico rischia infatti di ripercuotersi in maniera consistente anche sull’economia e il welfare. Ma la tendenza, intrecciata talvolta con elementi storici o socioculturali, appare in ampia parte “naturale” e molto probabilmente irreversibile.
Cina
Il Partito comunista è passato dal cercare di contenere l’eccessiva natalità con la politica del figlio unico, a un calo demografico che preoccupa il governo. La popolazione della Repubblica popolare è diminuita nel 2023 per il secondo anno consecutivo. Nel 2022 si erano perse 850 mila persone, primo storico calo dal 1961, tempi di carestia in seguito al “grande balzo in avanti” di Mao Zedong. L’anno scorso il calo si è persino intensificato, arrivando a toccare i 2,08 milioni. Seppur preventivata, l’inversione della curva demografica non era attesa così presto ed è stata probabilmente accelerata dalla pandemia. Già oggi il 21% della popolazione cinese (circa 297 milioni di persone) ha più di 60 anni, ma nel 2040 la percentuale dovrebbe arrivare al 28%. Nel lungo termine, gli esperti delle Nazioni Unite sostengono che la popolazione cinese perderà 109 milioni di unità entro il 2050, più del triplo rispetto alla stima del 2019.
Secondo un dossier di Yi Fuxian, demografo cinese e ostetrico della University of Wisconsin-Madison, “alla radice del problema c’è la politica del figlio unico che, seppur rimossa, continua ad avere effetti”. Celebre per il libro del 2007 Big Country With an Empty Nest, Yi sostiene che “dal punto di vista economico, la politica del figlio unico ha ridotto la capacità genitoriale di provvedere al mantenimento dei figli. Dal punto di vista psicologico, ha cambiato in modo irreversibile il punto di vista cinese sulla maternità e resta ancora profondamente radicata nel cuore delle famiglie”. Una parziale conferma dei problemi creati dalla politica del figlio unico sembra arrivare dai dati sulla distribuzione di genere. Secondo il censimento del 2020, la Cina conta 722 milioni di uomini e 690 milioni di donne, con lo squilibrio di genere più evidente tra i nati durante la politica del figlio unico dal 1980 al 2015. E non sembra essere bastato né il via libera al secondo figlio, né la politica del terzo figlio che non solo consente, ma incentiva, la formazione di una famiglia numerosa.
Ma le ragioni del calo demografico vanno ben oltre la politica del figlio unico. A pesare sono anche e soprattutto i costi della maternità e del settore educativo, a partire dalle scuole primarie. C’è poi un impatto molto forte anche sui guadagni delle famiglie, in particolare su quelli delle donne. Non a caso un numero crescente di donne sceglie di non avere figli per non essere costrette a mettere in pausa la carriera.
Oltre ai numeri, c’è anche un fondamentale aspetto socioculturale. Con l’ampliamento della classe media e il miglioramento del tenore di vita, i cinesi si sposano meno e più tardi. La stessa parabola già vissuta da diversi Paesi occidentali, Italia compresa, o anche asiatici come Giappone e Corea del Sud. Di recente, il presidente Xi Jinping ha chiesto alle donne di coltivare una nuova cultura del matrimonio e della maternità, ma in realtà secondo un sondaggio del 2021 della Lega della gioventù comunista, il 44% delle donne tra i 18 e i 26 anni non è certo di volersi sposare.
Il calo demografico potrebbe avere non banali ripercussioni sul mondo del lavoro, con un netto abbassamento della popolazione in età di impiego. Con un effetto domino su welfare e sanità. L’Accademia cinese delle scienze sociali ha previsto che nel 2035 si potrebbe arrivare al potenziale esaurimento del sistema pensionistico.
Nel 2023 è stato registrato un aumento dei matrimoni, che sembra però collegato soprattutto alla riapertura post Covid che in Cina è avvenuta dopo rispetto all’Europa. Insomma, troppo presto per pensare che si tratti di una tendenza piuttosto che di un caso isolato. Secondo l’Istituto di ricerca cinese YuWa, c’è “urgente bisogno” a livello nazionale di introdurre al più presto politiche per ridurre il costo della maternità, come ad esempio migliori servizi di assistenza all’infanzia, parità di congedo di maternità e paternità, possibilità di lavorare in modo flessibile e concessione alle donne single degli stessi diritti riproduttivi delle donne sposate. La Cina è il secondo tra i Paesi al mondo dove è più costoso crescere un figlio. Il costo per allevare un figlio fino ai 18 anni in rapporto al Pil pro capite è di circa 6,3 volte, contro le 2,08 volte dell’Australia, le 2,5 volte della media dei 27 Paesi dell’Unione Europea, le 4,11 volte degli Stati Uniti e le 4,26 volte del Giappone.
Corea del Sud
C’è un solo Paese dove è più costoso che in Cina crescere un figlio: la Corea del Sud. Seul ha il tasso di fertilità più basso del mondo. Ora il numero medio di figli per ogni donna sudcoreana è di 0,72, anche qui un minimo storico. Il numero è di gran lunga inferiore ad altri Paesi con un andamento demografico negativo, basti pensare all’1,3 del vicino Giappone. Il tasso medio tra i Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico si attesta intorno a 1,58. E si prevede che il calo proseguirà. Per diversi analisti è inevitabile che si arrivi a mettere mano al settore sanitario, peraltro già vittima di alcuni tagli negli ultimi anni. Si stima che entro il 2050 il numero di bambini e di persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni diminuirà di un terzo, mentre il numero di anziani dovrebbe più che raddoppiare. Secondo un recente sondaggio di Statistics Korea, solo il 40,6% dei ventenni e il 42,3% dei trentenni ritengono di doversi sposare. Un calo del 20% rispetto al 2008.
Il governo sudcoreano sta provando a intervenire. Il presidente Yoon Suk-yeol ha etichettato il calo demografico una “emergenza nazionale” e ha di recente annunciato la creazione di un ministero dedicato al sostegno delle nascite. Anche qui, sussidi e incentivi non hanno per ora funzionato. Le amministrazioni locali organizzano addirittura degli incontri al buio di gruppo tra single, una sorta di matchmaking di Stato. La recente apertura di una una nuova linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà il distretto di Suseo, sull’immenso territorio della capitale Seul, alla città di Dongtan è stata spiegata anche col tema demografico. La riduzione dei tempi di percorrenza “consentirà alle persone di trascorrere più tempo con la famiglia al mattino e alla sera”, ha dichiarato il governo. La speranza delle autorità è quella di incoraggiare un maggior numero di giovani a prendere in considerazione l’idea di una casa fuori città e mettere su famiglia. Ci sono anche proposte controverse, come quella del Korea Institute of Public Finance, che ha suggerito che le bambine femmine inizino la scuola primaria un anno prima dei bambini maschi. La logica si basa sull’idea che gli uomini sono naturalmente attratti dalle donne più giovani perché maturano più lentamente. Con le donne che, in teoria, preferirebbero sposare uomini più anziani. La proposta, inutile dirlo, ha scatenato un’ondata di polemiche.
Giappone
Le polemiche sono all’ordine del giorno anche in Giappone, un Paese che ha più volte detto di aver bisogno di immigrati ma che poi continua a fare pochissimo per accoglierli e integrarli. La popolazione resta ancora lontana dal diventare multiculturale e multietnica, come dimostrano le discussioni dei mesi scorsi per la vittoria di una ragazza di origine ucraina al concorso di Miss Giappone, nonostante sia nata a Tokyo. Dopo diverse polemiche riguardanti la sua vita privata, la ragazza ha dovuto riconsegnare il premio.
Per Tokyo, il 2023 è stato l’ottavo anno consecutivo in cui il numero di nascite è diminuito. In questo caso del 5,1%, precipitando al minimo storico. Si tratta di una tendenza ormai di vecchia data. Il picco della popolazione è stato raggiunto nel 2017 con i 128 milioni di abitanti. Da lì, il calo. Ma è addirittura dagli anni Settanta, dopo la recessione causata dalla crisi petrolifera globale del 1973, che il tasso di fertilità è in calo. Continua a precipitare anche il numero di matrimoni. Lo scorso anno sono stati meno di 500 mila per la prima volta dopo 90 anni. Secondo le ultime proiezioni, la popolazione giapponese diminuirà addirittura del 30% entro il 2070. Per allora, le persone con più di 65 anni saranno il 40% della popolazione.
Il governo del premier Fumio Kishida sta provando a correre ai ripari con sussidi e facilitazioni all’assistenza sanitaria, ma anche qui non ha finora funzionato e la situazione viene descritta come “critica”. Difficile che per invertire la tendenza basti il suggerimento giunto qualche tempo fa da Narise Ishida, membro del Partito liberaldemocratico al governo pressoché ininterrottamente da decenni. Secondo il politico proveniente dalla prefettura di Mie (a est di Kyoto e Osaka) “il tasso di natalità non sta diminuendo perché avere figli costa”, ma perché “il romanticismo è diventato un tabù prima del matrimonio”. I giovani giapponesi di oggi, secondo Ishida, non saprebbero flirtare né dare sfogo a pulsioni romantiche. Il problema, ahinoi, appare ben più complesso di così.
Terremoto politico a Taiwan
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Ko Wen-je resta accusato in una vicenda che potrebbe produrre serie conseguenze sul panorama partitico dell’isola. Con l’opposizione che ora rievoca persino i fantasmi dell’era del “terrore bianco” e della legge marziale di Chiang Kai-shek, durante la quale tutti gli oppositori all’allora partito unico venivano incarcerati o eliminati.
Chi è Ko? Ex chirurgo ed ex sindaco di Taipei, si è lanciato pochi anni fa nell’avventura del Taiwan People’s Party (TPP), un partito costruito su misura per lui. Dopo che una sua fedelissima ha conquistato la poltrona di sindaca di Hsinchu, la capitale mondiale dei microchip, lui si è candidato alle presidenziali di gennaio 2024. Dopo un fugace accordo sottoscritto e poi strappato col Kuomintang, Ko ha corso da solo, ottenendo un sorprendente 26%. Il dato significa terzo posto dietro Lai Ching-te, il neo presidente del Partito progressista democratico (DPP) entrato in carica a maggio, e Hou Yu-ih del Kuomintang.
Ma è la prima volta che Taiwan ha una seria alternativa allo storico bipolarismo tra i due partiti storici, col DPP ritenuto “secessionista” da Pechino e il Kuomintang che è invece dialogante con la Cina continentale. In uno yuan legislativo (il parlamento unicamerale di Taipei) diviso e senza maggioranza assoluta, gli 8 seggi del TPP sono decisivi per qualsiasi riforma. Tanto che Ko è ritenuto il vero “ago della bilancia” della politica taiwanese per i prossimi anni, anche se nei primi mesi della nuova legislatura si è per la verità piuttosto appiattito sulle posizioni dell’opposizione del Kuomintang, appoggiando una riforma del potere legislativo contestata dal governo e finita ora alla Corte Costituzionale.
Ko ha costruito la sua proposta con un piano basato appunto su una terza via “pragmatica e non ideologica”. Aperto al dialogo con il Partito comunista, ma senza il retaggio storico del “consenso del 1992” (principio che riconosce l’appartenenza di Taiwan alla Cina, pur senza stabilire quale secondo il Kuomintang), le sue posizioni sono viste da molti come più realistiche e meno radicali dei due tradizionali contendenti. Anche perché mentre i due partiti storici litigano in continuazione sul tema dei rapporti intrastretto e dell’identità tra Taiwan e Repubblica di Cina (nome ufficiale con cui Taipei è indipendente de facto, pur se riconosciuta solo da 12 Paesi al mondo), Ko continua a parlare di temi più concreti.
Si tratta degli argomenti che più interessano soprattutto ai giovani: prezzi delle case, lavoro, economia e giustizia. Ko si è costruito una fama di incorruttibile, attaccando invece i partiti tradizionali per i loro presunti guai con corruzione e malaffare.
Ecco perché quanto sta accadendo in questi giorni rischia di colpire la reputazione di Ko ancora più in profondità. Sabato 31 agosto, i pubblici ministeri hanno presentato al Tribunale distrettuale di Taipei una richiesta di detenzione ufficiale di Ko per il presunto coinvolgimento dello scandalo di corruzione riguardante il progetto di riqualificazione di Core Pacific City durante il suo mandato di sindaco di Taipei.
Ko ha presentato una petizione contro l’ordine di arresto dei pubblici ministeri che è stata respinta inizialmente dal tribunale distrettuale di Taipei. Ko è stato arrestato sabato mattina presto, quando ha rifiutato di essere interrogato ulteriormente dopo una giornata di interrogatori e ha tentato di andarsene. Nel frattempo, i sostenitori di Ko si sono riuniti fuori dall’ufficio sabato e hanno esposto cartelli con la scritta “Le procedure devono essere giuste, la giustizia deve essere equa”.
Alcuni sostenitori hanno anche scandito slogan come “Terrore verde”, in riferimento al “terrore bianco” e al verde, colore di riferimento del DPP. “Dov’è finita ora la vostra democrazia?” hanno accusato a ripetizione gli account social del TPP, che sostiene che l’arresto sia avvenuto in totale assenza di prove a carico di Ko.
Le indagini sulla presunta corruzione che coinvolge Ko e altre persone nella riqualificazione del centro commerciale Core Pacific City, nel centro di Taipei, sono iniziate tra i sospetti sul significativo aumento del rapporto di superficie dal 560% all’840% durante il suo mandato come sindaco, dal 2014 al 2022. Già negli scorsi mesi, i pubblici ministeri hanno iniziato a interrogare ex funzionari, tra cui l’ex vice sindaco Pong Cheng-sheng. Le voci sul coinvolgimento di Ko sono aumentate, fino ad arrivare a venerdì quando gli agenti hanno fatto irruzione nella casa e nell’ufficio di Ko e nella sede del TPP.
Lunedì mattina, il nuovo colpo di scena: il tribunale ha stabilito che le prove fornite dai pubblici ministeri non erano sufficienti a giustificare la detenzione di Ko e ha ordinato il suo rilascio senza cauzione, mentre il suo ex vice sindaco resta in cella. La Procura distrettuale di Taipei intende appellarsi alla decisione. Il tribunale ha affermato che la chiave dell’innocenza o della colpevolezza di Ko risiede nel fatto che fosse o meno consapevole dell’illegalità della risoluzione approvata durante il suo mandato per aumentare la superficie del progetto immobiliare “senza seguire l’interesse pubblico” e se fosse consapevole che la risoluzione mirava a ottenere guadagni illeciti. Poiché Ko non ha partecipato al comitato o alla riunione della risoluzione, né possiede competenze rilevanti in materia, la sua affermazione di essersi fidato della risoluzione degli esperti e dell’opinione professionale di Pong non pare infondata, ha aggiunto il tribunale. Dopo essere stato rilasciato lunedì mattina, Ko è stato accolto da una folla festante, dalla moglie Chen Pei-chi e dal capogruppo del TPP Huang Kuo-chang.
Il finale di questa vicenda è ancora da scrivere. Qualora la posizione di Ko tornasse critica, il TPP (che ancora manca di struttura e si basa sulla sua figura) potrebbe subire una pesante battuta d’arresto. Qualora invece, come sembra dopo il rilascio, Ko dovesse uscirne pulito il TPP potrebbe ricevere un’ulteriore spinta dall’opinione pubblica grazie all’immagine (che il partito sta già usando) di “martire” dell’opposizione, colpito per ragioni politiche. Da questa storia dipende tanto anche il futuro della politica taiwanese, divisa tra il ritorno allo storico bipolarismo oppure la nascita di una seria alternativa in grado di sparigliare le carte.
Thailandia: cosa è successo dopo le clamorose elezioni di maggio 2023
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In pochi giorni, la politica thailandese è stata stravolta: dissolto il principale partito di opposizione (vincitore delle elezioni), è stato rimosso il premier Srettha Thavisin, e sostituito dalla giovane esponente della dinastia Shinawatra.
Il partito vincitore delle elezioni di maggio 2023, seppure costretto all’opposizione, dissolto. Il primo ministro individuato dopo mesi di trattative, rimosso. La figlia e nipote di due ex premier vittime di colpi di Stato militari che diventa improvvisamente leader. Agosto caldissimo in Thailandia, dove l’ecosistema politico ha prodotto significative turbolenze, con l’attiva partecipazione dei militari e l’attenta osservazione della monarchia. Domenica 18 agosto, quando il re Maha Vajiralongkorn ha ufficialmente conferito il mandato da premier a Paetongtarn Shinawatra, è stato solo il passo finale. O almeno, il passo finale del capitolo di una vicenda ancora tutta da scrivere.
Facciamo un passo indietro. Il 14 maggio 2023 le elezioni restituiscono un risultato clamoroso. Per la prima volta, dopo diverse tornate elettorali, non vince il Pheu Thai della celeberrima dinastia politica dei Shinawatra, ma Move Forward, un partito nato sull’onda delle proteste giovanili degli ultimi anni ma che ha saputo catalizzare evidentemente le preferenze della maggior parte di coloro che vogliono il cambiamento. A premiare Move Forward anche presso le generazioni più adulte è stata una linea chiara e priva di compromessi, critica sia dei militari sia della monarchia. A dir poco significativo, un segnale che i thailandesi hanno veramente voglia di un’aria nuova. Così il partito è riuscito a catalizzare consensi che tradizionalmente sarebbero andati al Pheu Thai,
Il giovane Pita Limjaroenrat prova l’assalto alla posizione di premier nel ruolo di grande vincitore alle urne. Assalto fallito. Oltre ai 500 membri della Camera, la costituzione prevede che 250 senatori di nomina militare siano inclusi nel voto per il primo ministro. E l’establishment militare sbarra la strada a Pita, ritenuto troppo imprevedibile e a tratti anche pericoloso per la sua proposta di riforma della durissima legge di lesa maestà. E così si trova un accordo tra militari e Shinawatra, gli ex rivali che decidono di adottare una strada di riformismo controllato e “addomesticato”, con un’ampia coalizione che comprende anche partiti satellite a sostegno delle forze armate.
L’uomo d’affari Srettha Thavisin viene eletto premier il 22 agosto, proprio mentre l’ex premier e multimiliardario Thaksin Shinawatra torna a Bangkok dopo un lungo esilio. Avvio di compromesso messo a punto, ma addio al Pheu Thai simbolo del cambiamento come era stato un tempo.
Un anno dopo, cambia improvvisamente tutto, a completamento di quel compromesso su cui ora sono stati messi punti più chiari. Il primo snodo è la dissoluzione di Move Forward, decisa a inizio agosto dalla Corte Costituzionale. Dieci dei più alti dirigenti del partito, incluso il leader Pita, vengono esclusi dal parlamento e dalla vita politica per i prossimi dieci anni. Subito dopo, gli oltre 140 membri del partito rimasti in parlamento hanno fondato una nuova forza politica, il People’s Party. Un nome che rimanda alla rivoluzione siamese anti monarchica del secolo scorso: una chiara sfida, dunque, alla massima istituzione del Paese.
Una settimana dopo, la Corte Costituzionale ha stabilito con un voto a maggioranza risicata (5 contro 4) che Srettha Thavisin andava rimosso dal suo incarico. Il premier era accusato di aver nominato ministro un avvocato che nel 2008 era stato condannato a sei mesi di carcere per corruzione. Secondo i giudici, la nomina ha violato gli standard etici imposti dalla costituzione, che prevede in questo caso l’esaurimento immediato della carica. La sentenza è definitiva e non può essere appellata. Srettha, magnate del settore immobiliare diventato politico, lascia il posto dopo nemmeno un anno. Incompiute diverse politiche chiave, a partire dal programma di portafoglio digitale chiamato a rilanciare l’economia.
Passano due giorni e il 16 agosto viene individuata l’erede. Si tratta di Paetangtorn Shinawatra. 319 voti a favore, 145 contrari e 27 astenuti alla camera per l’ultima esponente della potente dinastia politica. Con appena 37 anni è la leader di governo più giovane di sempre. “E’ il momento di fare qualcosa per il Paese e anche per il partito, spero di poter fare il mio meglio per far andare avanti il il Paese”, dice visibilmente emozionata pochi minuti dopo la nomina.
Prima di lei sono stati premier la zia Yingluck e il padre Thaksin, multi miliardario, magnate delle telecomunicazioni ed ex proprietario della squadra di calcio inglese Manchester City. Entrambi sono stati rovesciati da colpi di stato militari, nel 2006 e nel 2014. Lei ha spesso ricordato le difficoltà legate alla rimozione del padre, quando all‘università nessuno le rivolgeva la parola.
Ha scarsa esperienza politica, e non ha mai ricoperto un ruolo di governo. Durante la campagna elettorale dell’anno scorso, ha guadagnato popolarità tenendo comizi nonostante fosse incinta. Dopo le urne, ha dialogato con Move Forward, per poi lasciare il posto di premier al compagno di partito Srettha Thavisin.
Paetongtarn ha ora il difficile compito di governare una coalizione con diverse anime e mantenere un complicato equilibrio con l’esercito. Sulla sua nomina si era espresso con scetticismo il padre Thaksin, sottolineando la sua giovane età. Ma il compromesso finale sembra aver favorito questa soluzione, quasi come se i militari avessero dato il via libera alla permanenza di Thaksin in Thailandia per proseguire i suoi affari, in cambio di una sorta di “pegno”, la giovane figlia in un ruolo di primo piano, dunque esposta a grandi pressioni e a un forte controllo.
La vera sfida di Paetongtarn sarà rilanciare l’economia, mai ripartita davvero dopo il Covid. E provare ad ampliare il consenso in un’opinione pubblica che non vede più nella famiglia Shinawatra una speranza di cambiamento. Il tutto sperando di evitare nuove rotture traumatiche in un equilibrio tra politica e militari che in Thailandia resta sempre precario.
Vietnam: si apre una nuova era con la successione a Trong
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Una nuova era. È difficile definire diversamente la fase che si è appena aperta in Vietnam, dopo la morte di Nguyen Phu Trong. Il segretario generale del Partito comunista vietnamita, scomparso il 19 luglio dopo tante voci sulla sua malattia, era il più potente da diversi decenni. Prima ancora di Xi Jinping in Cina, Nguyen era riuscito nel 2021 a ottenere un inedito terzo mandato, rompendo la prassi dei due mandati introdotta negli anni Ottanta dal leader delle riforme Le Duan.
Il suo posto è stato preso da To Lam, che ricopre anche la carica di presidente, di natura soprattutto cerimoniale. Nel giro di poco più di due mesi, To Lam prende così possesso di due delle quattro principali posizioni del sistema di potere vietnamita, che comprende anche il primo ministro e il presidente del parlamento. Prima, a maggio, era subentrato al posto di Vo Van Thuong, dimessosi dopo che uno scandalo di corruzione aveva toccato alcuni uomini della sua cerchia. La stessa sorte che era toccata anche al predecessore Nguyen Xuan Phuc, che ambiva alla poltrona di segretario generale al Congresso del 2021 e che era stato “accompagnato” alle dimissioni nella primavera del 2023.
Ma il 3 agosto è arrivato il bersaglio grosso, col Comitato centrale del Partito che ha confermato la sua nomina a segretario generale, valida fino al XIV congresso del gennaio 2026. Per allora non è ancora detto quali potranno essere gli equilibri. La vastità e ampiezza della campagna anticorruzione in corso negli ultimi anni testimoniano che gli equilibri interni non sono ancora del tutto definiti e potrebbero spuntare nuovi sfidanti. In molti credono, per esempio, che possa fare una mossa il premier Pham Minh Chinh, molto attivo di recente anche sul piano diplomatico.
Nel frattempo, il passaggio da Trong a To Lam rappresenta già un cambio netto. Trong era prima di tutto un ideologo. Da convinto marxista-leninista, Trong ha coltivato il legame storico-ideologico con Pechino, preservando quello di sicurezza con la Russia. E avviando uno storico disgelo con Washington col suo storico viaggio alla Casa Bianca nel 2015, il primo per un leader vietnamita. Una mossa utile a diversificare i rapporti internazionali. Come Xi in Cina, Trong ha costruito la sua reputazione su una ostentata inflessibilità in materia di sicurezza e incorruttibilità, medaglia che ha utilizzato per sconfiggere il rivale Nguyen Tan Dung al Congresso del 2016. Una vittoria dell’ideologia sul mercato, si era detto all’epoca. Ma Hanoi ha poi firmato gli accordi di libero scambio con Unione Europea e Regno Unito, promuovendo il RCEP in Asia-Pacifico. Intanto, la campagna anticorruzione della cosiddetta “fornace ardente” proseguiva senza sosta.
Una delle figure chiave a dirigere quella campagna era proprio To Lam, protagonista di una lunga carriera nelle forze di polizia per poi arrivare a essere nominato ministro della Pubblica Sicurezza nel 2016, ruolo mantenuto per otto anni sino alla promozione a presidente dello scorso maggio. Mentre era ministro, è stato nominato anche vice-capo del Comitato direttivo centrale per la lotta alla corruzione del Partito comunista. Ciò significa che di fatto era il numero 2 del leader Trong nella sua campagna della “fornace ardente”. Questo lo ha fatto entrare nelle grazie del segretario generale, nonostante la battuta d’arresto del 2021, quando sull’account TikTok del famoso chef Nusret Gökçe, noto con il soprannome di Salt Bae, è stato pubblicato un video che mostra Lâm e il suo entourage mentre cenano alla Nusr-Et Steakhouse di Gökçe a Londra, dopo aver partecipato alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow.
Nella clip, Gökçe dà da mangiare a Lâm un pezzo di bistecca placcata. Il video è stato cancellato dall’account TikTok di Gökçe 30 minuti dopo, ma nel frattempo un attivista vietnamita lo aveva condiviso sulla sua pagina Facebook, suscitando indignazione visto che in quel momento la maggior parte dei vietnamiti era alle prese con un blocco economico durato mesi a causa della pandemia di coronavirus.
To Lam ha resistito e ha anzi rilanciato, completando la sua ascesa ai vertici della politica vietnamita. Rispetto a Trong, i cui sforzi erano tesi a rendere il Vietnam un hub di produzione globale, potrebbe avere un maggiore focus sulla sicurezza e il mantenimento dell’ordine pubblico. Il cambio della guardia avviene in un momento delicato per Hanoi e la sua posizione nel mondo. Sempre più giganti stanno delocalizzando ad Hanoi e dintorni nel processo di diversificazione dalla Cina. Tra le altre, anche Samsung, Foxconn, Amazon e Apple. Il tutto eleva il Vietnam a una posizione più alta di quella di semplice hub manifatturiero, con lo stabilimento di produzioni tecnologiche e di alta qualità.
A livello diplomatico, il Vietnam è riuscito a mantenere ottimi rapporti con tutti. Basti pensare che nel giro di nove mesi Trong ha ospitato Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. Nessun altro ha fatto lo stesso. La guerra in Ucraina e il timore di un crescente allineamento tra Cina e Russia ha comunque portato Hanoi ad approfondire i rapporti con gli Stati Uniti, tanto che proprio in queste settimane si sta trattando il primo storico acquisto di velivoli militari dalle aziende della difesa dell’ex storico nemico. Non solo. Il Vietnam ha anche firmato accordi di libero scambio con l’Unione Europea e il Regno Unito. Questa nuova fase di incertezza e potenziale instabilità verrà seguita con enorme attenzione da tutte le potenze globali.
Usa e Asia: la rete delle alleanze dopo Biden
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Lungo viaggio in Asia di Blinken dopo il ritiro di Biden e in vista di un possibile ritorno di Trump. Il centro del viaggio di Blinken è stato il confronto di sabato 27 luglio con Wang Yi, ministro degli Esteri della Cina e capo della diplomazia del Partito comunista.
Undici giorni. È la durata del nuovo, ennesimo, viaggio in Asia orientale di Antony Blinken. Il segretario di Stato americano è partito per la regione lo scorso 24 luglio e vi rimarrà fino al 3 agosto con un obiettivo: rassicurare i partner e gli alleati regionali della tenuta dell’impegno degli Stati Uniti. Un’esigenza resa impellente dall’annuncio del ritiro di Joe Biden dalla corsa per le presidenziali e dal potenziale ritorno di Donald Trump, che ha sì nel mirino la Cina ma che nel suo primo mandato aveva molto allentato la rete di alleanze statunitensi in Asia. L’amministrazione Biden le ha invece rafforzate con una serie di mosse: ha lanciato l’AUKUS, il patto per sviluppare in modo congiunto sottomarini a propulsione nucleare con Regno Unito e Australia, allo scopo di schierarli nelle acque del Pacifico. Ha rivitalizzato ed esteso l’alleanza con il Giappone, ha ampliato gli accordi militari con Corea del Sud e Filippine, che durante il primo mandato di Trump sembravano traballare. Ma poi, anche e soprattutto attraverso il lavoro di Blinken, l’amministrazione Biden ha favorito il disgelo tra Giappone e Corea del Sud, certificato dal summit di Camp David dell’agosto 2023 col premier Fumio Kishida e il presidente Yoon Suk-yeol, ha stimolato un nuovo asse tra Giappone e Filippine col recente summit di Washington con lo stesso Kishida e il presidente Ferdinand Marcos Junior. Giappone e Corea del Sud sono stati inseriti in questo modo negli ingranaggi di partnership della Nato, con la quale entrambi i Paesi hanno siglato documenti di partnership nel 2023.
Il centro gravitazionale del viaggio di Blinken è stato però il confronto di sabato 27 luglio con Wang Yi, ministro degli Esteri della Cina e capo della diplomazia del Partito comunista. I media di Pechino hanno presentato l’incontro un po’ come “l’ultimo ballo” del segretario di Stato, di cui malignamente si ricorda l’approssimarsi della “data di scadenza” e se ne mettono dunque in dubbio affidabilità e credibilità, visto l’annuncio del ritiro di Biden dalle elezioni. Il confronto si è svolto a Vientiane, capitale del Laos, a margine della ministeriale degli Esteri dell’ASEAN, l’associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico.
Sono emersi con ancora maggiore evidenza rispetto al passato i tre temi davvero divisivi nelle relazioni politiche e strategiche tra le due potenze. Il primo è ovviamente Taiwan. Blinken ha espresso preoccupazione per quelle che ha definito “azioni provocatorie intraprese di recente, tra cui un blocco navale simulato in occasione dell’insediamento” del presidente taiwanese Lai Ching-te. La risposta di Wang è stata secca: “Taiwan fa parte della Cina, non è mai stato e mai sarà un Paese indipendente”, ribadendo che Pechino “contrasterà qualsiasi provocazione delle forze per l’indipendenza di Taiwan”, affermando che il governo cinese sta lavorando per raggiungere la “riunificazione completa”. Nessuno spazio negoziale, come già chiaro ed evidente, ma al massimo un accordo di essere in disaccordo. Possibili nei prossimi mesi nuove turbolenze in corrispondenza di un probabile transito negli Usa da parte dello stesso Lai nell’ambito di un potenziale viaggio in America latina.
Il secondo fronte è la guerra in Ucraina. Blinken ha accusato la Cina di fornire sostegno alla base industriale russa e ha avvertito che “se non agirà per affrontare questa minaccia alla sicurezza europea, gli Stati Uniti continueranno a prendere misure appropriate in tal senso”. Riferendosi a un possibile ampliamento delle sanzioni. La risposta di Wang parte proprio denunciando l’uso “unilaterale” delle sanzioni e chiarendo che Pechino non accetterà “pressioni e ricatti”. Complice l’incontro con l’omologo ucraino Dmytro Kuleba, nella sua prima visita in Cina dall’inizio della guerra, Wang ha sostenuto che la posizione di Pechino sul conflitto è “giusta e trasparente”, mentre gli Usa “gettano benzina sul fuoco”. Stessa accusa rivolta a Washington in merito alle dispute nel mar Cinese meridionale, su cui Blinken era intervenuto esplicitamente in sessione coi colleghi dei Paesi del Sud-Est asiatico poche ore prima sempre a Vientiane. Il segretario di Stato ha parlato di “azioni illegali” e di escalation, soprattutto in riferimento ai ripetuti incidenti nei pressi dell’atollo di Second Thomas tra le navi della guardia costiera cinese e quelle filippine, su cui è stato comunque siglato la scorsa settimana un fragile accordo di de-escalation.
Dopo il confronto con Wang, definito “franco e costruttivo” e servito più che altro a ribadire le rispettive posizioni sui temi divisivi, Blinken prosegue il suo viaggio con un calendario molto fitto e teso a rafforzare ulteriormente la tela di sicurezza asiatica, che gli alleati sperano regga anche con un potenziale Trump bis. Domenica 28 luglio, ha partecipato a una ministeriale 2+2 con il segretario della Difesa Lloyd Austin e i due omologhi giapponesi a Tokyo, dopo che il capo del Pentagono aveva già siglato un memorandum di intesa sulla sicurezza con Giappone e Corea del Sud riguardante il programma missilistico della Corea del Nord. Washington e Tokyo hanno concordato di rafforzare ulteriormente la cooperazione militare, migliorando il comando e il controllo delle forze statunitensi nel Paese dell’Asia orientale e rafforzando la produzione di missili con licenza americana, descrivendo la crescente minaccia della Cina come “la più grande sfida strategica”.
Lunedì 29 luglio, Blinken incontra sempre a Tokyo i ministri degli Esteri di Australia, India, Giappone e Stati Uniti per l’ottava ministeriale del Quad per discutere di sicurezza economica, informatica e marittima nell’Indo-Pacifico. Martedì 30 luglio, Blinken si sposta invece a Manila per la ministeriale 2+2 con le Filippine. Il segretario di Stato è invece già stato anche in Vietnam, dove ha portato gli omaggi dell’amministrazione per la scomparsa di Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista vietnamita scomparso una decina di giorni fa. Le aziende della difesa americana stanno per la prima volta negoziando la vendita di dispositivi militari al vecchio rivale Hanoi.
Cosa ha scatenato gli studenti del Bangladesh
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In Bangladesh è l’ora del sangue. Oltre 150 morti nel giro di una settimana, per le strade e nelle piazze del Paese dell’Asia meridionale, per lo più concentrati nella capitale Dacca. Le vittime sono soprattutto studenti.
Da alcune settimane gli studenti protestano contro un antico sistema di quote di accesso ai posti di lavoro pubblici, abolito nel 2018 e reintrodotto da una sentenza dell’Alta Corte lo scorso 5 giugno.
Il sistema di quote riserva fino al 30% dei posti di lavoro statali ai familiari dei veterani che hanno combattuto nella guerra d’indipendenza del 1971 contro il Pakistan. I manifestanti vogliono abolire questo sistema, che secondo loro è discriminatorio e avvantaggia i sostenitori del partito Awami League del primo ministro Sheikh Hasina, figlia di un eroe-martire della guerra d’indipendenza, primo presidente del Bangladesh. Hasina, d’altronde, basa molta della sua autorità sul nazionalismo. Il sistema di quote prevede anche il 10% dei posti per le donne, il 10% in base ai distretti di provenienza, il 5% alle minoranze etniche e l’1% per i disabili.
Il tema è particolarmente sentito, visto che gli impieghi statali sono considerati più stabili e remunerativi di quelli privati. Un particolare da non sottovalutare, visto che in un Paese dove l’età media si aggira intorno ai 27 anni sono in tantissimi i giovani che restano senza occupazione. Ogni anno, circa 400 mila laureati competono per circa tremila posti di lavoro nell’esame per il servizio civile. E moltissimi giovani tra i 15 e i 24 anni, per l’esattezza quasi il 40%, non studia né lavora.
Le proteste, che hanno portato in piazza decine di migliaia di persone, sono iniziate alla fine del mese scorso, ma le tensioni sono aumentate lunedì 15 luglio quando gli studenti attivisti dell’Università di Dacca si sono scontrati con la polizia e con i contro-manifestanti sostenuti dalla Lega Awami al governo.
Dal giorno successivo, mentre la violenza continuava a infuriare nei campus di tutto il Bangladesh, la situazione è sfuggita di mano con diverse decine di morti. Da giovedì è stato imposto un durissimo coprifuoco che chiede agli agenti di polizia persino di “sparare a vista” in casi estremi. La connessione internet è stata bloccata in larga parte di Dacca, ma anche le comunicazioni sono difficoltose da giorni.
Nel frattempo, Hasina ha difeso il sistema delle quote, affermando che i veterani meritano il massimo rispetto per il loro contributo alla guerra, indipendentemente dalla loro affiliazione politica. Il suo governo ha anche accusato i principali partiti di opposizione, il Bangladesh Nationalist Party e il partito di destra Jamaat-e-Islami, di alimentare il caos. Le autorità hanno fatto irruzione nella sede del BNP e hanno arrestato diversi attivisti dell’ala studentesca del partito. Di più. Hasina ha anche tacciato parte di chi protesta come filopakistano.
Dopo l’imposizione del coprifuoco, alcuni scontri sono proseguiti lo stesso, compreso il fine settimana. Gli ospedali hanno continuato a ricevere morti e feriti. Poi, dalla Corte Suprema, è arrivata quella che assomiglia a una sorta di mano tesa per un compromesso. La massima corte del Bangladesh ha infatti deciso di abbassare quella quota dal 30 al 5% o al 2% a seconda delle categorie di lavoro, invitando poi gli studenti a “tornare in classe” e mettere fine alla violenta protesta che ha in realtà causato una ben più violenta repressione. Ma ai manifestanti non pare bastare. La richiesta esplicita è infatti quella di abolire le quote, che sono state invece “solo” abbassate, seppur drasticamente. “Non fermeremo le manifestazioni finché il governo non si sarà impegnato a prendere una decisione che accolga le nostre istanze”, ha riferito a France Presse un portavoce degli “Studenti contro la discriminazione”.
La vicenda pare di difficile soluzione e ha costretto Hasina a cancellare un agognato viaggio all’estero, destinato a portarla in Spagna e Brasile per rafforzare l’immagine. La premier si trova invece costretta a difendersi sul fronte interno nel primo grande test dopo la sua quarta nomina consecutiva, giunta dopo le controverse elezioni dello scorso gennaio, quando l’Awami League di Hasina si è assicurato 223 dei 299 seggi del parlamento. I candidati indipendenti, molti dei quali selezionati dallo stesso partito di maggioranza e dai gruppi associati, hanno conquistato 62 seggi. Il tutto mentre attivisti e membri dell’opposizione, anche dall’estero, denunciano le elezioni come una “farsa”. Migliaia di esponenti dell’opposizione sono stati arrestati nei mesi che hanno preceduto le urne, compreso il segretario generale del Partito nazionalista, Mirza Fakhrul Islam Alamgir. L’ex premier Khaleda Zia è in regime di residenza sorvegliata, mentre il figlio Tarique Rahman si trova in esilio a Londra, da dove attacca a ripetizione il governo. Persino il premio Nobel Muhammad Yunus ha definito come “politicamente motivata” la condanna ricevuta a inizio 2024 per violazione delle leggi sul lavoro.
Il potere di Hasina, 76 anni, nasce lontano: è la figlia di Sheikh Mujibur Rahman, padre fondatore del Bangladesh. Già premier dal 1996 al 2001, dopo il ritorno al potere nel 2009 ha adottato una linea progressivamente più assertiva, tanto che il suo governo è stato più volte accusato di abusi dei diritti umani e di repressione dell’opposizione. Allo stesso tempo, in molti le riconoscono il merito di aver risollevato il Bangladesh dalla povertà rilanciando l’economia del Paese. Ora, però, sembra aver perso il controllo di una nutrita parte della popolazione più giovane, quella più numerosa. Il campanello d’allarme era peraltro già suonato alle elezioni di gennaio, quando l’affluenza si era fermata al 40%, vale a dire la metà dell’80% registrato al voto del 2018.
Senza una rapida soluzione, le proteste degli studenti e la loro repressione rischiano di generare ancora altro sangue.
Nuove turbolenze sull’Himalaya
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Nel giro di pochi giorni, il Nepal ha visto cadere il governo guidato dall’ex guerrigliere maoista Pushpa Kamal Dahal, in arte Prachanda, e tornare al potere il suo grande amico-nemico K.P. Sharma Oli.
L’ennesimo colpo di scena di una storia politica assai frammentata e complessa, che rende il Paese incastonato tra Cina e India instabile sin dal 2008, quando venne abolita la monarchia stabilita alla fine del 1700. Nel giro di 16 anni si sono succeduti ben 14 governi, compreso quello appena insediatosi di Oli.
Ma che cosa è successo e perché l’esecutivo di Prachanda è caduto? Un passo indietro. Prachanda era diventato premier il 26 dicembre 2022, nel giorno del 129esimo anniversario della nascita di Mao Zedong. Un finale a sorpresa dopo che nelle elezioni del 20 novembre precedente il suo Centro maoista aveva totalizzato solo poco più dell’11% dei voti e 32 dei 275 seggi della camera bassa del parlamento. Sher Bahadur Deuba era convinto della nomina, forte del fatto che il suo Partito del Congresso Nepalese aveva conquistato il maggior numero di poltrone. E invece Prachanda, che ha abbandonato a sorpresa l’alleanza con Deuba per disaccordi su chi avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di premier, torna per la terza volta alla guida di Kathmandu dopo le precedenti (brevi) esperienze tra 2008/2009 e 2016/2017. A risultare decisivo è stato l’inatteso supporto del Partito comunista unitario marxista-leninista, guidato proprio da Oli, e di altri 7 piccoli partiti.
Nel suo terzo mandato come primo ministro, iniziato nel dicembre 2022, Prachanda ha cambiato tre volte il suo principale partner di coalizione e ha dovuto chiedere un voto di fiducia cinque volte, compresa quella persa venerdì scorso, con Oli che ha ritirato il sostegno al governo di Prachanda, dopo mesi di scontri e dissidi sempre più espliciti. Oli, che è già stato primo ministro due volte, ha trovato un accordo con il centrista Partito del Congresso Nepalese alla fine di giugno, assicurandosi un numero di seggi sufficiente per la maggioranza. In un discorso pronunciato prima del voto di venerdì, Prachanda ha affermato che la coalizione di Oli tra i due maggiori partiti politici è contraria alla pratica democratica. “Sono preoccupato che questo possa portare alla regressione e all’autoritarismo”, ha persino accusato. Ma gli avversari parlano di un’alleanza obbligata dalla necessità di stabilità politica.
Oli è entrato in politica da adolescente e ha trascorso 14 anni in prigione per aver fatto una campagna per rovesciare la monarchia. Dopo il suo rilascio, nel 1987, si è unito al partito comunista e ha scalato costantemente i ranghi. Eletto per la prima volta come primo ministro nel 2015, Oli è stato rieletto nel 2018 e riconfermato per un breve periodo nel 2021. Conosciuto per le sue posizioni nazionaliste in un Paese schiacciato dai giganteschi vicini Cina e India, Oli è visto come più favorevole a Pechino. Il cambio di governo avviene peraltro in un momento complicato per le relazioni tra i due colossi asiatici, con Nepal e Bhutan a giocare ruoli non secondari di sponda nella diatriba sull’enorme confine conteso.
Prachanda aveva in passato etichettato l’India come una potenza “espansionista” e denunciato un presunto piano per ucciderlo, ma negli ultimi anni aveva provato a proiettare un’immagine più equilibrata rispetto al passato. Prima della sua nomina era stato a Nuova Delhi dove aveva incontrato esponenti del Bharatiya Janata Party del primo ministro Narendra Modi, che però non lo ha ricevuto. Alla cerimonia d’insediamento, l’ex guerrigliero ha indossato un daura-suruwal, abito tradizionale nepalese che in precedenza aveva evitato. Episodio letto dai media indiani come un segnale di maggiore equilibrio e minore legame all’ideologia maoista.
Anche Oli ha in passato avuto una forte retorica anti indiana. Durante la pandemia di Covid-19 in Nepal, il neo premier si è scagliato contro l’India, affermando che il “virus indiano” era più pericoloso del “virus cinese” e ha persino preso in giro l’emblema nazionale indiano durante un discorso al Parlamento in cui ha attribuito la colpa del crescente numero di casi di coronavirus a persone che hanno violato il blocco nazionale, in particolare a coloro che si sono introdotti in Nepal dall’India.
Ma il nuovo governo potrebbe essere ben più equilibrato. La Cina ha sempre sostenuto l’alleanza tra il partito maoista e quello comunista: la rottura dell’accordo tra Oli e Prachanda potrebbe preoccupare Pechino, anche perché il neo alleato del premier, Deuba, è considerato un leader pro indiano. Di certo, Modi e Xi Jinping osserveranno con attenzione quanto accadrà sulle turbolente cime himalayane.
Narendra Modi a Mosca: deluso chi sperava in un’India allineata
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L’India conferma il suo storico non allineamento, che le consente di far parte nello stesso momento del Quad (la piattaforma di sicurezza dell’Indo-Pacifico con Usa, Giappone e Australia), ma anche dei BRICS e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO).
L’aumento degli scambi commerciali dell’India con la Russia non deve essere visto come un “fenomeno temporaneo”. Difficile trovare una frase piu esemplificativa di quella del ministro degli Esteri indiano S. Jaishankar sui rapporti tra Nuova Delhi e Mosca.
In Occidente, qualcuno sembra ancora stupirsi per l’arrivo al Cremlino di Narendra Modi, in una visita in programma lunedì 8 e martedì 9 luglio. Ma la realtà dei fatti è che le relazioni tra India e Russia sono molto radicate nella storia e nella politica estera dei rispettivi Paesi. Nonostante questo, il primo viaggio a Mosca di Modi dall’inizio della guerra in Ucraina rappresenta una doccia gelata per chi sperava, o meglio si illudeva, di poter “arruolare” l’India tra le fila delle cosiddette democrazie liberali in un’ottica di confronto con la Russia e (soprattutto) con la Cina.
Delhi conferma invece il suo storico non allineamento, che le consente di far parte nello stesso momento del Quad (la piattaforma di sicurezza dell’Indo-Pacifico con Usa, Giappone e Australia), ma anche dei BRICS e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO). Modi ha preferito saltare il summit della SCO, che si è tenuto la scorsa settimana in Kazakistan, forse anche per evitare un faccia a faccia con Xi Jinping, di cui ricorda ancora lo sgarbo dell’anno scorso quando il presidente cinese non si presentò al G20 indiano. Modi ha invece preferito andare direttamente a Mosca per incontrare Putin.
Il viaggio è ufficialmente teso a discutere di un “ulteriore sviluppo delle relazioni russo indiane, tradizionalmente amichevoli, e di questioni rilevanti nell’agenda internazionale”. In programma un bilaterale con Putin e colloqui con ampie delegazioni. Secondo gli analisti di Nuova Delhi, l’incontro è teso a contrastare la percezione di una deriva dei legami con l’alleato di lunga data, mentre l’India costruisce una partnership più stretta con gli Stati Uniti. Una sorta di rassicurazione a Mosca, anche alla vigilia delle elezioni presidenziali americane che possono portare nuovi elementi di imprevedibilità. Sebbene i leader indiani e russi abbiano tenuto vertici annuali dal 2000, non se ne sono più tenuti dopo la visita di Putin a Nuova Delhi nel 2021. Il viaggio di Modi, poco piu di un mese fa la sua faticosa conferma per un terzo mandato, vuole dunque dare qualche garanzia all’antico partner.
Non solo l’India non ha mai condannato l’invasione russa, pur esprimendo “preoccupazione” in diverse occasioni, ma in questi anni ha intensificato in modo netto i rapporti commerciali. Il commercio bilaterale di energia ha registrato un boom grazie all’aumento degli acquisti di petrolio russo a basso costo dopo le sanzioni occidentali. Tuttavia, mentre le esportazioni totali di Mosca verso l’India ammontano a 65 miliardi di dollari, le esportazioni indiane sono di soli 4 miliardi di dollari circa, causando preoccupazione a Nuova Delhi. La bilancia commerciale è a dir poco sbilanciata a favore della Russia.
C’è anche un aspetto fondamentale che riguarda la difesa. Nonostante la diversificazione degli acquisti di hardware militare negli ultimi anni, l’India continua a dipendere dalle armi russe: circa un terzo delle importazioni indiane nel settore della difesa proviene da Mosca, rispetto ai due terzi di cinque anni fa. Dal febbraio 2022, come accaduto anche in Vietnam, sono cresciute però le preoccupazioni sulla capacità della Russia di fornire pezzi di ricambio e munizioni. Tanto che Nuova Delhi ha intensificato le acquisizioni dagli Stati Uniti. Ma l’eventuale processo di transizione e cambio di sistemi sarà lungo e difficoltoso. Ed è tutt’altro che scontata la volontà dell’India di operare una sorta di “disaccoppiamento” militare da Mosca.
Nella visita di Modi in Russia c’è anche un altro elemento. L’India vuole evitare che il crescente allineamento tra Mosca e Pechino si ripercuota negativamente sui propri interessi. Nuova Delhi continua a essere impegnata in un’aspra contesa territoriale con la Cina, che negli scorsi anni ha provocato anche alcuni scontri con diversi morti tra i militari dei due Paesi. Mantenere legami favorevoli con Putin significa per Modi assicurarsi qualche garanzia da parte russa nei burrascosi rapporti con Pechino. Allo stesso tempo, il Cremlino può dare un segnale alla Cina di non essere un mero junior partner ma di essere in grado di continuare a coltivare le sue relazioni diplomatiche, non per forza in perfetta sincronia coi desideri di Xi.
Il successo del “piccolo Dragone”
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Il Vietnam cresce più del previsto e più dei vicini asiatici, nonostante il caos politico interno. Con la cosiddetta “diplomazia del bambù“, il Paese sa coltivare i rapporti internazionali come pochi. Un esempio vivente di multipolarità, che, per ora, fa rima anche con sviluppo economico.
C’è un Paese che nel giro di nove mesi ha ricevuto i leader delle tre principali potenze mondiali: Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. C’è un Paese in cui la campagna anticorruzione e i giochi di potere all’interno del governo e del Partito comunista continuano senza sosta, tanto da portare alla rimozione di due presidenti nel giro di un anno. E c’è un Paese che continua a crescere e lo fa piu velocemente anche dei suoi vicini asiatici.
Questo Paese è in tutti e tre i casi sempre lo stesso: il Vietnam. L’economia di Hanoi ha registrato un’espansione del 6,93% nel secondo trimestre rispetto all’anno precedente, superando il 5,66% del trimestre gennaio-marzo. Confermando il suo ruolo sempre piu da protagonista di hub delle catene di approvvigionamento del Sud-Est asiatico, il Vietnam ha mantenuto una crescita costante delle esportazioni del 12,5% nel secondo trimestre, favorita dall’elettronica e dai frutti di mare. I consumi interni sono rimasti un po’ indietro, con un aumento del 5,78% nei primi sei mesi rispetto a un anno prima. Tra le economie in più rapida crescita al mondo, il Vietnam punta a un aumento del prodotto interno lordo del 6-6,5% nel 2024.
Il processo di crescita economica è ormai di vecchia data. I suoi semi sono stati gettati nel 1986, con il lancio delle riforme del Doi Moi, programma che ha consentito il passaggio da una pianificazione centralizzata a un’economia di mercato a orientamento socialista, con qualche anno di ritardo dalla “grande apertura” di Deng Xiaoping. Da allora molto è cambiato. Il Vietnam, sempre con qualche anno di ritardo rispetto alla Cina, è entrato nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2007 e nel nuovo millennio ha elevato 45 milioni di persone da una condizione di povertà assoluta. Il basso costo del lavoro, nonché la guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina, sono stati elementi a favore di Hanoi, che ha accolto e continua ad accogliere la delocalizzazione di linee produttive in fuga dai dazi di Washington.
Il Vietnam ha uno storico legame politico e militare con la Russia, sin dai tempi dell’Unione Sovietica. E ne ha uno ideologico e commerciale con la Cina, da cui è però divisa a livello strategico da una contesa territoriale nel mar Cinese meridionale. Ma negli ultimi anni, Hanoi ha elevato i rapporti con Giappone, Corea del Sud e Australia. Ha sottoscritto accordi di libero scambio con Unione Europea e Regno Unito, ha patrocinato il Partenariato economico globale regionale (RCEP), che unisce la maggior parte dei Paesi dell’Asia-Pacifico. Il Vietnam è diventato il nuovo Eldorado degli investimenti dei colossi tecnologici internazionali. Sempre più giganti stanno delocalizzando ad Hanoi e dintorni nel processo di diversificazione dalla Cina. Tanto da far guadagnare al Paese il titolo di “piccolo Dragone”. Tra le altre, anche Samsung, Foxconn, Amazon e Apple. Il tutto eleva il Vietnam a una posizione piu alta di quella di semplice hub manifatturiero, con lo stabilimento di produzioni tecnologiche e di alta qualità.
Il risultato viene raggiunto nonostante la perdurante battaglia politica interna. Il complesso sistema politico-statale vietnamita si poggia sui cosiddetti “quattro pilastri”. Il principale è quello rappresentato dal segretario del Partito comunista, Nguyen Phu Trong, al terzo mandato come Xi Jinping. Sempre come il presidente cinese, Trong ha costruito la sua reputazione su una ostentata inflessibilità in materia di sicurezza e di anticorruzione, promossa attraverso la spietata campagna della “fornace ardente” che gli ha consentito di sbarazzarsi dei rivali politici sconfitti al 12 esimo congresso del 2016. La campagna anticorruzione prosegue sotto la regia del primo ministro Pham Minh Chinh, ex generale di polizia proveniente dal potente ministero di pubblica sicurezza. Nel giro di dodici mesi sono stati messi da parte due presidenti: Nguyen Xuan Phuc, che ambiva alla poltrona di segretario generale al Congresso del 2021, e Vo Van Thuong, che era considerato il delfino di Trong. Alla presidenza, ruolo soprattutto cerimoniale, c’è ora To Lam, che nelle scorse settimane ha fatto gli onori di casa ricevendo Putin.
Le turbolenze interne non traspaiono all’esterno e non condizionano la cosiddetta “diplomazia del bambù” di Hanoi, guidata dal principio “amici di tutti, arruolati da nessuno”. La visita di Putin era prevista sin da quando lo scorso settembre c’era stata quella di Biden, seguita poi a dicembre da quella di Xi, per riequilibrare i rapporti internazionali che il Vietnam sa coltivare come pochi. Un esempio vivente di multipolarità, che per ora fa rima anche con sviluppo economico.
Le sfide di Lai Ching-te, il nuovo Presidente di Taiwan
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Lai Ching-te ha vinto, ma non il suo Partito progressista democratico (DPP). Il risultato delle elezioni presidenziali e legislative di Taiwan dello scorso 13 gennaio è molto meno netto e molto più sfaccettato di come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Certo, il candidato più inviso a Pechino è il presidente eletto ed entrerà in carica il prossimo 20 maggio. Ma per la prima volta dopo 16 anni non c’è una maggioranza parlamentare e il consenso popolare intorno al DPP appare in erosione.
Una tendenza che pare aver recepito anche la Cina, che nella sua prima reazione al voto (una nota firmata dal portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan, Chen Binhua) ha sì ribadito che la “riunificazione è inevitabile”, ma anche sottolineato che “stavolta il DPP non rappresenta l’opinione pubblica maggioritaria dell’isola”. Una prospettiva che potrebbe portare Xi Jinping ad attendere ancora, sperando di fare leva sulle divisioni interne per avvicinare una “riunificazione pacifica” che, osservando l’orgoglio con cui i Taiwanesi si recavano sabato 13 gennaio ai seggi per votare il candidato preferito (a prescindere da quale fosse) resterà comunque difficile da ottenere.
Ma chi è Lai? Rimasto orfano quando era molto piccolo del padre minatore e cresciuto in una famiglia non certo agiata, ha saputo farsi strada prima negli studi di medicina e poi in politica. Durante una lunga carriera tra Yuan legislativo (il parlamento unicamerale di Taiwan) e Tainan (l’antica capitale precedente alla dominazione giapponese e feudo del DPP di cui è stato sindaco), si è costruito una fama di “indipendentista”. Un termine col quale si intende il perseguimento di una dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan, superando dunque la cornice della Repubblica di Cina entro cui Taipei è indipendente de facto.
Anche a causa delle sue posizioni radicali sul tema identitario, espressione di una posizione più tradizionale del DPP, Lai è entrato in passato in rotta di collisione con la presidente uscente Tsai Ing-wen. Nonostante Pechino li consideri entrambi “secessionisti”, si tratta di due figure parecchio diverse. Prima di entrare in politica, Tsai ha anche guidato l’Ufficio per gli Affari della Cina continentale, l’organismo di Taipei che si occupa dei rapporti intrastretto. Ruolo che le ha dato la capacità di sapersi muovere tra le complicate pieghe della relazione con Pechino.
Tsai ha spostato nettamente la posizione del DPP verso il centro, riuscendo a conquistare il voto di molti moderati che in passato votavano il Kuomintang (KMT). In che modo? In sostanza appropriandosi dello status quo, la cui tutela viene chiesta sostanzialmente dal 90% dei Taiwanesi. Secondo Tsai, Taiwan non ha bisogno di dichiarare l’indipendenza perché “è di fatto già indipendente come Repubblica di Cina”. Una posizione che può non sembrare molto diversa da quella del KMT, ma che invece aggiunge una sfumatura decisiva: il mancato riconoscimento del “consenso del 1992”, cioè un accordo tra le due sponde dello Stretto secondo cui esiste “una unica Cina”, seppure il KMT aggiunga la dicitura “con diverse interpretazioni”. In sostanza, si tratta del riconoscimento che Taiwan fa parte della Cina, pur senza stabilire quale tra Repubblica di Cina e Repubblica Popolare Cinese. Una posizione accettabile per il Partito comunista, che forte del riconoscimento di quasi la totalità dei Paesi del mondo ritiene che di fatto tutto ciò significhi che Taiwan fa o farà parte della Repubblica Popolare.
Per Tsai, invece, Taipei e Pechino sono di fatto due entità separate non interdipendenti l’una dall’altra. A questa posizione che già non consente il dialogo, seppur rispetti la cornice della Repubblica di Cina, Lai ha garantito di allinearsi. Per tutta la campagna elettorale ha ripetuto che seguirà la posizione di Tsai. Eppure, non tutti si fidano.
Pechino si ricorda delle sue passate dichiarazioni in cui si definiva un “lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan”. A Washington c’è qualche perplessità sulla sua retorica ben più esuberante di quella della cauta Tsai. Un esempio? In campagna elettorale, ha espresso il desiderio che in futuro il presidente taiwanese possa entrare alla Casa Bianca. Cosa che presupporrebbe il riconoscimento ufficiale di Taipei e la fine dell’ambiguità strategica. Non a caso, il DPP ha scelto come sua vice Hsiao Bi-khim, ex rappresentante di Taipei negli Usa e figura di cui l’amministrazione statunitense si fida molto. Non solo. Hsiao è anche considerata la vera erede di Tsai, nonché addirittura la sua “confidente”. Niente di meglio per contenere la potenziale imprevedibilità di Lai, che pare aver spento alcuni dei timori interni sulla sua posizione meno accomodante e dunque più rischiosa di quella di Tsai, tanto che il KMT presentava il voto come una “scelta tra guerra e pace”, sostenendo che una sua vittoria avrebbe potuto avvicinare il rischio di un conflitto sullo Stretto.
Resta però il fatto che tra 2020 e 2024 il DPP ha perso oltre due milioni e mezzo di voti alle presidenziali. Un’enormità, considerando che le preferenze totali raccolte da Lai sono state cinque milioni e mezzo.
“Se la Cina non parla con Tsai, non parlerà nemmeno con Lai”, dice Yen Chen-shen, politologo dell’Università Nazionale di Taipei e tra i massimi esperti dei rapporti tra Taipei e Pechino. “Non avremo nessuna comunicazione tra le due sponde dello Stretto. Se Lai fosse davvero in linea con Tsai potrebbe andare bene, ma ha una retorica molto più populista un po’ come Donald Trump, senza la prudenza di Tsai. Questo potrebbe causare dei problemi”, aggiunge Yen, che non si aspetta comunque un’azione irreversibile dopo le elezioni. “Credo comunque che la Cina stavolta sarà paziente, cercheranno di assicurarsi che Lai non proceda verso l’indipendenza. Chiederanno anche maggiori garanzie agli Usa, che penso faranno capire a Lai che c’è la necessità di mantenere forti comunicazioni con Pechino. E il DPP ha già garantito che non cambierà il nome del Paese, la bandiera o l’inno nazionale”.
Anche perché non potrebbe farlo. La sconfitta alle legislative toglie di fatto i numeri a Lai per operare grandi riforme senza un appoggio esterno, per non parlare delle già esigue possibilità di emendare la costituzione. Il DPP ha perso non solo la maggioranza assoluta, ma anche quella relativa, scendendo da 61 a 51 seggi. Uno in meno del KMT, che ne ha guadagnati 14 rispetto alla legislatura passata, ma non abbastanza per raggiungere i 57 necessari per avere la maggioranza assoluta. A fare da ago della bilancia tra i due protagonisti dello storico bipolarismo taiwanese, che dalla sfera politica sfocia spesso in quella identitaria, sarà il Partito del Popolo di Taiwan (TPP) di Ko Wen-je.
Ex chirurgo ed ex sindaco di Taipei, Ko rappresenta una novità sulla scena politica taiwanese, abituata a un duopolio che sembrava quasi impossibile da scalfire. Lui è invece arrivato terzo alle presidenziali, ma con un più che ragguardevole 26%, solo sette punti sotto il candidato del KMT, l’ex poliziotto Hou Yu-ih. Ko si è presentato come una “terza via” basata sul “pragmatismo” e su un programma “anti ideologico”. Piuttosto che dei rapporti con la Cina continentale, con cui ha comunque rivendicato la necessità di riaprire il dialogo, durante la campagna ha parlato di temi molto concreti come il prezzo delle case, i salari minimi, l’occupazione e il dilemma energetico. Un approccio che ha convinto soprattutto i più giovani, che ormai vedono il DPP come espressione del “sistema” e se ne sono allontanati rispetto agli anni delle proteste del “movimento dei girasoli” contro l’allora amministrazione KMT targata Ma Ying-jeou, il presidente taiwanese più dialogante di sempre con Pechino.
Con il suo “tesoretto” parlamentare, Ko potrebbe decidere di restare l’uomo copertina per i prossimi quattro anni, senza formalizzare una coalizione di opposizione col MT, nonostante le promesse in tal senso durante la campagna elettorale. Alternare aperture e chiusure al governo del DPP potrebbe consentire a Ko di tenere il pallino in mano, risultando decisivo per l’approvazione di leggi, riforme e budget di difesa. Giocando il ruolo del “responsabile” e provando a spolpare ulteriormente i partiti tradizionali in vista delle presidenziali del 2028, che, subito dopo la fine dello spoglio del 13 gennaio, Ko ha detto che vincerà sicuramente, di fronte ai suoi sostenitori delusi per la sconfitta.
Questo frazionamento interno potrebbe incidere non solo sulle dinamiche politiche taiwanesi, ma anche sulla postura della Cina, che guardando sul medio periodo potrebbe non vedere come del tutto negativo il risultato del voto. Certo, Lai non ha di fronte un mandato che sarà contraddistinto da calma e tranquillità. Né sul fronte interno, dove dovrà venire a patti con l’opposizione, né sullo Stretto. Subito dopo le elezioni, Pechino ha sottratto uno dei pochi alleati diplomatici ufficiali di Taipei, Nauru. Difficilmente si fermerà qui. In molti prevedono manovre commerciali, dopo che già sono state abolite le agevolazioni tariffarie per l’importazione di alcuni prodotti taiwanesi. Sul fronte militare, la regolarizzazione delle manovre di jet e navi intorno a Taiwan è destinata a proseguire o persino a intensificarsi.
I funzionari e gli analisti indicano in particolare due momenti delicati. Uno imminente, l’insediamento di Lai del 20 maggio, con Pechino che ascolterà con attenzione il suo primo discorso da presidente in carica. Il secondo, guardando più avanti, nel 2027. Già, perché quell’anno ci sarà un incrocio di eventi molto sensibile. Da una parte il XXI Congresso del Partito comunista cinese, dove Xi potrebbe cercare un quarto mandato da segretario generale oppure ritagliarsi un nuovo ruolo. In ogni caso, potrebbe voler mostrare qualche passo avanti sul dossier taiwanese e come in ogni Congresso la retorica resterà difficilmente di basso profilo. Proprio nello stesso momento, a Taiwan si sarà in piena campagna elettorale per le prossime elezioni del 2028. Con Lai impegnato a ottenere un secondo mandato, e con un DPP che potrebbe aver bisogno di una scossa per risalire la china di un trend recentemente negativo, anche qui la retorica potrebbe non essere delle più concilianti. Un incrocio reso ancor più insidioso dal fatto che da qui ad allora è previsto l’arrivo a Taiwan di una lunga serie di spedizioni di armi dagli Stati Uniti, alcune delle quali acquistate negli anni scorsi ma in ritardo.
Tutto ciò non significa che quello sarà l’anno della inevitabile resa dei conti, ma senz’altro potrebbe risultare un passaggio più decisivo di quello di questo 13 gennaio, che a molti taiwanesi è parso più interlocutorio. Non sono pochi, tra coloro che si sono recati al seggio, ad aver già fatto valutazioni in vista del 2028.
C’era chi diceva di votare Hou per veder perdere Lai e favorire così la candidatura della più apprezzata Hsiao per il DPP tra quattro anni. Al contrario, tra gli elettori del KMT si faceva già per il futuro il nome di Chiang Wan-an, pronipote di Chiang Kai-shek e sindaco di Taipei.
Nonostante i taiwanesi non percepissero le elezioni come un momento così cruciale per decidere le sorti del loro futuro e soprattutto delle prospettive su “guerra e pace” o “democrazia e autoritarismo”, lo Stretto è destinato a restare al centro dell‘attenzione per i prossimi anni. Una variabile fondamentale è rappresentata anche dalle prossime elezioni presidenziali degli Stati Uniti.
Vero che il sostegno a Taipei è bipartisan, dalle parti di Washington e soprattutto tra Dipartimento di Stato e Pentagono, ma certo le dinamiche regionali potrebbero cambiare molto con un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, otto anni dopo quella telefonata con Tsai che in un certo senso avviò la lunga e complicata serie di eventi che ha reso Taiwan il tema principale di tutti i confronti tra Washington e Pechino.
I taiwanesi, intanto, sembrano voler respingere il peso che molti attribuiscono sulle loro spalle di attori decisivi per il futuro globale. Per loro, quelle del 13 gennaio sono state “solo” delle elezioni.
L’accordo Putin/Kim accresce la tensione tra le due Coree
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Dopo il viaggio di Putin in Corea del Nord e alla vigilia di nuove esercitazioni navali congiunte di Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone, l’interconnessione tra il fronte europeo e quello asiatico rischia di farsi sempre più forte.
La tensione nella penisola coreana ha appena fatto un salto di qualità. Il viaggio di Vladimir Putin in Corea del Nord ha prodotto la firma di un accordo di partnership strategica tra Mosca e Pyongyang, che prevede “assistenza reciproca” in caso di “aggressione interna” contro uno dei due Paesi. L’etichetta “assistenza” comprende anche quella militare, nel pieno solco tracciato dai trattati di mutua difesa e dallo stesso accordo che legava precedentemente Corea del Nord e Unione Sovietica durante la guerra fredda.
Uno sviluppo che fa temere alla Corea del Sud un coinvolgimento diretto della Russia nel confronto sempre piu acceso con il regime di Kim Jong-un al confine. D’altra parte, proprio a cavallo della visita del presidente russo, sono successe diverse cose. Poche ore prima dell’atterraggio del capo del Cremlino, dei militari nordcoreani hanno tentato di oltrepassare il confine, salvo poi ritirarsi dopo gli spari di avvertimenti delle truppe sudcoreane. Non solo. Diversi soldati di Pyongyang sarebbero rimasti feriti e uccisi nell’esplosione di alcune mine. L’incidente sarebbe avvenuto nella zona demilitarizzata, mentre i militari nordcoreani erano intenti a costruire delle fortificazioni non meglio precisate.
Pochi giorni dopo la partenza di Putin, il copione si è ripetuto. Altri sconfinamenti dei militari nordcoreani, altri colpi di avvertimento di Seul. Non solo. Si è anche chiarito di che cosa si trattasse a proposito delle fortificazioni. Secondo immagini satellitari ad alta risoluzione che interessano un tratto di 7 chilometri di confine, commissionate dalla Bbc, emergono almeno tre sezioni in cui sono state erette barriere vicino alla zona demilitarizzata, per un totale di circa un chilometro vicino all’estremità orientale del confine. È possibile che siano state costruite altre barriere lungo altri tratti del confine.
La data esatta di inizio della costruzione non è chiara a causa della mancanza di precedenti immagini ad alta risoluzione dell’area. Tuttavia, queste strutture non erano visibili in un’immagine catturata nel novembre 2023. Una sorta di muro, insomma. Una novità assoluta nelle complicate dinamiche del confronto coreano. I territori all’interno della zona demilitarizzata sarebbero anche stati spianati, una possibile violazione della tregua sottoscritta nel 1953 al termine della guerra di Corea.
Il conflitto è stato sospeso ma ufficialmente non si è peraltro mai davvero concluso, visto che non è stato sottoscritto alcun accordo di pace. Il fragile status quo si è fin qui retto sulla costituzione di questa zona demilitarizzata, quattro chilometri da una e dall’altra parte in cui non sono consentite installazioni militari e i movimenti sono ampiamente controllati. Per sfociare in una zona di controllo congiunto, il gruppo di casette presidiato da truppe di una e dell’altra parte dove si sono tenuti i vari vertici intercoreani, o anche dove nel giugno 2019 Donald Trump incontrò Kim Jong-un per una stretta di mano e una breve passeggiata che si rivelò una photo opportunity.
La costruzione del muro ha un valore innanzitutto simbolico. Segnala all’esterno che Kim non ha alcuna intenzione di trattare, né con Seul né con gli Usa. La mossa va anche letta nell’ambito dello storico cambio di politica intercoreana, visto che a gennaio il leader supremo ha chiesto di emendare la costituzione per definire la Corea del Nord “nemico principale e immutabile”, rinnegando dunque il tradizionale perseguimento del negoziato per la riunificazione. Aprendo dunque al tentativo di sottomissione del Sud, non solo di separazione. Da allora, il Nord ha anche iniziato a rimuovere i simboli che rappresentano l’unità dei due Paesi, come la demolizione di monumenti e la cancellazione di riferimenti alla riunificazione sui siti web del governo.
La visita di Putin potrebbe rendere piu audaci le manovre di Kim anche sul piano militare. Consapevole di avere un sostegno esterno, il leader supremo potrebbe segnalare con sempre maggiore forza di non apprezzare il rafforzamento dei legami tra Seul, Washington e Tokyo.
In tutto questo, una portaerei statunitense a propulsione nucleare, la Theodore Roosevelt, è arrivata sabato nella città portuale sudcoreana per le esercitazioni navali congiunte nei prossimi giorni con la Corea del Sud e il Giappone. Le manovre di questo mese, denominate “Freedom Edge”, coinvolgeranno le marine dei tre Paesi e comprenderanno esercitazioni marittime, di guerra antisommergibile e di difesa aerea, ha dichiarato il contrammiraglio statunitense Christopher Alexander, comandante del Carrier Strike Group Nine.
Kim reagirà con una forte retorica. Già in passato ha denominato le esercitazioni congiunte dei “preparativi all’invasione”. E potrebbe anche solo evocare quella possibilità di assistenza russa in caso di “aggressione”. Putin non ha d’altronde escluso la fornitura di armi di precisione a Pyongyang, portando Seul a dichiarare che potrebbe riformare la vecchia legge che le impedisce di esportare armi verso Paesi coinvolti in conflitto, allo scopo di inviare assistenza militare all’Ucraina. L’interconnessione tra il fronte europeo e quello asiatico rischia di farsi sempre piu forte.
La Conferenza sulla pace in Svizzera: vista dall’Asia
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L’Asia resta distante dalla prospettiva europea. Seppure diversi Paesi abbiano mostrato vicinanza e solidarietà all’Ucraina, le idee su come raggiungere la pace non sono le stesse di quelle dell’Occidente.
Se il suo scopo era quello di ottenere un appoggio ampio dalla regione dell’Asia-Pacifico, Volodymyr Zelensky esce senz’altro deluso dalla conferenza sulla pace in Ucraina che si è svolta in Svizzera nel fine settimana.
A inizio giugno, il presidente ucraino era apparso all’improvviso allo Shangri-La Dialogue di Singapore, il vertice asiatico sulla sicurezza, proprio per provare a convincere più Paesi possibili a inviare delle delegazioni a Lucerna. Eppure, l’unico leader a essersi aggiunto alla lista da allora è stato José Ramos-Horta, presidente della piccola Timor Est. L’unico altro capo di governo presente in terra svizzera era Fumio Kishida, la cui presenza non è mai stata in discussione. Non solo perché nei giorni precedenti si trovava in Italia per il summit del G7, ma anche per la postura internazionale adottata dal Giappone negli ultimi anni.
Kishida è stato il primo, proprio dallo Shangri-La Dialogue del 2022, a paventare il rischio che in futuro l’Asia possa diventare la “prossima Ucraina”, schierandosi con decisione al fianco di Kiev e contro Mosca. Kishida ha anche visitato la capitale ucraina e Bucha nel marzo 2023, proprio in contemporanea (forse non casuale) con la visita a Mosca del presidente cinese Xi Jinping, suo rivale regionale. Kishida ha enormemente rafforzato l’alleanza militare con gli Stati Uniti e ha potenziato la partnership con la Nato. Insomma, la presenza giapponese in Svizzera era scontata e rappresenta davvero il minimo indispensabile.
Passando in rassegna gli altri Paesi, spicca ovviamente l’assenza della Cina. Anche questa non è una sorpresa. Pechino aveva già ampiamente annunciato che non ci sarebbe stata. A livello ufficiale, non viene criticata l’iniziativa svizzera ma si sottolinea che per portare davvero alla pace una conferenza o un vertice deve prevedere la partecipazione di entrambe le parti coinvolte. La Cina ha posto sostanzialmente tre condizioni per la sua presenza a conferenze di pace: riconoscimento sia di Mosca sia di Kiev, partecipazione in eguale misura e ascolto a entrambe le proposte di pace.
Nella retorica cinese, la stessa sin dall’inizio della guerra, vanno tutelate sia l’integrità territoriale che le “legittime preoccupazioni di sicurezza” di tutti i Paesi. Ciò significa che va ascoltato anche il punto di vista di Mosca, dandole delle garanzie. Non è un mistero che nella narrativa cinese gli Stati Uniti e la Nato abbiano gettato “benzina sul fuoco” della crisi ucraina, favorendo la prosecuzione della guerra piuttosto che una sua soluzione pacifica. La Cina continua a negare di aver fornito sostegno militare alla Russia e anzi ritiene che gli invii di armi americane e occidentali in Ucraina allontanino la soluzione negoziale. Insomma, la Cina pensa che la conferenza svizzera sia in qualche modo servita più a “continuare la guerra” che a raggiungere la pace, promuovendo una divisione in blocchi. Sottotraccia, si lavora per una seconda conferenza, riconosciuta sia dalla Russia sia dall’Ucraina. Un progetto ancora embrionale ma che vedrebbe la sponda del Brasile e che potrebbe ricevere maggiore impulso a cavallo del G20 di novembre, quando Xi Jinping sarà da Lula in Brasile.
L’assenza cinese pesa parecchio, ma colpisce il basso profilo mantenuto da altri Paesi come la Corea del Sud, che ha inviato solo un vice ministro. Seul ha seguito le orme di Tokyo “giapponesizzando” la sua politica estera con il presidente conservatore Yoon Suk-yeol e ci si aspettava forse un sostegno più forte. Parziale delusione anche dalle Filippine, in rotta di collisione con la Cina. Il presidente Ferdinand Marcos ha ricevuto Zelensky a Manila due settimane fa, ma alla fine non si presenta in prima persona, mandando comunque il suo consigliere su pace e riconciliazione, Carlito Galvez Jr. Singapore, primo Paese asiatico a emanare sanzioni verso Mosca a tutela degli Stati più piccoli di non essere invasi da quelli più grandi, non manda il premier Lawrence Wong come sembrava ma la ministra degli Esteri Ann Sim.
Non si è presentato neppure Narendra Modi, nonostante come Kishida si trovasse al G7 pugliese. Il premier indiano pare voglioso di continuare a bilanciare la sua postura mantenendo i legami storici con la Russia, peraltro partner di Nuova Delhi in ambito BRICS. Non è un caso che né l’India né l’Indonesia (anche lei con una presenza di non altissimo profilo) abbiano deciso di non sottoscrivere il documento finale della conferenza.
Interessante e inattesa invece la partecipazione, seppur solo con l’ambasciatore in Svizzera, della Thailandia. Bangkok ha appena chiesto ufficialmente l’adesione ai Brics ma il governo civile di Srettha Thavisin sta tentando di rafforzare i legami con l’Occidente dopo i vari golpe militari degli ultimi anni. Obiettivo: presentare la Thailandia come un partner affidabile e un porto sicuro per gli investimenti. Non sorprendono invece le assenze di Cambogia, Laos e Vietnam, che mantengono relazioni forti con la Russia. Nei prossimi giorni, Putin dovrebbe peraltro arrivare ad Hanoi in visita ufficiale. Prevista una tappa anche in Corea del Nord, il Paese che più di tutti appoggia esplicitamente la guerra del Cremlino, che nei giorni scorsi Kim Jong-un ha definito “missione sacra”.
Insomma, l’Asia resta ancora in qualche modo distante dalla prospettiva europea. Seppure diversi Paesi abbiano mostrato vicinanza e solidarietà all’Ucraina, le idee su come raggiungere la pace non sono sempre le stesse di quelle dell’Occidente.
Cina: l’anno del Drago si presenta turbolento
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Il 2024 è il 75esimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese. Come sta la seconda potenza mondiale? Rallentamento economico, disoccupazione giovanile, crisi demografica e turbolenze geopolitiche.
L’anno del drago. Il 10 febbraio comincia il conto alla rovescia che porterà al 75esimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, che ricorre il prossimo 1° ottobre. L’avvicinamento avverrà all’ombra del segno più amato dell’astrologia cinese, quel drago simbolo di potenza e che da sempre contraddistingue la simbologia del gigante asiatico, sin dai tempi imperiali. Mancheranno dunque solo 25 anni al centenario del 2049. Sì, “solo”, perché il Partito comunista è abituato a pensare sul lungo termine, a maggior ragione se all’orizzonte si intravede la data limite individuata per completare il “grande ringiovanimento nazionale” e rendere la Cina una “moderna potenza socialista”. D’altronde, all’alba del terzo millennio l’ex presidente Jiang Zemin aveva profetizzato un “ventennio di opportunità strategiche”, prontamente materializzatosi tra post 11 settembre, crisi finanziaria soprattutto occidentale e deterioramento del sistema democratico. Un ventennio finito forse con qualche anticipo, tra pandemia di Covid-19 e guerra in Ucraina, che hanno accelerato le dinamiche della competizione strategica con gli Stati Uniti.
Eppure, nell’ultimo quarto di secolo che la Repubblica Popolare fondata da Mao Zedong nel 1949 ha davanti prima dello storico giro di boa, le sfide sembrano più delle opportunità. Basti rileggere il rapporto di lavoro di Xi Jinping al XX Congresso del Partito comunista cinese dell’ottobre 2022, quello in cui ottiene il suo terzo mandato da segretario generale, così come il suo discorso di chiusura: la “nuova era” è fatta da “acque turbolente” e “sfide senza precedenti”. O ancora: “Lungo il percorso, siamo destinati a incontrare dei venti contrari. Alcune imprese hanno avuto difficoltà. Alcune persone hanno avuto difficoltà a trovare lavoro e a soddisfare i bisogni primari”, ha detto Xi nel suo discorso di fine anno lo scorso dicembre, quando tutti i media internazionali si sono concentrati soprattutto sulle dichiarazioni (per la verità tutt’altro che inedite) a proposito di Taiwan e alla “riunificazione” come “necessità storica”.
Il presidente cinese ha di fatto ammesso che la Cina sta incontrando e incontrerà ancora dei problemi sulla strada della ripresa economica. Una ripresa che è stata più lenta del previsto dopo la fine delle restrizioni anti Covid, rimosse da gennaio 2023. La crescita del Pil è stata del 5,2%. Il dato è in linea con l’obiettivo “superiore al 5%” fissato dal governo, considerato però molto cauto dopo che nel 2022 il target era stato mancato di parecchio. Pechino rivendica che la sua crescita è la più alta tra le grandi economie mondiali. Vero, ma se si escludono gli anni della pandemia è il dato più basso dal 1990, l’anno dopo piazza Tiananmen.
Significativo che nel discorso tradizionalmente dedicato ai risultati conseguiti nell’anno appena trascorso, Xi non si sia tirato indietro nel citare anche alcune difficoltà. “Alcuni luoghi sono stati colpiti da inondazioni, tifoni, terremoti o altri disastri naturali. Tutti questi aspetti rimangono in primo piano nella mia mente. Quando vedo che le persone sono all’altezza della situazione, che si tendono la mano nelle avversità, che affrontano le sfide a testa alta e superano le difficoltà, mi commuovo profondamente”, ha proseguito. “Ricorderemo quest’anno come un anno di duro lavoro e perseveranza”, una delle parole chiave della retorica di Xi negli ultimi due anni.
D’altronde, gli ostacoli che sembrano pararsi di fronte a Pechino non sono pochi. Secondo le principali banche d’investimento internazionali, nel 2024 la crescita del Pil cinese sarà inferiore al 5%. “Turbolenze esterne e scarsa fiducia dei cittadini: abbiamo di fronte diversi rischi e incognite”, ha ammesso l’Ufficio nazionale di statistica presentando i dati del 2023. Sul piano interno, c’è da affrontare una crisi immobiliare che non sembra accennare a concludersi. Fin qui il governo ha evitato maxi interventi di salvataggio. D’altronde, fu lo stesso Xi a tracciare alcune “linee rosse” per l’operato del settore immobiliare, abituato a crescere in modo poco regolato e, soprattutto, con un modello di investimenti a debito altamente rischioso.
Pechino è intervenuta in modo intenzionale, consapevole di poter perdere qualche decimale a fronte di un cambio di paradigma per rendere settore e crescita più stabili. Ma dopo la caduta di Evergrande anche tanti altri colossi sono finiti in difficoltà, contagiando il sistema bancario ombra e dei fondi fiduciari, tradizionalmente legati a doppio filo proprio col settore immobiliare. Il gigante tentacolare Zhongzhi è finito in bancarotta.
Tutto ciò si ripercuote in modo negativo sui consumi. L’obiettivo indicato da tempo di Xi, cioè trasformare la cosiddetta fabbrica del mondo in una società di consumi interna, è rimasto ancora parzialmente inevaso. Anche perché nel frattempo la fiducia di cittadini e imprese non sembra tornata ai livelli pre Covid. A completare il quadro, un problema che è forse tra i principali sul medio lungo termine: il calo demografico.
La popolazione della Repubblica popolare è diminuita nel 2023 per il secondo anno consecutivo. Nel 2022 si erano perse 850 mila persone, primo storico calo dal 1961, tempo di carestia in seguito al “grande balzo in avanti” di Mao Zedong. Nel 2023 il calo è stato di 2,08 milioni, con l’India che ha operato il sorpasso su Pechino laureandosi nazione più popolosa al mondo. L’alta disoccupazione giovanile e i prezzi delle case stanno affossando i tentativi del governo di invertire il trend negativo. Agevolazioni fiscali, sussidi per l’acquisto delle case e congedi di maternità prolungati non stanno fin qui bastando a sollevare un tasso di natalità che ha raggiunto il minimo di 6,39 nascite ogni mille persone.
Non pare sin qui funzionare nemmeno la cosiddetta “politica del terzo figlio”: non solo perché è difficile scalfire una prassi divenuta anche culturale come quella del figlio unico, ma soprattutto per un mutamento profondo nella società cinese che da rurale è diventata urbana. Con l’aumento esponenziale della classe media, sono anche cambiati gli stili di vita. Sebbene il numero di matrimoni nel 2023 sia aumentato, aumentano anche le separazioni. Sposarsi meno e più tardi è poi una conseguenza naturale di una società più sviluppata economicamente e culturalmente, come già visto in tante altre società asiatiche e occidentali.
Già oggi il 21% della popolazione cinese (circa 297 milioni di persone) ha più di 60 anni, ma nel 2040 la percentuale dovrebbe arrivare al 28%. L’Accademia cinese delle scienze sociali ha previsto qualche anno fa che nel 2035 si potrebbe arrivare al potenziale esaurimento del sistema pensionistico. Tanto che Xi Jinping potrebbe essere costretto prima o poi a operare delicate riforme e aprire il dossier delle pensioni. L’età pensionabile in Cina è d’altronde tra le più basse al mondo: 60 anni per gli uomini, 55 per le impiegate e 50 per le donne che lavorano nelle fabbriche. Norme non più in linea con l’andamento economico e demografico del gigante asiatico.
Oltre all’economia, che già rappresenta un dossier cruciale, non mancano questioni di politica interna. Dopo aver rimodellato Comitato centrale e Politburo a sua immagine e somiglianza al Congresso del 2022, Xi ha dovuto rimuovere in rapida successione due ministri e consiglieri di Stato promossi lo scorso marzo. Soprattutto, due figure che gli sarebbero state vicine.
A fine luglio è stato rimosso il ministro degli Esteri Qin Gang. Ex ambasciatore negli Stati Uniti, Qin era stato protagonista di una rapida ascesa politica dovuta anche e soprattutto ai suoi rapporti con Xi. Qin ha perso il posto in mezzo a insistenti voci di una relazione extraconiugale con una reporter televisiva cinese, con importanti agganci internazionali. Una relazione che sarebbe nata mentre si trovava a Washington a ricoprire il ruolo più delicato della diplomazia cinese, cioè quello di ambasciatore negli Stati Uniti. Poche settimane dopo è toccato a Li Shangfu, il ministro della Difesa. In questo caso, la decisione sarebbe legata a un’indagine scaturita sulla precedente posizione di Li come responsabile delle forniture militari. E sarebbe all’interno di una vicenda molto più ampia, la stessa che ha portato Xi a silurare all’improvviso i vertici delle forze missilistiche dell’Esercito popolare di liberazione a inizio agosto. Mossa a cui sono seguiti altri avvicendamenti e allontanamenti a fine dicembre sia nelle forze armate che a capo di alcune delle industrie chiave per lo sviluppo aerospaziale. Mentre Qin è stato sostituito subito col ritorno di Wang Yi, il buco di ministro della Difesa è rimasto aperto per diversi mesi prima di venire coperto nelle ultime ore del 2023 con Dong Jun. Per la prima volta la Cina sceglie un ministro proveniente dalla Marina. Per la prima volta viene scelto un ufficiale che non fa parte, per ora, della Commissione militare centrale. Prima del centenario della Repubblica Popolare ci sarà quello dell’Esercito popolare di liberazione, nel 2027. Entro allora Xi ha chiesto dei passi avanti concreti sulla modernizzazione delle forze armate e sulla prontezza di combattimento. I recenti sconvolgimenti e la campagna anticorruzione dimostrano che di lavoro da fare ce n’è ancora parecchio, anche se la forza di fuoco di Pechino (soprattutto sul fronte navale) è in rapida e netta espansione.
Non mancano ovviamente le sfide strategiche. Al centro dell’attenzione resta sempre Taiwan, a maggior ragione dopo la vittoria di Lai Ching-te del Partito progressista democratico (DPP, il più inviso a Pechino) alle elezioni presidenziali del 13 gennaio. Lo status quo sullo Stretto traballa da un po’ e sulla sua stabilità inciderà in modo rilevante anche il voto per la Casa Bianca del prossimo novembre, ma in generale anche l’andamento dei rapporti con Washington.
Sul fronte internazionale, resta caldo il confine con l’India. Come svelato nelle scorse settimane, anche nel 2022 ci sono stati diversi episodi di scontri tra le truppe dei due Paesi lungo la frontiera contesa, anche durante i colloqui per stabilizzare una situazione resa volatile dalle violenze del giugno 2020, quando per la prima volta dopo tanti anni ci furono diversi morti da entrambe le parti.
Non da meno (anzi) le tensioni sul mar Cinese meridionale. In particolare, con le Filippine. Dall’estate del 2023 si sono succeduti scontri, incidenti, speronamenti e cannoni ad acqua tra le navi di Pechino e di Manila, quasi sempre in prossimità della secca di Second Thomas, ogni qualvolta le Filippine avviano missioni di rifornimento o sostituzione del piccolo drappello di militari di stanza sulla Sierra Madre, il relitto di una nave statunitense della Seconda Guerra Mondiale arenato volontariamente nei pressi di un atollo conteso e trasformato in una piccola base.
Attenzione poi al Myanmar, dove la guerra civile prosegue e anzi si è intensificata, coi gruppi ribelli armati che hanno conquistato diverse postazioni proprio al confine con la Cina. L’esercito birmano ha bombardato nei pressi della frontiera, facendo finire qualche colpo su territorio cinese come già accaduto in passato. Pechino non apprezza e pur mantenendo fitto il dialogo col regime golpista non disdegna la comunicazione coi gruppi etnicamente cinesi suoi rivali.
La Cina osserva con qualche apprensione anche quanto accade sui suoi mari orientali. La tensione crescente sulla penisola coreana pare destinata ad attirare ancora più attenzione degli Usa nell’area, con il rafforzamento delle manovre militari con Corea del Sud e Giappone. La Corea del Nord di Kim Jong-un rinsalda invece l’asse con la Russia, con Vladimir Putin che sembrerebbe presto visitare Pyongyang. Sarà interessante vedere i movimenti di Xi, che nel corso del 2024 dovrebbe incontrare il premier giapponese Fumio Kishida e il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol per riesumare il meccanismo di dialogo trilaterale rimasto inattivo dal 2019.
L’anno del drago si presenta turbolento e Pechino spera di non dover sputare fiamme.
Il confine tra le due Coree torna caldissimo
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Nel giro di un paio di settimane, la Corea del Nord ha inviato più di mille palloni aerostatici per far cadere tonnellate di rifiuti e letame nel Sud, come rappresaglia contro le campagne di propaganda sudcoreane
Da una parte, palloni aerostatici pieni di rifiuti e persino escrementi. Dall’altra, gli altoparlanti con messaggi anti regime e musica K-Pop. Il confine tra le due Coree torna caldissimo e non solo per le manovre militari, ma ancor prima per azioni a metà tra l’ampliamento della zona grigia e la propaganda. Nel giro di un paio di settimane, la Corea del Nord ha inviato più di mille palloni aerostatici per far cadere tonnellate di rifiuti e letame nel Sud, come rappresaglia contro le campagne di volantinaggio civile sudcoreane. Qualche giorno fa, Pyongyang aveva comunicato che avrebbe interrotto l’invio di palloni, ma la Corea del Sud ha sospeso l’accordo militare intercoreano del 2018, che prevedeva alcune misure per abbassare le tensioni.
In una controreplica, nel fine settimana il regime di Kim Jong-un ha ricominciato gli invii. E lo ha fatto in modo consistente. Lo Stato Maggiore della Corea del Sud ha dichiarato di aver rilevato che il Nord ha lanciato circa 330 palloni verso il Sud da sabato sera e che circa 80 sono stati trovati in territorio sudcoreano domenica mattina.
I militari hanno detto che sabato sera i venti soffiavano verso est, il che potrebbe aver fatto sì che molti palloni galleggiassero lontano dal territorio sudcoreano. I militari del Sud hanno detto che i palloni che sono atterrati hanno lasciato cadere rifiuti, tra cui plastica e carta, ma non sono state scoperte sostanze pericolose. L’esercito, che ha mobilitato unità di pronto intervento chimico e di bonifica degli esplosivi per recuperare i palloni e i materiali nordcoreani, ha avvertito la popolazione di fare attenzione alla caduta di oggetti e di non toccare i palloni trovati a terra, ma di segnalarli alla polizia o alle autorità militari. Nei giorni precedenti molti palloni contenevano letame, mozziconi di sigarette, brandelli di stoffa, batterie esauste e carta straccia. Alcuni sono stati fatti scoppiare e sparsi su strade, aree residenziali e scuole.
Ma Seul, dopo la sospensione dell’accordo è passata al contrattacco. La decisione di cancellare le disposizioni di sei anni fa, sottoscritte nel momento di massimo dialogo tra le due parti che sfociò nei due summit tra Kim Jong-un e Donald Trump tra Vietnam e Singapore, consente alla Corea del Sud di ricominciare le esercitazioni militari a fuoco vivo e le trasmissioni di propaganda anti-nordcoreana nelle aree di confine.
Sono ripresi i lanci di palloni contenenti all’incirca 200 mila volantini con messaggi anti regime e chiavette usb contenenti musica K-Pop e serie televisive sudcoreane, i cosiddetti K-Drama ormai celebri in tutto il mondo ma che in Corea del Nord sono tutti severamente vietati. Non solo. Le autorità di Seul hanno comunicato l’immediato ritorno in funzione degli storici altoparlanti lungo il confine. Verrà trasmessa musica K-Pop ma anche e soprattutto messaggi di propaganda. Era dal gennaio 2016 che non accadeva. Allora la decisione fu presa in risposta al quarto test nucleare di Pyongyang.
Ma attenzione perché la vicenda rischia seriamente di non fermarsi qui. Diversi analisti ritengono che la reazione di Seul possa portare a delle manovre militari nordcoreane nei pressi della frontiera. D’altronde, il contesto in cui si inserisce questo nuovo incidente è parecchio teso. Lo scorso novembre la Corea del Sud aveva già sospeso una parte dell’accordo del 2018 in risposta al lancio del primo satellite spia da parte di Pyongyang. Il ritorno a manovre contrapposte militari nei pressi della zona demilitarizzata ha già avuto delle conseguenze. Nei primi giorni del 2024, sono stati sparati dei colpi di artiglieria, alcuni oltre la zona cuscinetto tracciata sul confine marittimo conteso.
Nel mirino c’era l’isola sudcoreana di Yeonpyeong, dove vivono circa duemila civili. Per la prima volta dopo diversi anni è stata ordinata l’evacuazione. In un bombardamento del 2010, sulla stessa isola rimasero uccise quattro persone.
Poche settimane dopo, Kim Jong-un ha dato un’importante svolta politica e retorica, chiedendo di emendare la costituzione per cui la Corea del Sud verrà etichettata come “nemico principale e immutabile”. Alla separazione territoriale fa seguito anche una separazione quasi identitaria, visto che con la modifica costituzionale i sudcoreani non sarebbero più chiamati compatrioti ma appunto nemici.
Secondo alcuni analisti, la svolta è di portata storica perché di fatto disconosce la storica linea della Corea del Nord, secondo cui l’obiettivo ultimo è sempre stato fin qui quello della riunificazione col Sud. Un cambio di paradigma che ha delle conseguenze non solo retoriche ma anche molto pratiche. Sono state subito chiuse e abolite tutte le agenzie che promuovono la cooperazione intercoreana e il dialogo. Come già era accaduto nel 2020 con l’ufficio di collegamento di Kaesong, Kim ha poi imposto la distruzione del monumento alla riunificazione nella capitale. Nelle scorse settimane è stato invece distrutto un segmento della ferrovia intercoreana. Sembra di più di una semplice mossa tattica o propagandistica, anche perché nel frattempo la Corea del Nord è sempre più esplicitamente alleata alla Russia. Dopo averlo incontrato a settembre nell’Estremo Oriente Russo, Kim si appresta anche a ricevere Vladimir Putin a Pyongyang nel prossimo futuro. Una visita che probabilmente porterà nuovi motivi di tensione in uno scenario già teso e nel quale è difficile immaginare come si possa ottenere una de-escalation.
Domani l’annuncio dei risultati, pochi dubbi sulla vittoria di Modi
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L’obiettivo di Modi per queste elezioni era stravincere. Domani i risultati ma già sembra certo il suo terzo mandato. 969 milioni di elettori avrebbero consegnato al partito BJP del Primo Ministro la vittoria con più seggi della scorsa legislatura, secondo gli exit poll
Ci siamo. Dopo un mese e mezzo di operazioni, martedì 4 giugno è il momento in cui verranno annunciati i risultati delle elezioni generali in India. Sabato 1° giugno si è svolta l’ultima delle tante sessioni di voto che si sono succedute ad aprile, uno sforzo mastodontico per un Paese da 1,4 miliardi di abitanti e 969 milioni di cittadini aventi diritto di voto. Con ogni probabilità, Narendra Modi sarà confermato primo ministro per uno storico terzo mandato, anche se durante la campagna elettorale pare siano salite le quotazioni dell’ampia coalizione di opposizione che gravita intorno al Partito del Congresso guidato da Rahul Gandhi, appartenente alla dinastia politica più nota del Paese.
Negli scorsi giorni hanno iniziato a circolare i primi exit poll. Secondo un aggregato con sei fonti diverse, la coalizione di governo guidata dal Bharatiya Janata Party (BJP) di Modi sarebbe proiettata a una netta vittoria. Servono almeno 272 seggi in parlamento per formare un governo e si prevede che possano essere raggiunti tra i 355 e i 380 seggi, sopra i 353 della scorsa legislatura. Il BJP potrebbe arrivare da solo a 327 seggi mentre, secondo Reuters, il blocco di opposizione India dovrebbe ottenere tra i 125 e i 165 seggi.
Va ricordato e sottolineato che gli exit poll in India sono raramente affidabili, anche perché spesso macchiati da una netta partigianeria. Tanto che dall’opposizione sostengono di poter persino vincere. Ma se i dati fossero in qualche modo confermati si tratterebbe di una vittoria netta che consoliderebbe ulteriormente la presa del BJP. Anche se gli obiettivi annunciati alla vigilia da Modi e dai suoi alleati erano persino più ambiziosi. Il premier ultranazionalista indù ha infatti indicato in 370 seggi il target del BJP da solo e 400 seggi per la coalizione. Solo una volta, nei 77 anni di indipendenza dell’India, un partito o un’alleanza ha ottenuto più di 400 seggi: il Partito del Congresso, ora all’opposizione, nel 1984, all’indomani dell’assassinio del primo ministro Indira Gandhi.
In ogni caso, il terzo mandato di Modi sembra pressoché scontato. Di certo il BJP conquisterà i suoi Stati roccaforte, tra cui Gujarat, Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Delhi, Uttarakhand e Himachal Pradesh. La coalizione d’opposizione dovrebbe ottenere buoni risultati negli Stati meridionali del Paese, ma la maggior parte degli exit poll suggerisce che il BJP potrebbe ottenere risultati ottimi anche lì. Sarebbe parzialmente una sorpresa, visto che si tratta di un’area del Paese tradizionalmente complessa da conquistare per il BJP.
Diversi exit poll prevedono che il partito di Modi potrebbe conquistare da due a tre seggi in Kerala, l’ultima roccaforte della sinistra indiana dove il partito di Modi non ha mai vinto. Alla portata anche da uno a tre seggi in Tamil Nadu, dove aveva subito una rara batosta alle ultime elezioni. Si tratterebbe di successi fondamentali che darebbero a Modi una nuova proiezione in aree a lui solitamente ostili. Non a caso, durante la campagna elettorale Modi ha visitato sei volte nel giro di pochi mesi il Tamil Nadu, che da solo esprime ben 39 seggi. Anche qui ha utilizzato un tema storico-culturale per attrarre consensi, riesumando una vecchia contesa territoriale con lo Sri Lanka sull’isola Katchatheevu. Una mossa ad alto contenuto strategico per erodere i consensi di cui gode nell’area il Congresso, visto che l’alleato Dravida Munnetra Kazhagam non ha mai approvato la cessione dell’isola effettuata dal partito della dinastia Gandhi.
L’obiettivo di Modi è stravincere. Modi afferma che un’altra vittoria schiacciante per l’Alleanza Nazionale Democratica, guidata dal BJP, è fondamentale per raggiungere il suo obiettivo di portare l’India a un’economia sviluppata entro il 2047, partendo da livelli di reddito medio. La quinta economia mondiale è cresciuta rapidamente negli ultimi anni e Modi ha “garantito” di portarla alla terza posizione se vincesse le elezioni.
La campagna per la rielezione di Modi è stata contraddistinta dall’utilizzo dell’arma retorica del timore: lui e il BJP hanno continuamente proiettato il primo ministro come salvatore della popolazione indù contro una cospirazione dell’opposizione a favore dei musulmani, che nei comizi elettorali ha definito “infiltrati” e “quelli con più figli”. Non sorprende, visto che sin dall’inizio della sua ascesa politica ha solleticato i sentimenti ultranazionalisti indù e una volta entrato in carica ha eroso i diritti delle minoranze musulmane con mosse come la nuova legge sulla cittadinanza e la revoca dell’autonomia del Kashmir. A gennaio, Modi ha dato il via alla campagna elettorale con l’inaugurazione del tempio di Ayodhya, confermando l’ostilità verso la minoranza musulmana. Il tempio è stato infatti costruito sul terreno dove una moschea di epoca Moghul, chiamata Babri Masjid, sorgeva per secoli prima di essere demolita nel 1992 da una folla mobilitata da organizzazioni ultraindù. Negli ultimi giorni prima del voto ha anche detto che lui “è stato scelto da Dio”. E pare proprio che verrà scelto anche dagli indiani per la terza volta.
Avvio burrascoso per Lai Ching-te: l’obiettivo status quo si complica
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Nuove esercitazioni militari cinesi e battaglia politica per la riforma del potere legislativo. Questa volta le esercitazioni sono durate solo 2 giorni, senza missili balistici e senza portaerei, ma è stato creato un effetto di accerchiamento e il messaggio è chiaro.
Era difficile immaginare un inizio più movimentato per Lai Ching-te. Il nuovo presidente della Repubblica di Cina (Taiwan) ha dovuto far fronte nel giro di una settimana alle esercitazioni militari della Repubblica Popolare Cinese e al caos interno dovuto alla proposta di riforma del parlamento che ha portato a estese proteste per le strade di Taipei. Il suo obiettivo dichiarato, vale a dire quello di tutela dello status quo, appare dunque piu complicato da raggiungere del previsto.
A Taipei ci si aspettava una reazione da parte di Pechino al discorso di insediamento di Lai. A prescindere da quello che avrebbe detto, visto che per il Partito comunista cinese qualsiasi cosa che non sia riconoscere il principio della “unica Cina” non basta. A maggior ragione ci si aspettava però una reazione dopo che Lai ha pronunciato un discorso molto assertivo, lasciando subito capire che il suo stile di governo sarà piuttosto diverso da quello della ex leader Tsai Ing-wen.
Abbandonando molte delle cautele retoriche e lessicali della compagna di partito (ed ex rivale interna), Lai ha elaborato in maniera rilevante il concetto di sovranità e quello di indipendenza.
Vero che non si tratta di una novità, visto che tutti i presidenti hanno sempre rivendicato la sovranità di Taipei, ma rispettando almeno formalmente il perimetro della Repubblica di Cina. Lai ha invece molto taiwanesizzato l’approccio, equiparando il nome con cui Taipei è indipendente de facto (Repubblica di Cina, appunto) a quello che perseguirebbe in caso di dichiarazione di indipendenza formale (Taiwan). Di più. Non ha riaffermato la guida della costituzione nel regolare i rapporti intrastretto, una delle rassicurazioni principali che Tsai ha invece sempre fornito a Pechino.
Ed ecco allora la due giorni delle esercitazioni “Spada Congiunta 2024A”. Si tratta delle terze grandi esercitazioni intorno a Taiwan degli ultimi anni, dopo quelle di agosto 2022 dopo la visita di Nancy Pelosi e quelle di aprile 2023 in risposta al doppio scalo di Tsai negli Usa, con annesso incontro col successore di Pelosi alla presidenza della Camera dei Rappresentanti, Kevin McCarthy. Rispetto alle due precedenti, non sono stati lanciati missili balistici (come ad agosto 2022) e non è stata utilizzata una portaerei (come ad aprile 2023) e la durata è stata inferiore: due giorni invece dei tre di aprile 2023 e i dieci di agosto 2022. Ma questo non significa che la qualità delle esercitazioni sia stata minore.
Almeno su carta, è stato ricreato un effetto di accerchiamento. Navi e jet si sono mossi in cinque aree dislocate su tutti i lati dell’isola: nord, sud, ovest, est. Particolarmente critico il presidio della costa orientale, quella cioè da dove potrebbero ipoteticamente arrivare aiuti dall’esterno. L’Esercito popolare di liberazione ha dunque voluto mostrare di essere in grado di interdire azioni di attori terzi. Concetto rafforzato dalla simulazione di attacchi missilistici contro navi straniere e l’impiego della guardia costiera per la prima volta a est di Taiwan. La guardia costiera si è mossa contemporaneamente anche in corrispondenza delle isole minori Kinmen, Matsu e Wuqiu, a reiterare le sovranità su quelle acque e trasformando concettualmente lo Stretto in una sorta di mare interno.
La sensazione, confermata da diversi analisti cinesi e taiwanesi, è che sia stato testato soprattutto uno scenario ipotetico di blocco navale, quantomeno come disposizione delle forze “in campo”. Oltre al presidio totale della regione sono stati infatti condotti attacchi simulati contro obiettivi chiave, sia civili sia militari, dell’isola. Uno scenario che ben si sposa con un blocco, che avrebbe il vantaggio di colpire due gravi vulnerabilità di Taipei: la dipendenza della sua economia dalle esportazioni e la totale dipendenza delle sue riserve energetiche dall’approvvigionamento esterno.
Nel frattempo, a Taiwan si parla soprattutto delle grandi proteste di fronte al parlamento, dove venerdì si sono radunate circa 100 mila persone che si oppongono alla riforma che mira ad ampliare il potere del ramo legislativo e aumentare lo scrutinio dell’operato del governo. Una riforma voluta dall’opposizione (che in parlamento ha però la maggioranza unita) e osteggiata dal partito di governo di Lai, che prova a ricompattare il consenso rievocando le grandi proteste del 2014 del Movimento dei Girasoli, girando la questione su “resistenza all’autocrazia”.
L’opposizione sostiene invece che in passato gli stessi che oggi protestano erano a favore della riforma. Martedì è prevista la ripresa delle discussioni allo yuan legislativo, dove si temono nuove tensioni e nuovi scontri (anche fisici) come nelle scorse settimane. Di certo non mancheranno le proteste, mentre Lai deve capire come evitare che le frammentazioni interne abbiano un impatto negativo sulla sua già complicata presidenza.
E intanto a Taipei è arrivata anche la delegazione di Michael McCaul, capo della Commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti Usa. Se la prima settimana di presidenza Lai è un indicatore, di fronte a Taiwan ci sono quattro anni piuttosto movimentati.
Taiwan: si insedia oggi il nuovo Presidente Lai Ching-te
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Ci siamo. Lai Ching-te ora non è solo il presidente eletto, ma il presidente in carica di Taiwan. O meglio, della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taipei è indipendente de facto e retaggio della sconfitta dei nazionalisti di Chiang Kai-shek nella guerra civile contro i comunisti di Mao Zedong.
Vincitore delle presidenziali dello scorso 13 gennaio, Lai si insedia lunedì 20 maggio, poco più di quattro mesi dopo le urne. A lasciargli il posto è Tsai Ing-wen, che ha governato per otto turbolenti anni cominciati nel 2016. Lai è stato il suo vicepresidente per il secondo mandato, cominciato nel 2020.
Si tratta della prima volta che il passaggio di consegne avviene all’interno dello stesso partito, visto che dalle prime elezioni libere del 1996 c’era sempre stata un’alternanza al massimo dopo due mandati. Ma stavolta il Partito progressista democratico (DPP) è riuscito a vincere un voto presidenziale per la terza volta consecutiva.
Non è stato solo merito di Lai, visto che una buona parte del suo successo si deve alla divisione dell’opposizione in due diverse candidature tra Kuomintang (KMT, lo stesso partito che ha governato ininterrottamente fino al 2000 grazie anche alla legge marziale rimasta in vigore fino al 1987) e il Taiwan People’s Party dell’ex sindaco di Taipei, Ko Wen-je. Ma la vittoria di Lai non è stata una passeggiata, visto che il DPP ha perso circa cinque milioni di voti rispetto alle elezioni del 2020. E, soprattutto, ha perso la maggioranza parlamentare. Allo yuan legislativo, il parlamento unicamerale di Taiwan, ha infatti un seggio in meno del KMT.
Lai ha di fronte a sé una lunga lista di delicate sfide per il suo mandato di quattro anni. La prima e più complicata, ovviamente, è la gestione delle relazioni intrastretto con la Repubblica Popolare Cinese. Negli ultimi otto anni, i rapporti sono precipitati.
Dopo la vittoria di Tsai, qualsiasi dialogo politico tra governi è stato interrotto, mentre Pechino ha aumentato la pressione militare e diplomatica per ridurre lo spazio di manovra di Taipei. Il motivo originario è rappresentato da due posizioni inconciliabili. Il Partito comunista cinese (PCC) si dice pronto al dialogo solo col rispetto del “consenso del 1992”, un accordo raggiunto tra le due sponde che riconosce l’esistenza di una “unica Cina”.
L’interpretazione che PCC e KMT danno a quell’accordo è diversa: il primo ritiene che sia la de facto accettazione da parte di Taiwan di far parte del territorio della Cina, dunque della Repubblica Popolare che è quella riconosciuta da quasi la totalità dei governi nel mondo. Il secondo aggiunge invece una coda alla formula “unica Cina”, vale a dire “diverse interpretazioni”. Lasciando dunque aperta la possibilità di una coesistenza, seppure temporanea, di due diverse Cine. Un concetto che non lascia in ogni caso spazio a una indipendenza formale di Taiwan.
Il DPP non riconosce invece il “consenso del 1992” e si dice pronto al dialogo, qualora il PCC non ponga precondizioni e riconosca che Pechino e Taipei sono due entità separate e non interdipendenti l’una con l’altra. Posizioni inconciliabili, anche perché l’obiettivo originario del DPP era il raggiungimento di un’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan.
Il primo presidente del partito, Chen Shui-bian (2000-2008) ha provato a istituire un referendum, senza riuscirci. E la sua capacità di cambiare la costituzione è stata quasi del tutto assente, visto che ha governato per due mandati con il suo partito in minoranza allo yuan legislativo, il parlamento unicamerale di Taipei.
Tsai ha invece spostato il DPP verso il centro. Secondo la prima presidente donna, a Taiwan non serve dichiarare l’indipendenza formale ma basta quella de facto, seppure entro la cornice della Repubblica di Cina. Un cambio di prospettiva che le ha consentito di impadronirsi in parte della retorica dello “status quo”, che quasi il 90% dei taiwanesi dice di preferire come soluzione ai rapporti con Pechino. Fino a qualche anno fa, solo il KMT era percepito come garante dello status quo, perché l’unico in grado di mantenere il dialogo con il PCC.
Lai pare dunque intenzionato a mantenere la stessa linea di Tsai, anche se per lui si tratta di un cambiamento. In passato si è infatti esposto a favore dell’indipendenza formale. La sua frase più citata in tal senso è datata 2017, quando si definì un “lavoratore pragmatico per l’indipendenza”. Pechino non se lo è certo scordato e non a caso etichetta Lai come un “pericoloso secessionista”.
Pur non avendo mai aperto il dialogo con Tsai in questi otto anni, il PCC ha lasciato intendere di comprendere che fra i due esistono delle differenze. È prevedibile che Lai, pur mantenendo la stessa sostanza della postura intrastretto di Tsai, possa cambiarne leggermente la forma. In particolare sul fronte comunicativo, dove è solito rilasciare dichiarazioni meno misurate. Anche durante la campagna elettorale si è lasciato sfuggire un paio di dichiarazioni al di fuori della prassi istituzionale.
Nel primo caso ha confessato che il suo desiderio è che in futuro il presidente di Taiwan possa entrare alla Casa Bianca, eventualità che implicherebbe un riconoscimento ufficiale di Taipei da parte di Washington. Nel secondo caso ha invece detto che gli piacerebbe poter andare a cena con Xi Jinping, offrendogli un bubble tea. Pechino e Washington non hanno apprezzato.
Un ruolo importante sarà quello occupato dalla vicepresidente, Hsiao Bi-khim, molto popolare tra l’opinione pubblica e considerata una sorta di “garante” visti gli strettissimi rapporti con Tsai e la sua esperienza come rappresentate di Taipei negli Stati Uniti, dove è molto apprezzata.
Per il resto, Lai ha praticamente confermato buona parte della squadra di Tsai nei ruoli chiave. L’ex ministro degli Esteri Joseph Wu è passato alla Sicurezza Nazionale. Una nomina che potrebbe far presagire qualche acceso scontro retorico con Pechino, visto che Wu si è contraddistinto negli ultimi anni per una linea molto assertiva e ostile al governo cinese anche sui social.
Uno dei problemi principali di Lai sarà un parlamento frammentato e in cui il DPP non ha la maggioranza. Di fatto, il presidente rischia di essere una “anatra zoppa” sin dal primo giorno. Un antipasto di quanto potrebbe accadere è arrivato venerdì 17 maggio, con una clamorosa rissa in aula dopo un litigio furibondo su una bozza di riforma del potere legislativo, appoggiata da KMT e TPP ma osteggiata dal partito di governo.
Un episodio che ha fatto nuovamente scatenare divisioni interne all’opinione pubblica taiwanese, che negli ultimi anni sembravano in larga parte sopite. Elemento che può chiaramente diventare positivo per la Repubblica Popolare, che ha mostrato di voler fare leva sul KMT per mettere in difficoltà il DPP e conquistare qualche punto politico sul dossier taiwanese. In tal senso va letto il recente incontro tra Xi Jinping e l’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou, ancora un nome rilevante all’interno del KMT, a cui il leader cinese ha fatto seguire delle concessioni sul turismo.
Lai ha di fronte a sé anche diversi problemi interni. Tra tutti, l’altissimo prezzo delle case sempre più fuori portata per i salari minimi. Risultato: sempre meno giovani sono in grado di acquistare un’abitazione e di costruirsi una famiglia, come testimonia il continuo e irreversibile calo demografico. Attenzione poi anche all’energia: il DPP è tradizionalmente contro il nucleare, ma la dipendenza quasi totale dalle importazioni sta alimentando le richieste dell’opposizione che vorrebbe inserire l’atomo nel mix energetico taiwanese.
Singapore: chi è Lawrence Wong
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Da mercoledì 15 maggio Wong sarà il nuovo Premier e prenderà il posto dell’ultimo leader della dinastia Lee. Riuscirà a navigare tra le acque turbolente della competizione internazionale per mantenere il ruolo di Singapore, tradizionale ponte tra Occidente e Asia orientale?
Trentuno, tredici e diciannove. Sono gli anni passati al potere dai suoi predecessori. Difficile però immaginare ora se Lawrence Wog riuscirà a essere così longevo come primo ministro di Singapore. La città-Stato si prepara al suo quarto passaggio di potere dal 1965, anno dell’indipendenza dalla Malesia.
Mercoledì 15 maggio, Wong prenderà il posto di Lee Hsien Loong, in carica dal 2004. E lo fa in un momento particolarmente delicato per Singapore, sempre più stretta nella competizione globale e regionale tra Stati Uniti e Cina. Wong era stato da tempo annunciato come successore di Lee, ultimo erede della dinastia del padre della patria Lee Kuan Yew, ma i tempi sono stati affrettati.
Inizialmente, il cambio della guardia doveva avvenire in autunno. Ma il 15 aprile è arrivato l’annuncio che la sostituzione sarebbe invece avvenuta solo trenta giorni più tardi. Alle otto di sera è prevista la cerimonia di giuramento presso il palazzo presidenziale. Dopo Goh Chok Tong, Wong diventerà così il secondo premier a non far parte della famiglia Lee.
Wong, che compirà 53 anni l’anno prossimo, ha origini umili e non ha frequentato scuole d’élite. Suo padre è nato in Cina ma si è trasferito a Singapore e sua madre era un’insegnante. La sua ascesa politica è stata rapida. È stato il principale segretario privato di Lee dal 2005 al 2008, è entrato in politica nel 2011 e da allora ha ricoperto diversi incarichi ministeriali. In particolare, ha guidato i ministeri dell’Istruzione e dello Sviluppo nazionale prima di diventare ministro delle Finanze nel 2021.
Dopo aver guidato con successo Singapore in risposta alla pandemia di Covid-19 nel ruolo di co-presidente della task force istituita in materia del governo, Wong è stato scelto dai suoi colleghi di gabinetto all’inizio del 2022 come leader della prossima generazione. Poco dopo, Lee lo ha nominato vice primo ministro. I diversi portafogli che Wong ha ricoperto gli hanno permesso di acquisire un’ampia esperienza politica.
Tuttavia, il suo periodo come vice primo ministro è stato breve, tanto che si prevede che per i prossimi anni la sua squadra includerà molti dei leader della sua generazione, la terza secondo i canoni del Partito d’Azione Popolare (PAP), al potere ininterrottamente dal 1965.
Wong dovrà affrontare diversi problemi. Dall’aprile 2022, momento in cui viene di fatto indicato come futuro successore di Lee, le spaccature nella società di Singapore si sono allargate con l’aumento del costo della vita e una maggiore disuguaglianza.
Il risentimento dei lavoratori stranieri, una parte consistente della forza lavoro della città, è aumentato. Questo sta portando i singaporiani a fare sempre meno figli o a lasciare la città-stato, mentre la percezione del paese come centro finanziario stabile sta venendo intaccata dall’incremento della corruzione e dal riciclaggio di denaro “sporco”. Il tutto mentre il PAP deve affrontare diverse pressioni per passare da una leadership illiberale a un governo più inclusivo.
Wong è sempre stato piuttosto schivo, ma per farsi conoscere dall’opinione pubblica ha postato un video su TikTok in cui suonava con la chitarra “Love Story”, una canzone di Taylor Swift. Scelta non casuale, visto che la cantante americana è stata a Singapore per diverse date del suo tour, che nel Sud-Est asiatico si è fermato solo nella città-Stato rilanciando il turismo e facendo arrabbiare i Paesi vicini che aspiravano a ospitare anche loro Swift.
Ma un’altra ombra, ingombrante, sul mandato di Wong è senz’altro la rivalità tra Stati Uniti e Cina, che si sta ripercuotendo sempre più sulla sicurezza della regione. Basti pensare alle tensioni tra Pechino e Filippine nel mar Cinese meridionale. Singapore appare uno tra i Paesi più preoccupati, anche perché la sua storica postura neutrale viene messa a dura prova.
In un’intervista rilasciata all’Economist a inizio maggio, Wong ha dichiarato che non è né pro-Cina né pro-America, ma “pro-Singapore”. Secondo Wong, l’ordine globale sta cambiando e la transizione sarà difficile perché, sebbene il momento unipolare dell’America sia terminato, questa rimane una potenza preminente in un mondo che avrà più di una grande potenza.
“La Cina vede certamente negli Stati Uniti il tentativo di contenerli, accerchiarli e sopprimerli, cercando di negare il posto che spetta alla Cina nel mondo”, ha dichiarato. “Sentono che c’è questo contenimento per mettere in ginocchio la Cina; c’è questa sensazione, e per ogni azione, ci sarà una reazione opposta”, ha aggiunto.
Singapore ha messo in atto delle sanzioni contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, ma Wong lascia intendere che in un ipotetico confronto con la Cina potrebbe comportarsi diversamente. “Taiwan è fondamentalmente molto diversa dall’Ucraina, anche se si è cercato di fare un parallelismo tra le due. L’Ucraina è un Paese sovrano e l’invasione russa è stata una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite e una violazione della sovranità e dell’integrità territoriale”.
Ma la preoccupazione di Singapore è anche e soprattutto economico-finanziaria. Wong ha più volte affermato che mentre i militari sono molto attenti ai danni collaterali, alle ritorsioni e all’escalation nella guerra convenzionale, è meno semplice valutare le ricadute dell’uso di strumenti economici e finanziari a fini geopolitici. Riuscire a navigare tra le acque turbolente della competizione internazionale per mantenere il ruolo di tradizionale ponte tra Occidente e Asia orientale sarà tutt’altro che semplice.
Xi Jinping: il viaggio in Europa
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Il viaggio di Xi Jinping in Europa inizia a Parigi, dove torna dopo 5 anni. Ai colloqui francesi parteciperà anche Ursula von der Leyen, invitata da Macron per affermare l’unità europea sui temi più spinosi, come quello del commercio.
Xi Jinping torna in Europa. Prima che, nel pomeriggio di domenica 5 maggio, il presidente cinese mettesse piede a Parigi, erano passati oltre cinque anni dall’ultima visita. Nel frattempo, è cambiato davvero tutto.
Giunto all’aeroporto di Orly della capitale francese, Xi è stato accolto dal primo ministro Gabriel Attal. Lunedì 6 maggio in programma l’incontro con il presidente Emmanuel Macron, utile a celebrare i 60 anni dell’avvio delle relazioni diplomatiche tra Francia e Repubblica Popolare Cinese. In mattinata, ai due leader si unirà anche Ursula von der Leyen.
Come già accaduto nell’aprile 2024, infatti, Macron ha chiesto alla presidente della Commissione europea di partecipare ai colloqui con Xi. Un modo per mostrare unità europea, ma secondo qualche maligno anche una strategia per lasciare a lei il dovere di affrontare i temi più scomodi. Basti ricordare la diversa accoglienza riservata ai due l’anno scorso per capire come Pechino percepisce o quantomeno descrive le due figure.
Sul tavolo dell’incontro trilaterale peseranno diverse questioni controverse. In primis il commercio. L’imminente chiusura dell’indagine dell’Unione Europea sui presunti sussidi di Stato alle aziende private potrebbe portare all’introduzione di nuovi dazi sulle importazioni di auto elettriche cinesi nel Vecchio Continente.
La Germania è più scettica, come dimostra il recente viaggio in Cina del cancelliere Olaf Scholz in compagnia dei manager delle grandi case automobilistiche tedesche. La Francia appare invece più convinta. Pechino, non a caso, ha risposto all’ipotesi delle tariffe sui suoi veicoli elettrici con dei dazi sull’import di brandy europeo, che per la quasi totalità dei casi proviene proprio da Parigi.
Non è tutto. L’Ue ha infatti messo nel mirino altri comparti dell’industria tecnologica verde cinese, dalle batterie ai pannelli solari. Non mancano le frizioni anche sulle attrezzature mediche e sui dispositivi di sicurezza della Nuctech. Motivo di contesa anche le critiche europee sull’eccesso di produzione cinese, col timore dell’immissione di prodotti in grado di distorcere i prezzi globali. Dall’altra parte, Pechino contesta la “politicizzazione” dei rapporti commerciali e la strategia di “riduzione del rischio” che considera una sorta di “disaccoppiamento mascherato”.
Dal pomeriggio in poi, il clima dovrebbe però distendersi. Dopo un cerimonia ufficiale di benvenuto agli Invalides, spazio all’incontro bilaterale tra Xi e Macron. Si discuterà sulla base del documento congiunto firmato lo scorso anno durante la visita del presidente francese, che per Pechino simboleggia un modello di “coesistenza pacifica e cooperazione win-win” tra Paesi con sistemi diversi. Insomma, quello che persegue con tutti i Paesi occidentali.
In seguito, ci sarà la cena di Stato all’Eliseo. Martedì poi Macron accompagnerà Xi in una tappa dalle forte tinte “personali”, sul Tourmalet nella regione dei Pirenei. Proprio qui il presidente francese ha trascorso diverso tempo durante la sua infanzia. È in questa sede che Macron cercherà un dialogo più diretto e intimo con Xi, anche sulla guerra in Ucraina. Era successa la stessa cosa a parti invertite lo scorso anno, quindi Xi aveva inusualmente abbandonato Pechino per accompagnare Macron a Guangzhou.
Il presidente francese mira all’aiuto cinese per ottenere una tregua durante le Olimpiadi della prossima estate, che si svolgeranno proprio a Parigi. “Sarebbe un messaggio forte per il mondo intero”, ha detto Macron in un’intervista al quotidiano francese La Tribune. Xi ribadirà la sua disponibilità a sostenere un percorso di pace, che per Pechino però passa attraverso il dialogo con Vladimir Putin e il rispetto delle “legittime preoccupazioni di sicurezza” della Russia.
Comunque vada, Xi ha preparato altre due tappe dove le eventuali critiche lasceranno il posto agli elogi. Basti guardare a come si sta preparando al suo arrivo il presidente serbo Aleksandar Vucic, che ha spiegato nei giorni scorsi come il presidente cinese andrebbe ascoltato di più dall’Occidente perché in grado “di fermare alcune guerre e stabilire una pace duratura”.
In Serbia, Xi arriverà nei giorni del 25esimo anniversario del bombardamento della Nato sull’ambasciata cinese di Belgrado. Fu un errore, ma dalla capitale serba il presidente cinese potrebbe più o meno esplicitamente rivolgere delle critiche alla Nato. Un modo per individuare i presunti colpevoli della “benzina sul fuoco” dei conflitti internazionali.
In Ungheria, invece, Xi potrà incontrare un altro leader non allineato come Viktor Orban. Insieme a lui parlerà della linea ferroviaria Belgrado-Budapest, uno dei progetti europei di punta della Belt and Road Initiative. Ma dovrebbe anche inaugurare una fabbrica di Great Wall Motors, una delle case cinesi di auto elettriche.
Non molto tempo dopo il rientro a Pechino, Xi riceverà poi per la terza volta in poco più di due anni il presidente russo Vladimir Putin. A conferma di una partnership che non è sin qui in discussione.
La Cina ospita i colloqui tra Hamas e Fatah
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Al di là dell’esito degli incontri, la Cina punta a rafforzare la propria immagine di garante di stabilità e potenza responsabile in grado di dialogare con tutti. E sul Medio Oriente le sta riuscendo meglio che sulla guerra in Ucraina.
La Cina entra con decisione sulla crisi del Medio Oriente. E in particolare sulla questione palestinese. Le delegazioni del gruppo islamista Hamas e del movimento politico Fatah si trovano infatti a Pechino, per una serie di colloqui mirati alla creazione di un governo di unità nazionale. Hamas è responsabile degli attacchi dello scorso 7 ottobre contro Israele, mentre Fatah controlla politicamente la Cisgiordania ed esprime il presidente dell’Autorità Palestinese riconosciuta dall’Occidente, vale a dire Mahmoud Abbas. Le due fazioni palestinesi rivali non sono riuscite a sanare le loro dispute politiche da quando i combattenti di Hamas hanno espulso Fatah da Gaza nel 2007.
Da alcuni giorni, i media libanesi e arabi avevano anticipato il viaggio cinese delle delegazioni delle due fazioni. Venerdì è arrivata la sostanziale conferma, seppure implicita, di Pechino. “La Cina ha sempre sostenuto il rafforzamento dell’Autorità palestinese e appoggia la riconciliazione interna delle fazioni palestinesi”, ha dichiarato in conferenza stampa Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri cinese.
Le due delegazioni, guidate da alti funzionari, sono arrivate nella capitale cinese tra venerdì sera e sabato mattina. E gli incontri sarebbero già iniziati. Quella di Fatah è guidata dall’alto funzionario Azzam Al-Ahmed. Quella di Hamas invece dal vice capo dell’ufficio politico, Moussa Abu Marzouk. È la prima volta che una delegazione di Hamas si reca pubblicamente in Cina dall’inizio della guerra a Gaza.
Proprio venerdì, al termine del suo viaggio in Cina, il segretario di stato americano Antony Blinken aveva riconosciuto il possibile ruolo di Pechino nel ridurre le tensioni in Medio Oriente. Ma gli Stati Uniti diffidano dei tentativi di riconciliazione tra le fazioni palestinesi, visto che ritengono Hamas un gruppo terroristico. La Cina ha invece sempre tenuto aperto un canale di dialogo. E a marzo, l’inviato Wang Kejian ha incontrato i vertici politici di Hamas in Qatar, trovando l’accordo per ospitare i colloqui.
Negli ultimi anni, d’altronde, la Cina ha nettamente aumentato la sua influenza diplomatica e commerciale in Medio Oriente. Nel dicembre 2022, Xi Jinping ha effettuato il suo secondo viaggio all’estero dopo la pandemia di Covid-19 in Arabia Saudita. In quella sede ha firmato 34 accordi bilaterali per un valore di circa 30 miliardi di dollari, ma soprattutto Xi ha partecipato anche a un incontro multilaterale coi Paesi del Consiglio del Golfo.
Nel 2023, Xi ha ricevuto il presidente iraniano Ebrahim Raisi, mentre proprio a Pechino si sono svolti i colloqui decisivi sfociati in un accordo tra Arabia Saudita e Iran per il riavvio delle relazioni diplomatiche tra i due rivali regionali.
Sempre lo scorso anno, a Pechino è stato in visita anche Abbas. Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, la Cina ha subito ribadito la sua storica posizione a favore della soluzione dei due Stati e nelle settimane successive ha detto di sostenere l’unità e il coordinamento dei Paesi musulmani sulla questione palestinese. Nei mesi scorsi è stata ricevuta una delegazione di ministri degli Esteri di Paesi a maggioranza musulmana: Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Indonesia e Autorità Nazionale Palestinese. In quell’occasione, il ministro degli Esteri Wang Yi ha dichiarato: “Siamo un buon amico e un fratello dei paesi arabi e islamici”.
A febbraio, Pechino ha sollecitato la Corte internazionale di giustizia a pronunciarsi sull’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Nelle scorse settimane, ha fatto invece pressioni per l’attuazione della soluzione dei due Stati e per l’ingresso della Palestina nelle Nazioni Unite. Tutte azioni che potrebbero portare dei vantaggi sulla posizione cinese in Medio Oriente, ma anche sui suoi rapporti con altri Paesi a maggioranza musulmana. A partire da quelli più vicini, vale a dire nel Sud-Est asiatico, con Malesia e Indonesia.
In questo contesto si inserisce la nuova iniziativa sui colloqui tra Hamas e Fatah. Al di là dell’esito degli incontri, la Cina punta a rafforzare l’immagine che prova a dare di sé di garante di stabilità e potenza responsabile in grado di dialogare con tutti. E sul Medio Oriente le sta riuscendo meglio che sulla guerra in Ucraina.
Cina/Usa: uno stabile disaccordo
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Antony Blinken torna in Cina meno di un anno dopo la visita di giugno. Tanti i dossier divisivi tra cui lo stop Usa a TikTok e gli aiuti a Taiwan. Ma resta importante che continuino a dialogare per gestire in modo responsabile un rapporto cruciale per gli equilibri globali
Non sono più i tempi del presunto pallone spia che fece saltare la visita di Antony Blinken nel febbraio 2023. Ma non sono nemmeno quelli delle palline da ping pong che lanciarono le diplomazie tra i due Paesi durante la guerra fredda. Stati Uniti e Cina continuano a parlarsi, anche senza andare d’accordo. È già qualcosa, certo. Ma sui dossier più spinosi delle relazioni bilaterali più importanti del pianeta non sono previste svolte, nemmeno in occasione della nuova visita di Blinken in Cina. Il segretario di Stato americano sarà a Shanghai e Pechino tra il 24 e il 26 aprile, dieci mesi dopo la visita dello scorso giugno.
Il tempismo è molto delicato. Sia per le vicende internazionali, dalla guerra in Ucraina alle tensioni sempre maggiori in Medio Oriente, sia per quelle bilaterali, con le manovre contrapposte sul mar Cinese meridionale e sullo Stretto di Taiwan, per non parlare del fronte commerciale e tecnologico. Alla vigilia della partenza di Blinken, la Camera dei Rappresentanti degli Usa ha peraltro approvato un pacchetto di aiuti esteri che oltre a Ucraina e Israele include anche Taiwan, a cui saranno destinati otto miliardi di dollari. Non solo. Nello stesso pacchetto è stata inserita la norma anti TikTok, che impone alla casa madre cinese ByteDance di vendere la sua creatura internazionale entro nove mesi per evitarne la messa al bando su territorio americano. Come se non bastasse, l’amministrazione Biden ha reso chiaro che oltre a triplicare i dazi sull’acciaio cinesi, è pronta a inserire tariffe sui pannelli solari di Pechino nell’ambito della battaglia sull’industria tecnologica verde che pare destinata a includere presto anche le auto elettriche.
Da parte americana, si lascia trapelare che in cima all’agenda di Blinken ci saranno i rapporti tra Cina e Russia. Blinken intende “ribadire le nostre profonde preoccupazioni riguardo al sostegno della Repubblica Popolare Cinese alla base industriale della difesa russa”, nonché alle sue violazioni dei diritti umani e alle “pratiche economiche e commerciali sleali”, ha dichiarato un battagliero ma anonimo funzionario del Dipartimento di Stato ai media statunitensi in preparazione del viaggio.
Nelle ultime settimane la retorica di Blinken e in generale dell’amministrazione Biden si è fatta più esplicita in materia del presunto sostegno cinese alla Russia. Ne ha parlato anche la segretaria al Tesoro Janet Yellen durante il suo recente viaggio in Cina, avvenuto peraltro quasi in contemporanea con quello del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. E lo stesso Joe Biden si è detto preoccupato a riguardo nella telefonata di qualche settimana fa con Xi Jinping.
Nel mirino ci sono soprattutto le esportazioni di dispositivi dual use che potrebbero avere un’applicazione militare. La scorsa settimana, alti funzionari statunitensi hanno reso noto un elenco di tecnologie che la Cina avrebbe inviato alla Russia. Nel 2023, hanno dichiarato che il 90% dei chip importati dalla Russia proveniva dalla Cina ed era utilizzato per produrre missili, carri armati e aerei. Il 70% delle importazioni di macchine utensili russe nell’ultimo trimestre dello scorso anno proveniva dalla Cina ed era “probabilmente utilizzato” per produrre missili balistici.
Pechino ha sempre negato e sostiene che esagerare il rischio di utilizzo militare dell’export di prodotti civili rientra in una strategia di “diffamazione” della Cina, che si professa invece neutrale e l’unica in grado di mantenere il dialogo con tutte le parti in causa. Su queste basi, è molto difficile che si ottengano risultati in materia. Blinken potrebbe provare a convincere Pechino a partecipare alla conferenza sulla pace in programma a giugno in Svizzera, ma la Cina ha fatto capire che la sua presenza è legata a quella della Russia, che pare pressoché impossibile.
Si parlerà anche di Medio Oriente. Anche qui le posizioni sono distanti. La Cina critica il sostegno degli Usa a Israele, in particolare per i nuovi aiuti militari. La retorica è la stessa utilizzata sull’Ucraina. In sostanza, Washington starebbe gettando “benzina sul fuoco” dei conflitti, invece che contribuire ad allentare la tensione e favorire la pace.
Attenzione poi ai dossier più attigui ai rapporti bilaterali. La visita di Blinken in Cina è prevista poche settimane prima dell’insediamento del presidente eletto di Taiwan Lai Ching-te, che Pechino considera un “secessionista”. Per l’inaugurazione, prevista per il 20 maggio, gli Stati Uniti invieranno una delegazione non ufficiale che comprende l’ex vicesegretario di Stato Richard Armitage e Laura Rosenberger, che presiede l’American Institute in Taiwan. L’approvazione dei nuovi aiuti aggiunge tensioni su un dossier sul quale è impossibile trovare un accordo.
Blinken e il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ribadiranno le rispettive linee rosse, ma il massimo che si può sperare è una stabilizzazione del disaccordo e una ripartenza piena del dialogo anche sul fronte militare, che pare essere avvenuta con la telefonata dei giorni scorsi tra il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin e il ministro della Difesa cinese Dong Jun.
Non meno importante, e certamente non meno tesa, la situazione sul mar Cinese meridionale. In particolare intorno alle isole contese tra Cina e Filippine, dove da mesi si verificano incidenti tra le navi di Pechino e Manila. Di recente, Pechino ha osservato con fastidio il summit trilaterale alla Casa Bianca tra Biden, il premier giapponese Fumio Kishida e il presidente filippino Ferdinand Marcos Junior, con una serie di misure per rafforzare i rapporti di sicurezza.
Blinken chiarirà i confini oltre i quali Washington sarebbe forzata a intervenire per il trattato di mutua difesa che la lega a Manila, mentre i funzionari cinesi chiederanno di non interferire su una vicenda che ritengono essere di interesse esclusivo dei Paesi asiatici.
Blinken parlerà anche di fentanil, la principale causa di morte degli americani tra i 18 e i 49 anni. Secondo la U.S. Drug Enforcement Administration, la Cina rimane la principale fonte di sostanze legate al fentanil trafficate attraverso le operazioni internazionali di spedizione per posta e per espresso. Blinken chiederà maggiore sostegno nella lotta al traffico della sostanza.
Anche se le due potenze non si troveranno improvvisamente d’accordo su una lunga serie di tematiche, resta importante che continuino a dialogare per gestire in modo responsabile un rapporto cruciale per gli equilibri globali.
Voto in Corea del Sud: batosta per i Conservatori del presidente Yoon
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Il risultato era atteso ma la sua proporzione è andata al di là delle previsioni. Le conseguenze politiche sono state immediate. Yoon, in carica fino al 2027, sarà un’anatra zoppa, con riflessi anche sulla politica estera, tema su cui i due principali partiti sono agli antipodi.
Avrebbe dovuto mettere a punto una risposta dopo la pesante sconfitta incassata alle elezioni legislative di mercoledì 10 aprile. Invece ha trascorso la domenica in una riunione d’emergenza per la sicurezza, organizzata di fretta dopo l’attacco dell’Iran contro Israele. Yoon Suk-yeol è in difficoltà.
Il presidente della Corea del Sud ha assistito inerte alla batosta subita dal suo Partito del Potere Popolare: solo 108 seggi su 300 dell’Assemblea Nazionale, conquistati peraltro in tandem con il partito satellite. I restanti 192 sono tutti finiti all’opposizione. Ben 176 solo al Partito democratico, la principale forza d’opposizione guidata dal grande rivale Lee Jae-myung, sconfitto al fotofinish da Yoon alle presidenziali del 2022.
Il risultato era atteso, almeno secondo i sondaggi della vigilia, ma la sua proporzione è andata al di là delle previsioni. Le conseguenze politiche sono state immediate. Il leader del partito conservatore al governo, Han Dong-hoo, si è dimesso. Non è bastato il suo appello all’ultimo comizio, secondo cui una vittoria dell’opposizione avrebbe potuto rendere la Corea del Sud un “Paese filocinese”. Hanno rimesso il proprio incarico anche il primo ministro Han Duck-soo, il capo di gabinetto Lee Kwan-sup e tutti gli alti segretari presidenziali. Resta da vedere se Yoon accetterà tutte le dimissioni, rischiando un pericoloso vuoto gestionale. Ma di certo il presidente è azzoppato fino al 2027, per i suoi restanti tre anni di mandato.
L’agenda interna dell’amministrazione Yoon pare destinata a restare bloccata. Una delle idee che Yoon aveva promesso di perseguire, cioè l’unione amministrativa della città di Gimpo (nella provincia di Gyeonggi), con la capitale Seul, sarà, salvo sorprese, archiviata. Il cosiddetto progetto “Megacity Seoul” ha infatti bisogno di un sostegno che l’opposizione non è intenzionata a concedere.
Anche diverse altre iniziative governative sono destinate a incontrare ostacoli, tra cui un piano che prevede un allentamento dei regolamenti immobiliari per favorire la riqualificazione degli appartamenti più vecchi in tutto il Paese. L’opposizione si è opposta ai piani immobiliari dell’amministrazione Yoon, definendoli iniziative che “avvantaggiano solo i ricchi”. Una retorica, questa, molto presente nei discorsi di Lee, che non a caso non disdegna il soprannome di “Bernie Sanders sudcoreano”.
Anche il tentativo di Yoon di evitare l’implementazione del sistema di tassazione dei redditi finanziari, previsto per il 1° gennaio del prossimo anno, potrebbe andare a vuoto. Il sistema mira a imporre una tassa del 20% agli investitori che hanno guadagnato plusvalenze superiori a 50 milioni di won (38.000 dollari) da investimenti azionari, mentre coloro che hanno guadagnato più di 300 milioni di won saranno soggetti a una tassa del 25%. L’opposizione ha chiesto l’attuazione programmata della tassazione, che è già stata ritardata di due anni, sostenendo che un eventuale scarto potrebbe comportare una perdita di 1.500 miliardi di won all’anno in termini di tasse.
Nel frattempo, è probabile che il blocco dell’opposizione lavori per l’approvazione di un disegno di legge speciale per un’indagine sui sospetti che il governo e la polizia abbiano esercitato un’influenza nel ritardare le indagini sulla morte di un giovane marine, travolto il 19 luglio dell’anno scorso mentre si trovava in una missione di soccorso durante un’alluvione.
Previsto anche un aumento delle pressioni per fare luce sullo scandalo che ha visto protagonista Kim Keon-hee, la moglie di Yoon, che avrebbe accettato in regalo una borsa Dior da un pastore protestante divenuto una sorta di confidente. La stessa Kim non ha accompagnato il marito al seggio nel giorno del voto, attirando nuove polemiche.
L’opposizione continuerà poi a chiedere l’istituzione di una commissione speciale d’inchiesta sulla strage di Itaewon del 29 ottobre 2022. Durante i festeggiamenti per Halloween, 156 persone morirono nella calca del noto quartiere notturno di Seul. In molti hanno additato la quasi totale assenza di misure di sicurezza, con il quasi contemporaneo dispiegamento di polizia nei pressi dell’ufficio presidenziale per una piccola protesta. Ufficio presidenziale che lo stesso Yoon ha voluto spostare dalla più lontana Casa Blu all’edificio del ministero della Difesa, non lontano proprio dal luogo della tragedia.
I contorni della vicenda non sono ancora stati chiariti, di certo nessun componente del governo ha pagato le conseguenze o si è preso la responsabilità. E Yoon ha più volte opposto il veto presidenziale contro le richieste di istituire una commissione d’indagine.
La buona notizia per il presidente è che l’opposizione non ha raggiunto la maggioranza dei due terzi dei seggi, necessaria per avviare la procedura di impeachment. Ma di fatto Yoon sarà un’anatra zoppa. Un aspetto che potrebbe avere qualche riflesso anche sulla politica estera, tema su cui i due principali partiti sono agli antipodi.
Da quando è presidente, Yoon ha rafforzato drasticamente l’alleanza militare con gli Stati Uniti, operato il disgelo col Giappone e adottato una linea dura sulla Corea del Nord, rispondendo “colpo su colpo” alle “provocazioni” di Pyongyang.
L’opposizione ha invece una linea più equidistante tra Usa e Cina, persegue il dialogo con Pyongyang e ritiene una “umiliazione nazionale” il riavvicinamento con Tokyo, giunto a costo di rinunciare alla richiesta di risarcimenti per gli abusi del periodo della dominazione coloniale giapponese.
Proprio a causa della batosta interna, Yoon potrebbe anche provare a proiettarsi con maggiore decisione sul fronte internazionale. Ma i problemi in casa potrebbero offuscare le sue manovre all’estero. A Washington, Tokyo, Pechino e Pyongyang hanno preso senz’altro nota.
Elezioni in Corea del Sud: Washington, Pechino, Tokyo e Pyongyang osservano con grande interesse
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Si vota il 10 aprile per le legislative. La campagna elettorale è stata piena di scandali. Il costo della vita e l’inflazione sono temi chiave tra gli elettori, oltre alla crisi delle nascite. La Corea del Sud è il Paese col più basso tasso di fertilità al mondo, e le più alte spese per crescere un figlio.
La lunga stagione dei veleni prosegue alle urne. In una Corea del Sud sempre più polarizzata, mercoledì 10 aprile si svolgono le elezioni legislative. Verranno rinnovati tutti e 300 i seggi dell’Assemblea nazionale, il parlamento unicamerale di Seul. Nonostante il voto abbia connotati soprattutto di politica interna, quantomeno nella mente degli elettori, l’esito della tornata elettorale potrebbe avere qualche riflesso sul fronte internazionale.
Alle precedenti legislative, svoltesi nell’aprile del 2020, il Partito Democratico dell’allora presidente Moon Jae-in conquistò una maggioranza storica con 163 seggi più 17 del partito satellite. Da allora è cambiato tutto.
Il dialogo con la Corea del Nord è definitivamente naufragato, soprattutto dopo che la guerra in Ucraina ha avvicinato ulteriormente Pyongyang a Mosca. Ma anche i rapporti con la Cina si sono fatti più tesi, per timore di un crescente allineamento sinorusso. Soprattutto, alla guida della Corea del Sud c’è ora il conservatore Yoon Suk-yeol, che ha vinto in modo risicato le presidenziali della primavera del 2022: il suo rivale Lee Jae-myung, soprannominato il “Bernie Sanders sudcoreano”, è stato sconfitto solamente dello 0,73%. Praticamente nulla. Yoon ha dato una netta svolta alla diplomazia di Seul: linea dura su Pyongyang, disgelo con il Giappone, netto rafforzamento dell’alleanza con gli Stati Uniti e grandi passi di avvicinamento alla Nato.
Ma la vittoria così risicata del 2022 ha, se possibile, ulteriormente polarizzato la scena politica. Lo stesso Lee guida oggi il Partito democratico alle legislative, tre mesi dopo aver subito un accoltellamento dal quale si è fortunatamente salvato. A settembre scorso, Lee era stato a lungo in ospedale a causa di uno sciopero della fame avviato per protestare contro la linea (definita “antidemocratica”) dell’amministrazione. Il parlamento si è opposto all’ultimo momento a un mandato di arresto per corruzione contro di lui, che l’opposizione riteneva motivato politicamente.
Negli scorsi mesi l’opposizione è più volte scesa in piazza contro le politiche economico-sociali del governo. Ma anche contro la traiettoria diplomatica intrapresa da Seul, che ha abbandonato il già complicato dialogo con la Corea del Nord rafforzando l’alleanza militare con Washington e operando un contestato disgelo col Giappone su pressing della Casa bianca. Il tutto persino a patto di rinunciare alla pretesa dei risarcimenti per gli abusi della dominazione coloniale: per tanti sudcoreani una “umiliazione”.
La campagna elettorale è stata piena di scandali. L’ambasciatore in Australia si è dimesso il mese scorso in seguito alle polemiche sulla sua nomina mentre era sotto inchiesta per corruzione, mentre ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica è stato soprattutto il caso delle borsa Dior che ha coinvolto nientemeno che la first lady.
Kim Keon-hee ha stretto un rapporto con il pastore coreano-americano Choi Jae-young, che ha più volte visitato la Corea del Nord e si è proposto come una sorta di “consigliere” sui rapporti con Pyongyang. Ma in un incontro del 2022, Choi sostiene di aver sentito Kim impegnata in una conversazione telefonica che riguardava questioni di Stato delicate. Allarmato dalla natura della presunta discussione, decide di registrare segretamente il loro successivo incontro, utilizzando una telecamera spia nascosta in un orologio da polso. Durante il secondo incontro con Kim, Choi le avrebbe regalato una borsa Dior del valore di 3 milioni di won (2240 dollari), ma su imboccamento del sito di notizie di sinistra Voice of Seoul. Un trappolone, secondo Yoon, che invece ricorda spesso l’inchiesta che vede coinvolto Lee, costretto ad apparire a delle udienze anche durante la campagna.
Il costo della vita e l’alta inflazione sono emersi come temi chiave tra gli elettori. In particolare, si è parlato molto del prezzo delle cipolle verdi, alimento importante per i sudcoreani, dopo che Yoon è stato contestato durante una visita a un mercato.
Un altro problema è la questione dei medici di formazione, in sciopero da diverse settimane insieme ai professori di medicina. All’inizio, la linea ferma mantenuta da Yoon sulla sua riforma di accesso alla professione aveva portato dei frutti nei sondaggi, ma ora gli ultimi rilevamenti mostrano un crescente sostegno pubblico per un compromesso tra i medici e il governo, che prevede di aumentare le ammissioni alle scuole di medicina di duemila unità a partire dal 2025.
Entrambi i partiti principali hanno messo in cima alla loro agenda elettorale la crisi delle nascite. La Corea del Sud è allo stesso tempo il Paese col più basso tasso di fertilità al mondo, ma anche le più alte spese per crescere un figlio. Sia conservatori sia democratici promettono misure quali alloggi pubblici e agevolazioni fiscali.
Nei sondaggi, l’opposizione democratica appare in vantaggio, ma non di molto. La vittoria netta del 2020 appare difficile da ripetere. Anzi, i conservatori sperano nel sorpasso. Attenzione all’inedito ruolo che potrebbero giocare i partiti minori. La politica sudcoreana è quasi sempre stata dominata dai due partiti principali, ma ora c’è almeno un terzo incomodo serio.
Si tratta del Partito della Ricostruzione, lanciato solo pochi mesi fa dall’ex ministro della Giustizia Cho Kuk, anche lui peraltro indagato per frode. Se davvero dovesse arrivare a sfiorare il 20% come suggeriscono alcuni sondaggi, potrebbe togliere voti fondamentali all’opposizione democratica.
L’esito del voto dirà se Yoon avrà pieno mandato per portare avanti le sue politiche nella seconda parte del suo mandato, aprendo anche a riforme precedentemente impensabili, oppure se sarà azzoppato fino al 2027. Washington, Pechino e Tokyo osservano con grande interesse. E, ovviamente, anche Pyongyang.
La corsa di Modi verso il terzo mandato
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A meno di un mese dalle elezioni, arrestato Arvind Kejriwal, leader di uno dei partiti di opposizione e capo del governo locale a Nuova Delhi. Kejriwal è il candidato alla guida di una coalizione di 27 partiti che si sono uniti per combattere Modi.
A meno di un mese dalle elezioni generali al via il 19 aprile, in India cade un altro leader dell’opposizione. E la strada per Narendra Modi si fa sempre più spianata verso il suo terzo mandato da premier.
L’oppositore in questione è Arvind Kejriwal, capo del governo locale di Delhi, che è stato arrestato con l’accusa di corruzione. Si tratta del più alto funzionario eletto nella capitale indiana ed è la prima volta che una figura della sua portata finisce in manette mentre è ancora in carica.
Kejriwal è accusato di essere coinvolto in un’indagine su una presunta truffa che riguardava tangenti da circa 12 milioni di dollari per la concessione di licenze di alcolici. Il tribunale ha stabilito una custodia cautelare di sei giorni. Dopo di che, il 28 marzo, sarà riportato davanti al giudice per riesaminare il caso.
Si tratta di un bruttissimo colpo per lui, visto che nel 2015 ha vinto le elezioni locali a Delhi proprio con una forte retorica anti corruzione. La vicenda rischia di avere un impatto sulle elezioni, visto che Kejriwal è il candidato alla guida del suo partito Aam Aadmi (AAP), movimento che fa parte di una coalizione di 27 partiti che si sono uniti per combattere Modi e il suo Bharatiya Janata Party (BJP) .
La dirigenza dell’AAP non ha perso tempo nel sostenere che l’arresto è motivato politicamente e che l’inchiesta sia una “cospirazione per impedire a Kejriwal di partecipare alle elezioni”. L’agenzia che ha trattenuto Kejriwal è sotto il controllo del governo centrale. Secondo i critici del governo, è una delle numerose agenzie che sono state utilizzate contro l’opposizione politica del BJP. Ma secondo l’accusa sarebbe proprio lui il “perno” della cosiddetta truffa dei liquori.
I leader dell’AAP hanno giurato che Kejriwal rimarrà come capo ministro e continuerà a governare anche dal carcere. E intanto sono esplose le proteste. Nel fine settimana si sono succedute le manifestazioni nelle strade della capitale per chiedere il rilascio. La folla ha intonato diversi slogan tra cui “Kejriwal è la rovina di Modi” e “La dittatura non sarà tollerata”.
I manifestanti hanno accusato Modi di governare il Paese in stato di emergenza e di utilizzare le forze dell’ordine federali per soffocare i partiti di opposizione prima delle elezioni. Diversi tra i presenti alle proteste, compresi alcuni politici, si sono anche scontrati con la polizia. “L’arresto di Kejriwal è un omicidio della democrazia”, ha dichiarato Balbir Singh, ministro della Sanità del Punjab, all’Associated Press. “Per i leader dell’opposizione, il carcere è la regola e la cauzione è l’eccezione”, ha aggiunto. Singh ha anche accusato il partito di Modi di “aver stravolto lo stato di diritto”.
Il BJP nega di aver preso di mira l’opposizione e afferma che le forze dell’ordine agiscono in modo indipendente. Ma intanto l’arresto di Kejriwal è avvenuto nello stesso giorno in cui il Partito del Congresso, anch’esso parte della coalizione anti Modi, ha affermato che il BJP ha congelato i suoi conti in un caso fiscale “inventato” di oltre due decenni fa, impedendogli di fare campagna elettorale. Circa 20 milioni di dollari (16 milioni di sterline) appartenenti al Congresso sono stati congelati dal dipartimento delle imposte sul reddito, ha dichiarato il partito. La leader del Congresso, Sonia Gandhi, ha descritto questo come uno “sforzo sistematico per paralizzare il partito dal punto di vista finanziario”.
Rahul Gandhi ha affermato che “un dittatore spaventato vuole creare una democrazia morta”. Lo stesso Gandhi è stato espulso dal Parlamento l’anno scorso, a causa di una condanna per diffamazione derivante da un suo discorso molto critico nei confronti di Modi risalente ad anni prima. Di fatto, l’espulsione ha pregiudicato le possibilità elettorali di Gandhi, che in quel momento era da poco reduce da una vasta marcia per il Paese nel tentativo di rilanciare l’opposizione.
Modi, nel frattempo, prosegue la sua campagna elettorale fin qui ricca anche di elementi ultranazionalisti. Basti pensare a quanto accaduto lo scorso 22 gennaio, quando Modi ha inaugurato il tempio indù di Ayodhya, costruito sul terreno dove si trovava una moschea di epoca Moghul poi demolita nel 1992 da una folla mobilitata da organizzazioni ultraindù.
Nelle ultime settimane, il premier è stato in vari territori lungo il confine con la Cina e col Pakistan, fomentando il sentimento nazionalista. Modi è stato anche in Kashmir: era il suo primo viaggio nell’area dopo che nel 2019 il suo governo ne aveva improvvisamente revocato l’autonomia, scorporandone il territorio in due parti.
Tutto lascia pensare che Modi otterrà il suo terzo mandato. Certo, con la caduta dei suoi rivali gli ostacoli rischiano di diventare ancora inferiori a quanto si potesse pensare.
Il nuovo tour asiatico di Antony Blinken
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Il Segretario di Stato americano prova a dare qualche segnale di rassicurazione ai partner e alleati in Asia orientale. Oggi al summit in Corea del Sud e domani dal Presidente Marcos nelle Filippine per rafforzare l’asse con Manila.
Ancora una volta, Antony Blinken va in Asia orientale. È successo tante volte, dopo il 24 febbraio 2022 e l’invasione su larga scala dell’Ucraina. La necessità è sempre la medesima: comunicare ad alleati e partner della regione che gli Stati Uniti continuano a dare grande rilevanza, se non priorità, a quel quadrante.
Per Washington è necessario fugare i dubbi sul nascere, soprattutto dopo che oltre al fronte ucraino si è aperto quello del Medio Oriente dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e la durissima azione militare di Israele contro Gaza.
In un momento nel quale le tensioni con la Cina sono tutt’altro che risolte, sia per alcuni degli attori regionali sia per gli stessi Usa, e in cui la Corea del Nord continua a rafforzare e “istituzionalizzare” la sua alleanza con la Russia, il segretario di Stato americano prova dunque a dare qualche segnale di rassicurazione.
Lunedì 18 marzo, Blinken si trova in Corea del Sud, per partecipare al summit per la democrazia di Seul. Non si tratta di un summit qualsiasi, ma della terza edizione della piattaforma lanciata da Joe Biden nel 2021 durante il suo primo anno alla Casa Bianca. Dopo le prime due edizioni in “casa”, la Corea del Sud è il primo Paese straniero a ospitare il summit voluto dal presidente statunitense.
Il tema prescelto è “Democrazia per le generazioni future” e si svolge in un anno in cui oltre 60 Paesi si sono recati o si recheranno alle urne, da ultimo la Russia lo scorso fine settimana.
A Seul sono riuniti circa 300 delegati, tra cui funzionari governativi, rappresentanti di organizzazioni internazionali, del mondo accademico e della società civile. Il primo giorno di incontri è guidato dalla politica, il secondo proprio dalla società civile.
L’apertura del summit è affidata a Yoon Suk-yeol, il presidente sudcoreano alle prese con la campagna elettorale delle legislative di aprile. Insieme a Yoon parlano anche la premier danese Mette Frederiksen e il presidente kenyota William Ruto.
Nella prima sessione si parla principalmente di società inclusive e di empowerment dei giovani, nella seconda di tecnologia, elezioni e fake news. La terza e ultima sessione esplora i temi del Sud globale e dei partenariati di governance. Prevista anche una conferenza ministeriale e una tavola rotonda sul tema dell’intelligenza artificiale.
È proprio nella sede della conferenza ministeriale che Blinken incontra il ministro degli Esteri sudcoreano Cho Tae-yul, con cui ha in programma un bilaterale a margine dei lavori. I due discutono di come rafforzare l’alleanza, mentre Washington e Seul esplorano come migliorare la cosiddetta “deterrenza estesa” contro la Corea del Nord. Previsto anche un incontro con lo stesso Yoon.
Gli argomenti sul tavolo sono tantissimi, dopo che la scorsa settimana sono state concluse le esercitazioni militari congiunte più importanti ed estese da diversi anni a questa parte. Blinken e Cho, che si sono incontrati a Washington solo a febbraio, parleranno anche del tema delle spese militari. I colloqui sulla condivisione dei costi per il mantenimento delle oltre 28 mila truppe americane in Corea del Sud sono già in corso e sono peraltro in anticipo rispetto alla tabella di marcia.
Ma la sensazione è che entrambe le parti vogliano arrivare a una soluzione prima delle elezioni presidenziali di novembre. A Seul ricordano bene il duro confronto avvenuto durante il mandato di Donald Trump, che chiedeva un aumento esponenziale dei contributi sudcoreani. L’accordo fu poi chiuso con l’arrivo di Biden con un aumento del 4%. Ecco perché la Corea del Sud, conscia dell’approccio più concreto ed economicista di Trump, preferirebbe evitare di dover trattare di nuovo sul dossier con il leader repubblicano qualora tornasse alla Casa Bianca. Sono stati già nominati degli inviati per arrivare a un accordo, nonostante quello attuale scada solo a fine 2025.
Martedì 19 marzo Blinken si sposta nelle Filippine. A Manila verrà ricevuto dal presidente Ferdinand Marcos Junior, reduce peraltro da un tour europeo che lo ha portato in Germania e in Repubblica Ceca. Marcos è stato di recente anche in Vietnam e Australia, nel tentativo di rafforzare le relazioni internazionali delle Filippine, mai come in questo periodo decise nel reiterare le proprie pretese di sovranità sulle acque contese con la Cina nel mar Cinese meridionale.
Negli ultimi mesi sono stati molti gli incidenti tra le navi dei due Paesi, tra collisioni e cannoni ad acqua. Se ne parlerà senz’altro con Blinken, visto il trattato di mutua difesa che lega Washington e Manila, che con l’avvento di Marcos ha archiviato la parentesi filocinese del suo predecessore Rodrigo Duterte per tornare in forte allineamento con gli States.
Nelle scorse settimane, il governo filippino ha annunciato un accordo con gli Usa per ammodernare e ampliare un porto civile che si affaccia sul canale di Bashi, vale a dire il punto più vicino a Taiwan del territorio filippino. Già lo scorso anno, Manila ha concesso l’ingresso alle truppe americane a quattro ulteriori basi militari sul proprio territorio.
Blinken e Marcos parleranno di sicurezza e mar Cinese meridionale, con Pechino che osserva le dichiarazioni frutto dell’incontro. I due prepareranno anche la nuova visita del presidente filippino alla Casa Bianca, che dopo esserci entrato lo scorso maggio ci entrerà di nuovo in un significativo vertice trilaterale insieme a Biden e al premier giapponese Fumio Kishida.
India/Cina e la frontiera contesa
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L’India sposta migliaia di truppe nei pressi del confine con la Cina. Si riaccendono gli animi lungo la cosiddetta linea MacMahon, una diatriba che ha origine da un accordo del secolo scorso tra il Tibet autonomo e l’India britannica, non riconosciuto da Pechino.
Torna ad agitarsi la frontiera tra Cina e India. Secondo i media indiani, Nuova Delhi ha infatti previsto l’invio di un’unità di ben diecimila soldati nella regione, precedentemente dislocati nelle periferie occidentali del Paese, per rafforzare le difese sul confine conteso. Il contingente esistente di circa 9000 soldati, già designato per il confine con la Cina, sarà portato sotto il comando di combattimento della nuova unità. La forza combinata sorveglierà un tratto di confine di 532 chilometri che separa la regione autonoma cinese del Tibet dagli Stati settentrionali indiani di Uttarakhand e Himachal Pradesh.
L’assegnazione senza precedenti di truppe, sostenute da artiglieria e supporto aereo, a questo tratto di confine evidenzia sia l’importanza strategica della regione sia la sua crescente sensibilità agli occhi del governo indiano.
Non va peraltro dimenticato che l’India è in periodo di campagna elettorale e il primo ministro Narendra Modi ha alzato i livelli della sua retorica nazionalista in vista delle urne di aprile dove è a caccia del terzo mandato.
L’area interessata dal provvedimento, viene fatto non a caso notare dai media indiani, ospita alcuni dei santuari più sacri dell’induismo. Proprio qualche settimana fa Modi ha inaugurato un controverso tempio indù sul sito dove un tempo sorgeva una moschea. E negli scorsi giorni ha visitato il Kashmir per la prima volta da quando, nel 2019, lo ha privato dell’autonomia di cui godeva precedentemente.
La reazione di Pechino è stata tutt’altro che positiva, come prevedibile. “La Cina è impegnata a collaborare con l’India per salvaguardare la pace e la stabilità delle zone di confine”, ha dichiarato nei giorni scorsi Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri cinese. “Riteniamo che la pratica dell’India non favorisca la salvaguardia della pace e non sia favorevole all’allentamento delle tensioni”.
Le origini della contesa
Ma quali sono esattamente i termini di questa contesa territoriale? Si tratta di una vicenda che ha più di un secolo e trova la sua origine nella cosiddetta “linea McMahon”, non riconosciuta da Pechino perché frutto di un accordo tra il Tibet autonomo e l’India britannica, con cessioni di una parte importante di territorio da quella che sarebbe poi diventata una regione autonoma della Repubblica Popolare.
Una contesa che riguarda diverse aree. In primis l’Aksai Chin, regione montuosa del Kashmir in mano alla Repubblica Popolare dalla guerra sino-indiana del 1962, nella quale sono morti circa duemila soldati. Si tratta di un’area montuosa che funge da strategico collegamento tra Tibet e Xinjiang e che Nuova Delhi continua a rivendicare come parte del Ladakh, una delle divisioni dello stato di Jammu e Kashmir.
La coda allungata dell’Aksai Chin tocca anche la zona strategica del lago himalayano Pangong Tso, che dal territorio indiano arriva a toccare il principale snodo stradale del Tibet. Il tutto dopo essere passata anche a toccare altri due stati indiani, l’Himachal Pradesh (dove col benestare di Nuova Delhi risiede, nella città di Dharamsala, il Dalai Lama fuggito dal Tibet dopo l’arrivo di Mao nel 1950) e l’Uttaranchal.
Scendendo a sud est, invece, si trovano altre due aree contese, La prima è quella del Sikkim, incastonato tra Nepal e Bhutan ed entrato a far parte dell’India nel 1975 con un referendum. La seconda, andando ancora più verso oriente dopo il Bhutan, è quella dell‘Arunachal Pradesh, controllato dall’India ma rivendicato da Pechino.
Riaccese le tensioni dal 2020
Le tensioni tra Cina e India si sono riaccese nel giugno 2020, quando uno scontro tra le truppe delle due parti risultò nella morte di diversi soldati di ambo le parti. Da allora, sono stati condotti diversi round negoziali per risolvere la situazione. Colloqui che hanno evitato altre morti ma che non hanno allentato del tutto le tensioni, visto che a più riprese ci sono stati scontri anche violenti.
A inizio 2024 è emerso che i militari dei due Paesi si sono scontrati almeno due volte nel 2022. I dettagli dei nuovi scontri sono stati rivelati dopo che l’esercito indiano ha conferito medaglie al valore ad alcuni dei suoi soldati, i quali avrebbero sfidato le truppe cinesi che cercavano di entrare in territorio indiano in almeno due incidenti nel 2022.
Nel frattempo, entrambe le parti proseguono a costruire strade ed edifici, fomentando la paranoia avversaria. Lo scorso settembre, le autorità di Pechino hanno rilasciato un elenco con denominazioni in mandarino di diverse località contese, comprese alcune sotto controllo indiano. La reciproca diffidenza è stata resa visibile anche a livello diplomatico, quando Xi Jinping ha evitato di partecipare al summit del G20 di Nuova Delhi, inviando al suo posto il premier Li Qiang. Ciò non impedisce ai due Paesi di sedere insieme all’interno dei Brics, peraltro appena allargati a dieci membri. Interessante anche incrociare le nuove manovre al confine con la sfida indiretta che sta andando in scena nell’oceano Indiano.
Le Maldive, che hanno di recente cambiato presidente, hanno imposto il ritiro entro maggio del drappello di militari indiani da tempo presente sull’arcipelago. Contestualmente, Malé ha firmato un accordo di assistenza militare con la Cina, suscitando fastidio a Nuova Delhi.
La partita del confine conteso pare destinata per ora a restare aperta e potrebbe anzi arricchirsi di un nuovo delicato dossier quando si dovrà stabilire la controversa successione del Dalai Lama.
Iniziate oggi a Pechino le “Due Sessioni”, conferenza politica annuale
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Inizio marzo, tempo di lianghui. Cioè le “due sessioni”, uno dei principali appuntamenti politici dell’anno in Cina e centro nevralgico della sua vita legislativa. Lunedì 4 marzo si aprono le riunioni della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Martedì 5 marzo è invece la volta dell’Assemblea nazionale del popolo.
La prima riunisce grandi personalità cinesi, provenienti da ogni sfera della vita economica, sociale, scientifica e sportiva. E, appunto, ha funzioni consultive. La seconda è invece quanto di più simile a un parlamento esista in Cina. La stragrande maggioranza dei suoi 2980 componenti è iscritta al Partito comunista, ma ci sono anche membri indipendenti e rappresentanti degli altri otto partiti legali (di certo non di opposizione) insieme nel Fronte unito. L’Assemblea nazionale del popolo ha funzioni legislative, anche se nella pratica si limita sostanzialmente a ratificare le decisioni prese dal Consiglio di Stato e dal Partito comunista.
Nel 2023, le “due sessioni” avevano certificato l’inizio del nuovo capitolo dell’era di Xi Jinping, conferendogli il terzo mandato da presidente della Repubblica Popolare Cinese dopo che nell’ottobre 2022 gli era stato già consegnato il terzo mandato da segretario generale del Partito.
Tanto è cambiato da allora. A presentare il suo primo rapporto di lavoro da premier sarà infatti Li Qiang, ex capo del Partito a Shanghai e fedelissimo di Xi. È lui il numero due della gerarchia del Partito e ha preso il posto di Li Keqiang, l’ex premier deceduto improvvisamente qualche mese fa.
Li presenterà i risultati di governo, soprattutto quelli economici, dell’anno appena trascorso. Verrà evidenziato che l’obiettivo fissato di 5% di crescita del prodotto interno lordo è stato raggiunto e anzi superato, visto che Pechino ha registrato un +5,2%. Anche se gli analisti sottolineano che la stima era stata volutamente molto cauta, per evitare che si ripetesse il fallimento dell’obiettivo del 2022, quando i lockdown e le restrizioni della strategia zero Covid avevano abbattuto l’economia.
Un’economia che non si è ancora ripresa del tutto. A zavorrare un completo rilancio è soprattutto il settore immobiliare, dopo che Evergrande ha ricevuto un ordine di liquidazione e anche il primo costruttore privato, Country Garden, si trova in profonda crisi. Previsti diversi annunci con pacchetti di stimolo all’economia, ma chi si aspetta grandi riforme o maxi piani di sostegno resterà probabilmente deluso.
Grande attenzione ovviamente anche ai segnali in arrivo sulla politica estera. Lo scorso anno i toni furono molto foschi. Nel suo discorso alla Conferenza politica consultiva del popolo, Xi fu molto esplicito nel citare il tentativo degli Stati Uniti di fermare l’ascesa cinese. Ma aveva anche prefigurato una postura più proattiva sulla scena internazionale, ritoccando la celebre dottrina di Deng Xiaoping (“osserviamo con calma, nascondiamo i punti di forza e aspettiamo il nostro tempo, non rivendichiamo mai il comando”) in una nuova versione: “Manteniamo la calma e la determinazione, progrediamo nella stabilità, raggiungiamo proattivamente gli obiettivi, stiamo uniti e osiamo combattere“.
Xi sembra aver tenuto fede a quella promessa, visto che dopo aver espresso la propria (ambigua) posizione sulla guerra in Ucraina, Pechino ha commentato in maniera molto più decisa la crisi in Medio Oriente e il conflitto tra Israele e Hamas. Non solo. Ha anche favorito l’allargamento dei Brics con l’adesione di cinque nuovi Paesi. Allo stesso tempo, mentre rafforzava la presa sul cosiddetto Sud globale, la Cina ha anche riannodato alcuni fili dei rapporti con gli Stati Uniti, come dimostra il summit di San Francisco fra Xi e Joe Biden. Interessante sarà dunque osservare i toni di Wang Yi, dopo quelli durissimi del predecessore Qin Gang lo scorso anno.
Dalle parole di Wang e Xi emergeranno segnali importanti su come Pechino intende porsi a livello globale nei prossimi mesi.
A proposito di Qin, nei giorni scorsi sono state accettate le sue dimissioni da deputato, dopo che lo scorso luglio era stato rimosso da ministro degli Esteri per ragioni mai chiarite. Si è parlato di una relazione extraconiugale con una giornalista televisiva mentre era ancora ambasciatore cinese a Washington.
Anche l’altra grande nomina delle “due sessioni” dell’anno scorso, Li Shangfu, è stata un insuccesso. Il ministro della Difesa è stato rimosso in autunno per uno scandalo legato alle forniture militari, che ha visto peraltro cadere diverse teste anche nell’esercito e in particolare nelle forze missilistiche.
Nei prossimi giorni ci si aspettano dunque nuove nomine, anche se alla Difesa è stato già piazzato Dong Ju a fine anno. Wang potrebbe però cedere il ruolo di ministro degli Esteri, già ricoperto fino all’anno scorso e poi di nuovo dopo la rimozione di Qin, per “limitarsi” a guidare la diplomazia del Partito. Al suo posto potrebbe essere promosso Liu Jianchao, capo del dipartimento internazionale del Partito ed ex guida della commissione disciplinare. Negli scorsi mesi Liu ha effettuato molti viaggi tra Europa, Stati Uniti, Russia e Asia. Evenienza che ha fatto pensare a molti che la sua promozione sia ormai imminente.
Attenzione anche a eventuali segnali su Taiwan e il mar Cinese meridionale. Lo scorso anno, Xi chiese all’Esercito popolare di liberazione, come già fatto a luglio 2021 in occasione del centenario del Partito, di diventare una “grande muraglia d’acciaio” a difesa della sicurezza nazionale. Negli ultimi 12 mesi si sono verificate nuove grandi esercitazioni intorno a Taiwan (lo scorso aprile, in occasione del doppio scalo americano della presidente uscente Tsai Ing-wen) e soprattutto le elezioni presidenziali di gennaio sono state vinte da Lai Ching-te, il più inviso a Pechino.
A cavallo del suo insediamento del prossimo 20 maggio sono possibili nuove manovre, fermo restando che nelle ultime settimane si è già alzata la tensione su Kinmen, mini arcipelago amministrato da Taipei ma a pochi chilometri di distanza dalle coste del Fujian cinese. Visto che siamo nel 75esimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare e della fine della guerra civile, ci si potrebbe aspettare qualche messaggio quantomeno sul fronte retorico.
Di recente, al forum presieduto da Wang Huning (numero tre della gerarchia), il Partito si è impegnato a “combattere” i tentativi di “secessione”, mentre in passato la formula ufficiale era quella della “opposizione risoluta”. Negli ultimi mesi è aumentata in modo esponenziale la tensione con le Filippine sui territori contesi nel mar Cinese meridionale.
Al centro pare destinato comunque a restare il concetto di “sicurezza nazionale”, formula ripetuta più volte da Xi in tutti i discorsi degli ultimi anni, nonché etichetta apposta a una legge entrata in vigore a Hong Kong nel 2020, che potrebbe presto venire ulteriormente inasprita. Sempre in ossequio alla sicurezza nazionale, è stata appena emendata anche la legge sul segreto di Stato.
Altro concetto chiave da seguire è quello dell’autosufficienza tecnologica, che si prevede verrà ulteriormente menzionata durante i lavori della densa settimana delle “due sessioni”.
Cambogia: democrazia ma senza opposizione
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Sei mesi. Tanto è durato il presunto passo indietro di Hun Sen. Il leader eterno della Cambogia è pronto a tornare in sella. Dopo aver lasciato il ruolo di primo ministro al figlio Hun Manet in seguito alle elezioni dello scorso luglio, è pronto a diventare presidente del Senato, la seconda carica dello Stato dopo il re.
Risultati delle elezioni di domenica 25 febbraio. Dei 62 seggi del Senato, 58 sono votati da 125 parlamentari e più di 11mila amministratori locali. Il re Norodom Sihamoni nomina due senatori, mentre l’Assemblea nazionale (eletta a suffragio universale lo scorso luglio) ne nomina altri due. Come più che ampiamente atteso, il Partito Popolare Cambogiano ha dichiarato di aver ottenuto una vittoria schiacciante. Il portavoce Sok Eysan ha detto che i primi risultati hanno mostrato che il partito di maggioranza ha vinto almeno 50 dei 58 seggi. Ha poi subito confermato che il partito nominerà Hun Sen come presidente del Senato, ruolo che di fatto gli consentirà di agire come capo di Stato quando il re si trova all’estero.
Sulle schede elettorali erano presenti quattro partiti, tra cui il monarchico Funcinpec, ma nessuna vera opposizione. Non una sorpresa, visto che Hun Sen ha operato una stretta a partire dal grande spavento del 2013, quando alle elezioni fu quasi sconfitto dal Partito di Salvezza Nazionale di Sam Rainsy. Da allora decise che non poteva più mettere a rischio la sua posizione, soprattutto mentre iniziava a programmare la successione col figlio Hun Manet.
Lo scorso luglio, il Candlelight Party (nato sulle ceneri del movimento di Rainsy) è stato estromesso dal voto con la scusa di problemi burocratici. Le due grandi figure dell’opposizione erano già state messe fuori gioco in precedenza. Kem Sokha è stato condannato nel 2022 a 27 anni di carcere per tradimento: l’accusa è quella di aver organizzato un presunto complotto per rovesciare il governo. Rainsy si trova invece in autoesilio all’estero e non potrà candidarsi per altri due decenni.
Impossibile dunque pensare a una composizione diversa del Senato. Ma è significativo che Hun Sen abbia deciso di tornare in prima fila. Secondo molti analisti, diventare presidente del Senato gli può garantire di proteggere ulteriormente il figlio Hun Manet, la cui nomina anticipata è motivata proprio dal desiderio del padre di supervisionare la transizione mentre è ancora in forze, per spegnere sul nascere le eventuali velleità degli altri leader più anziani del partito che si sentono sorpassati da una figura in larga parte priva di esperienza politica.
Il ritorno sulla scena di Hun Sen arriva peraltro dopo pochi giorni dalla nomina di un altro membro della sua dinastia, l’ultimo rampollo Hun Many, diventato il più giovane vice premier cambogiano di sempre. Many, 41 anni, ha iniziato la sua carriera politica lavorando come assistente del padre. È stato deputato in rappresentanza della provincia di Kampong Speu e presidente della commissione dell’Assemblea nazionale per l’Istruzione, la gioventù e lo sport, il culto e gli affari religiosi, la cultura e il turismo nel 2013, prima di diventare ministro della Funzione pubblica lo scorso agosto.
Many è anche il presidente dell’Unione delle Federazioni giovanili della Cambogia. Anche per lui si prospetta un futuro politico di primo piano in una Cambogia sempre più a immagine e somiglianza di Hun Sen, quasi nello stile della famiglia Kim in Corea del Nord, seppure i media statali continuino a elogiare il “sistema democratico” cambogiano. Nel quale ormai non è però più prevista opposizione.
L’Occidente lascia comunque la porta socchiusa. Nelle scorse settimane Hun Manet (che ha un passato nell’esercito ma anche studi economici condotti in Occidente) è stato in Svizzera per il World Economic Forum di Davos e si è poi recato in Francia, dove ha incontrato il presidente Emmanuel Macron. Il viaggio a Parigi è stato visto come un successo per Manet, che è tornato con 235 milioni di dollari in accordi di sviluppo con la Francia per costruire infrastrutture energetiche e di acqua potabile e sostenere la formazione professionale in Cambogia e l’impegno a lavorare per un “partnership strategica”. Gli Stati Uniti avevano inizialmente “sospeso” un pacchetto di aiuti da 18 milioni di dollari dopo le elezioni, che un funzionario del Dipartimento di Stato descrisse come “né libere né giuste”. Ma la decisione di sospendere gli aiuti è stata revocata due mesi dopo per “incoraggiare il nuovo governo a tener fede alle sue intenzioni dichiarate di essere più aperto e democratico”.
Visto il ritorno da protagonista di Hun Sen, qualcuno potrebbe temere che le speranze siano destinate a essere deluse.
Elezione del Presidente in Indonesia: un affare di famiglia
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L’ex controverso generale Prabowo Subianto ha trionfato alle elezioni presidenziali del 14 febbraio e sarà il prossimo presidente della più grande nazione a maggioranza musulmana, più grande economia del Sud-Est asiatico e quarto paese più popoloso del mondo.
Dopo le elezioni del 2019, in pochi si aspettavano che Prabowo Subianto sarebbe diventato presidente dell’Indonesia. Già sconfitto nel 2014, il controverso ex generale rientrato anni prima da un esilio in Giordania era stato battuto nuovamente da Joko Widodo. Il 14 febbraio, invece, Prabowo ha vinto le elezioni presidenziali proprio insieme al figlio del suo (ex) rivale Widodo, Gibran Rakabuming Raka. L’ex capo delle forze speciali, ruolo in cui venne accusato di varie violazioni dei diritti umani negli anni Novanta, era il favorito della vigilia. Ma la maggior parte degli osservatori si aspettavano che non riuscisse a superare lo sbarramento de 50% necessario per vincere al primo turno. Il pronostico più diffuso era quello che sarebbe servito il ballottaggio, da tenersi a fine giugno, contro Ganjar Pranowo, ex governatore di Giava centrale e (molto) teorico erede designato del presidente uscente Widodo.
E invece, secondo tutti i dati non ufficiali, Prabowo è arrivato vicino addirittura al 60%. Un trionfo che lo renderà il prossimo presidente del quarto Paese più popoloso al mondo, nonché più grande nazione a maggioranza musulmana. Sì, perché i risultati ufficiali non si avranno prima di metà marzo, ma non c’è nessun dubbio sul fatto che Prabowo abbia vinto.
“Assembleremo un governo composto dai migliori figli e figlie dell’Indonesia”, ha promesso Prabowo nel suo primo discorso dopo la pubblicazione dei risultati, promettendo di governare per “tutti gli indonesiani”.
Ganjar, che si era impegnato a creare 17 milioni di nuovi posti di lavoro, a espandere l’assistenza sociale e ad aumentare l’accesso all’istruzione superiore per i poveri, è stato sonoramente sconfitto arrivando addirittura terzo, sotto il 20%. Davanti a lui è arrivato persino Anies Baswedan, un esponente dell’élite intellettuale indonesiana ed ex collaboratore di Widodo, scrivendone addirittura i discorsi, per poi essere nominato ministro dell’Istruzione e governatore della capitale Giacarta. Ma anche Anies sarebbe arrivato a oltre il 30% di distanza da Prabowo.
Un successo costruito proprio sul sostegno di Widodo al suo ex rivale, che già nel 2019 era stato nominato ministro della Difesa. Inizialmente si poteva pensare che la mossa fosse utile a neutralizzare la sua opposizione, che poteva diventare anche aggressiva. Nel 2014, Prabowo non aveva inizialmente riconosciuto la sconfitta. E nel 2019 si era legato a gruppi islamisti radicali per provare a insidiare Widodo, senza riuscirci. Invece non era solo un calcolo del momento, Widodo ha davvero puntato su Prabowo, mandando addirittura il figlio a fargli da vice. Gibran ha solo 36 anni e teoricamente non avrebbe potuto candidarsi secondo la legge indonesiana. A pochi mesi dal voto, però, la Corte suprema ha rimosso il vincolo dei 40 anni per candidarsi a presidenza e vicepresidenza per chi ha già vinto una tornata elettorale locale. Cosa accaduta a Gibran, che ha potuto così candidarsi. Piccolo particolare: la Corte costituzionale è guidata nientemeno che dal marito della sorella di Widodo. Insomma, un affare di famiglia.
Così come Prabowo era nella famiglia dell’ex dittatore Suharto, essendo un tempo suo genero. I risultati hanno suscitato negli attivisti il timore che la responsabilità per le atrocità del passato si affievolisca ulteriormente e che il suo futuro governo abbia scarsa considerazione per i diritti umani. “L’inverno sta arrivando, qualunque sia il nome”, ha dichiarato al Guardian Usman Hamid, direttore esecutivo di Amnesty International Indonesia. “Ma la lotta deve continuare… tutti i responsabili devono essere consegnati alla giustizia”.
Il riferimento è agli studenti e attivisti politici rapiti nel 1998. Dei 22 attivisti rapiti quell’anno, 13 sono ancora dispersi. Prabowo ha sempre negato di aver commesso illeciti e non è mai stato incriminato in relazione alle accuse, anche se molti dei suoi uomini sono stati processati e condannati. Prabowo è anche accusato di essere coinvolto in abusi dei diritti in Papua e Timor Est, tra cui un massacro del 1983 in cui centinaia di persone, per lo più uomini, furono uccise nel villaggio timorese di Kraras.
Osservano con attenzione anche gli Stati Uniti, che in passato proprio per queste accuse avevano negato l’ingresso a Prabowo. Le posizioni del ministro della Difesa uscente su alcune crisi internazionali hanno suscitato più di una perplessità in Occidente. In particolare sulla guerra in Ucraina, a proposito della quale Prabowo ha proposto una pace alla coreana, con la creazione di una zona cuscinetto e un referendum nei territori occupati dai russi per lasciare decidere alla popolazione (occupata) da che parte stare.
I mercati non sembrano invece preoccupati. Anzi, il giorno dopo le elezioni il mercato azionario del Paese è salito fino al 2,2%, mentre la rupia si è rafforzata dello 0,3%, raggiungendo il valore più alto da un mese a questa parte. La ragione è semplice: Prabowo ha promesso di seguire le politiche di Widodo (rimasto popolarissimo tra la popolazione e sui mercati per la sua inclinazione favorevole agli investimenti) nella più grande economia del Sud-Est asiatico.
Tra le sfide più impellenti di Prabowo ci sarà quella di ridurre la disoccupazione giovanile, che si attesta al 17% tra gli under 24. Una fetta importante della popolazione, tanto da essere al centro delle strategie elettorali di Prabowo, lanciatosi anima e corpo su Instagram e TikTok per far dimenticare il suo controverso passato e presentarsi come il “nonno della porta accanto”. Operazione riuscita, per ora.
Pakistan: vince a sorpresa il condannato Imran Khan
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Il PTI di Khan è il primo partito con 93 seggi ma è difficile che gli sarà consentito governare. Lo scenario più probabile appare quello di un governo di coalizione che includa tutti i partiti politici, meno il PTI di Khan
Squalificato, condannato più volte, eppure vincente. Imran Khan rivendica la vittoria alle elezioni nazionali in Pakistan di giovedì 8 febbraio. Dopo diversi rallentamenti e dubbi, la commissione elettorale di Islamabad ha annunciato i risultati finali: il Pakistan Tehreek-e-INsaf (PTI) di Khan è il primo partito, nonostante l’impossibilità a utilizzare i propri simboli. Conquistati 93 seggi. Comunque troppo pochi per governare, visto che il parlamento conta 264 poltrone.
Il risultato è comunque a dir poco sorprendente, vista la campagna giudiziaria e securitaria lanciata contro l’ex premier ed ex campione di cricket che si definisce vittima di un complotto ordito insieme agli Stati Uniti. L’altro ex premier, Nazaw Sharif, è arrivato secondo con 75 seggi. Una delusione per un altro leader che era stato in esilio volontario per evitare condanne e che è rientrato in patria ottenendo il sostegno dell’establishment militare rivoltatosi contro Khan.
Il risultato finale è stato annunciato dopo giorni di tensione, in cui entrambi i rivali si erano dichiarati vincitori, Khan addirittura tramite un video creato con l’intelligenza artificiale. Il partito PTI di Khan aveva minacciato di organizzare dimostrazioni pacifiche a livello nazionale domenica se il conteggio dei voti non fosse stato reso noto nella notte. E circa 300 sostenitori di Khan hanno bloccato per ore l’autostrada principale che collega Islamabad a Peshawar. Ma alla fine, dopo 60 ore di attesa, i risultati sono arrivati.
Il governo provvisorio del Pakistan ha dichiarato che il ritardo nel conteggio dei voti è stato causato da problemi di comunicazione dovuti a un’interruzione della connessione internet mobile nel giorno delle elezioni. L’interruzione, che le autorità hanno dichiarato essere dovuta a motivi di sicurezza, ha suscitato la preoccupazione di gruppi per i diritti umani. Alla vigilia del voto si sono infatti verificate diverse violenze, soprattutto nel Baluchistan e spegnere internet è diventata una prassi di diversi governi della regione per “regolare” i conti con le proteste.
Ora si apre una fase altrettanto delicata e molto incerta. Nonostante la vittoria alle urne, è difficile pensare che al PTI sarà consentito di governare. Complicato che il partito di Khan riesca a trovare altre forze disponibili ad allearsi con un movimento entrato chiaramente nel mirino della giustizia pakistana. Tra l’altro, uno degli svantaggi che gli indipendenti devono affrontare nel tentativo di formare un governo è che, non essendosi candidati come partito, non hanno diritto all’assegnazione di nessuno dei 70 seggi riservati del Parlamento, che vengono distribuiti in base alla forza del partito nel computo finale. Il partito di Sharif potrebbe ottenere fino a 20 di questi seggi, arrivando dunque persino a superare i seggi del PTI.
Non è un caso che Sharif si stia già muovendo per provare ad assicurarsi degli accordi di coalizione. Per primi ha incontrati i dirigenti del Pakistan People’s Party (PPP) di Bilawal Bhutto Zardari e suo padre Asif Ali Zardari, giunto terzo con 54 seggi. Secondo la dichiarazione rilasciata dopo l’incontro, è stato annunciato che è stato raggiunto un consenso di “principio sulla cooperazione politica” tra il PPP e la Pakistan Muslim League-Nawaz (PML-N) di Sharif. Sarebbe l’ennesima giravolta della politica pakistana, visto che in passato Bhutto si è più volte messo in contrapposizione con Sharif. L’ex premier ha incontrato anche i rappresentanti del partito nazionalista Muttahida Qaumi Movement (MQM), concordando di “lavorare insieme, in linea di principio, nell’interesse del Paese”. Anche se ancora non c’è un accordo formale.
Lo scenario più probabile appare proprio quello di un governo di coalizione che includa tutti i partiti politici, meno il PTI di Khan. Un secondo scenario, meno probabile ma tecnicamente possibile, è che il PPP si unisca al PTI per formare un governo. Sempre che ciò venga consentito. Il capo dell’esercito Syed Asim Munir, dal canto suo, ha affermato che il Pakistan deve “rompere con la politica di anarchia e polarizzazione che non si addice a un paese progressista”. Una sorta di indicazione alla grande coalizione.
Da osservare anche la questione legata all’ordine pubblico. Nel video diffuso dal PTI, Khan rivendica un successo maggiore di quello certificato dal conteggio: “Abbiamo vinto 150 seggi nell’Assemblea nazionale prima che la manipolazione iniziasse. A cavallo del voto ci sono stati attacchi e attentati di natura politica, con oltre 40 morti“.
Elezioni in Pakistan: tra polemiche, insurrezioni e condanne
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L’8 febbraio i seggi elettorali saranno aperti. Il grande favorito è Nawaz Sharif, ex premier. È il candidato della Lega Musulmana del Pakistan e potrebbe godere dell’appoggio di vari partiti integralisti islamici
Dopo il Bangladesh e prima dell’India, tocca al Pakistan. Giovedì 8 febbraio il Paese dell’Asia meridionale va alle urne per le elezioni generali, in un anno record a livello di urne sul fronte globale. Le autorità hanno confermato il voto, nonostante il clima sia tutt’altro che idilliaco. Il Pakistan sta infatti affrontando due diverse insurrezioni armate: una nel nord-ovest del Khyber-Pakhtunkhwa da parte di gruppi islamisti e una nel sud-ovest da parte di gruppi etno-nazionalisti Baloch.
Un candidato indipendente all’assemblea nazionale, Rehan Zaib Khan, è stato ucciso mercoledì 31 gennaio nel Khyber-Pakhtunkhwa. Lo stesso giorno, un altro politico è stato ammazzato a colpi di pistola nell’ufficio elettorale del suo partito in Balochistan. Martedì 30 gennaio, un attentato dinamitardo dopo un comizio elettorale ha ucciso quattro persone in Balochistan. L’attacco è stato rivendicato dall’Isis.
Le elezioni si sarebbero dovute tenere a novembre dopo lo scioglimento del Parlamento ad agosto, ma sono state rinviate a febbraio a causa di un censimento. A gennaio, i membri del Senato pakistano hanno chiesto ulteriori ritardi per motivi di sicurezza, con un pensiero ai possibili (o forse probabili) disordini per l’assenza dalla campagna elettorale dell’ex premier Imran Khan, ancora molto popolare nel Paese. Non a caso domenica 28 gennaio ci sono stati duri scontri tra la polizia e i sostenitori del Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI), il partito di Khan. In quell’occasione ci sono stati almeno 25 arresti. Tra le persone finite in manette c‘è anche il segretario generale del partito nel Sindh, Ali Pal.
La Commissione elettorale e il ministero dell’Interno hanno però deciso di andare avanti. Il tutto proprio mentre a Khan veniva inflitta una serie incredibile di condanne. Martedì 30 gennaio è stato condannato a 10 anni per aver diffuso segreti di stato, mentre il giorno successivo è stato condannato a ulteriori 14 anni per corruzione. Contestualmente, gli è stato vietato di detenere incarichi pubblici (e dunque di candidarsi) fino al 2034. Si tratta di condanne di primo grado, ma tanto basta per tenere lontano Khan dalle urne. Anche lo stesso PTI non potrà presentarsi alle elezioni coi suoi simboli e i suoi candidati dovranno correre da indipendenti. Khan e i suoi sostenitori sono convinti che le motivazioni dei vari provvedimenti siano politiche.
D’altronde Khan, ex campione di cricket, è convinto di aver perso il posto a causa di un complotto internazionale. Da qui nasce la sua condanna per diffusione di segreti di stato. Secondo la sentenza, Khan sarebbe colpevole di aver reso pubblico, “nonché di aver maneggiato, abusato e manomesso” un cablogramma segreto inviato dall’ambasciatore del Pakistan a Washington al governo di Islamabad. Khan ha affermato a più riprese che quel cablogramma era la prova di una cospirazione da parte dell’esercito e del governo statunitense per rovesciare il suo governo nel 2022, dopo la sua visita a Mosca poco prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Washington e l’esercito pakistano negano questa ipotesi, ma i sostenitori di Khan ne sono convinti.
Come se non bastasse, sabato 3 febbraio è arrivata un’altra sentenza contro l’ex premier. Lui e la moglie Bushra sono stati condannati a sette anni di carcere e a una multa da un tribunale che ha stabilito che il loro matrimonio del 2018 ha violato la legge. Bushra è stata accusata di non aver completato il periodo di attesa previsto dall’Islam, chiamato “Iddat”, dopo aver divorziato dal precedente marito e aver sposato Khan. La coppia ha firmato il contratto di matrimonio, o “Nikkah”, nel gennaio 2018 in una cerimonia segreta, sette mesi prima che Khan diventasse primo ministro per la prima volta. Lui nega qualsiasi accusa e la sua difesa parla di un altro caso “fasullo” messo in piedi senza “testimoni né prove”.
Fatto sta che l’8 febbraio i seggi elettorali saranno aperti. Il grande favorito è Nawaz Sharif, a sua volta ex premier. È il candidato della Lega Musulmana del Pakistan e potrebbe godere dell’appoggio di vari partiti integralisti islamici. Sharif ha smussato i problemi avuti in passato con l’esercito, che mantiene una presa molto stretta sulla vita politica del Pakistan. Tanto che oggi le forze armate sembrano sostenerlo. Non sembrano esserci avversari in grado di impensierire fino in fondo Sharif, che fronteggia una schiera di indipendenti ma può approfittare dell’assenza di Khan, il cui partito è ora guidato dall’avvocato Gohar Ali Khan.
I pachistani vanno alle urne con una serie di problemi, tra cui ai primi posti ci sono senz’altro l’inflazione e la moneta debole, mentre Islamabad prova a barcamenarsi nel piano di salvataggio da tre miliardi del Fondo monetario internazionale. L’esito delle urne, seppur appaia scontato a livello generale, è da seguire anche sulle dinamiche locali. A partire dal Baluchistan, zona di interesse chiave anche per la Cina.
Sullivan-Wang: faccia a faccia a Bangkok tra Usa e Cina
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Il tempismo dell’incontro in terra thailandese è interessante. A due settimane dalle elezioni presidenziali di Taiwan, dopo l’intensificarsi della crisi del Mar Rosso e in previsione della prossima visita in Corea del Nord di Vladimir Putin.
La prima volta si sono incontrati a maggio 2023, a Vienna, tre mesi dopo la crisi del pallone aerostatico che ha portato al rinvio della visita a Pechino del Segretario di Stato americano Antony Blinken. E hanno riaperto ufficialmente il dialogo tra Stati Uniti e Cina. Di lì a poco una serie di componenti dei due governi hanno effettuato viaggi incrociati. La seconda volta si sono visti a Malta, lo scorso settembre. È stato l’incontro che ha posto le basi per il summit di San Francisco tra i due leader, Xi Jinping e Joe Biden. Questa volta si sono parlati, per oltre 12 ore, a Bangkok, in Thailandia. E hanno concordato su un nuovo colloquio, stavolta virtuale, tra Biden e Xi.
I protagonisti sono sempre loro due: Jack Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e Wang Yi, ministro degli Esteri cinese nonché capo della diplomazia del Partito comunista. Quando parlano loro, la comunicazione è davvero strategica. Non è un caso che i primi due incontri, quelli di Vienna e di Malta, fossero stati annunciati solo a cose fatte.
In molti hanno infatti legato l’efficacia dei colloqui alla loro forma privata, lontani da sguardi indiscreti e dalle domande dei giornalisti. Sono loro a decidere le carte che poi i leader si giocano a favore di telecamere.
Stavolta, l’annuncio è arrivato alla vigilia, anche perché la notizia era stata diffusa dal Financial Times e dal Wall Street Journal. Il tempismo dell’incontro in terra thailandese è interessante. A due settimane dalle elezioni presidenziali di Taiwan, dopo l’intensificarsi della crisi del Mar Rosso e in previsione della prossima visita in Corea del Nord di Vladimir Putin.
Sono presumibilmente questi tre, i dossier internazionali ad aver dominato le 12 ore di discussione di venerdì 26 e sabato 27 gennaio. Rigorosamente a porte chiuse e senza conferenza stampa. Nel loro resoconto, gli Stati Uniti forniscono maggiori dettagli sulle relazioni bilaterali, evidentemente sui fronti più prodighi di progressi. “L’incontro rientra nello sforzo di mantenere aperte le linee di comunicazione e di gestire responsabilmente la concorrenza nelle relazioni, come stabilito dai leader”, si legge nel comunicato della Casa Bianca.
Sullivan ha sottolineato che, sebbene Stati Uniti e Cina siano in competizione, “entrambi i Paesi devono evitare che la competizione sfoci in conflitto o scontro”. Le due parti hanno discusso le prossime tappe di una serie di aree di cooperazione discusse a Woodside da Biden e Xi riconoscendo “i recenti progressi nella ripresa delle comunicazioni militari” e hanno sottolineato l’importanza di mantenere questi canali.
Hanno inoltre discusso i prossimi passi per l’organizzazione di un dialogo tra Stati Uniti e Cina sull’intelligenza artificiale in primavera. Non solo. Sullivan e Wang hanno accolto con favore i progressi nella cooperazione sulle questioni relative agli stupefacenti, tra cui il lancio del gruppo di lavoro Usa-Cina in programma il 30 gennaio. Al centro, ovviamente, il fentanyl. Non a caso, si danno già per probabili nuove visite di membri dell’amministrazione Biden a Pechino: su tutti, Blinken e Yellen.
Wang ha invece sottolineato che quest’anno ricorre il 45esimo anniversario dell’avvio dei rapporti diplomatici tra Pechino e Washington. “Le due parti dovrebbero cogliere questa opportunità per riassumere l’esperienza e trarre insegnamenti, trattarsi alla pari invece che in modo condiscendente, costruire un terreno comune e accantonare invece di evidenziare le differenze, e rispettare invece di minare gli interessi fondamentali dell’altra parte”, ha detto Wang. “Entrambe le parti dovrebbero lavorare insieme per il rispetto reciproco, la coesistenza pacifica e la cooperazione win-win, trovando il modo giusto per far andare d’accordo Cina e Stati Uniti”, ha osservato.
Ma nel 2024 ricorre anche il 45esimo anniversario del Taiwan Relations Act e Washington pare intenzionata a mandare diversi segnali di rassicurazione a Taipei. La scorsa settimana si sono registrati sia il primo passaggio di una nave militare americana sullo Stretto, sia la prima delegazione bipartisan del Congresso, dopo le elezioni presidenziali taiwanesi del 13 gennaio. La vittoria di Lai Ching-te, il candidato più inviso a Pechino, potrebbe mettere ulteriormente a prova la tenuta dello status quo. Non a caso, proprio Taiwan è il tema su cui la parte cinese si dilunga di più. Durante l’incontro, Wang ha sottolineato che la questione di Taiwan “è un affare interno della Cina” e che le elezioni “non possono cambiare il fatto fondamentale che Taiwan fa parte della Cina. L’indipendenza di Taiwan rappresenta il rischio maggiore per la pace e la stabilità tra le due sponde dello Stretto e la sfida più grande per le relazioni tra Cina e Stati Uniti. Gli Stati Uniti devono rispettare il principio di una sola Cina e i tre comunicati congiunti Cina-Usa, tradurre in pratica il loro impegno a non sostenere l’indipendenza di Taiwan e sostenere la riunificazione pacifica della Cina”.
Una richiesta in linea con quella espressa da Xi a Biden a novembre. Sullivan si è fermato al riconoscere “l’importanza di mantenere pace e stabilità sullo Stretto di Taiwan”, senza aggiungere dettagli. Nelle scorse settimane, Biden ha ribadito che gli Usa non sostengono l’indipendenza di Taiwan e per la prima volta dopo tanto tempo un comunicato di un funzionario della Casa Bianca alla vigilia delle elezioni a Taipei ha evidenziato che Washington “non si oppone a qualsiasi risoluzione della questione, purché sia pacifica”. Le scintille sul tema sembrano comunque destinate a restare, visto che nei prossimi mesi Pechino potrebbe aumentare la pressione militare, diplomatica e commerciale in concomitanza con l’insediamento del presidente eletto Lai, previsto per il 20 maggio.
Molti meno dettagli sono stati forniti dalle due parti sugli altri dossier, ma senz’altro Sullivan avrà provato a capire il ruolo che la Cina sta giocando o vorrà giocare sulle tensioni nella penisola coreana, che hanno raggiunto un nuovo picco dopo l’emendamento costituzionale approvato da Kim Jong-un secondo cui la Corea del Sud viene identificata come “nemico principale e immutabile”. Segnale che il dialogo e i negoziati sono più lontani che mai. La visita di Putin potrebbe portare ulteriori sviluppi, preoccupanti di certo per Washington ma forse in parte anche per Pechino. Menzionato anche il Myanmar, visto che a tre anni dal golpe militare la guerra civile continua a infuriare, mettendo peraltro a repentaglio anche la sicurezza della frontiera cinese.
Ma al centro dei colloqui, sostengono Wall Street Journal e Financial Times, c’è stato anche e forse soprattutto il Mar Rosso. Washington avrebbe intensificato le richieste a Pechino di esercitare la propria influenza sull’Iran per fermare gli attacchi degli Houthi. Ufficialmente, la Cina non si è mossa e ha bilanciato attentamente le sue parole. Da una parte chiedendo di fermare gli attacchi contro le navi civili, dall’altra criticando i raid e l’uso della forza contro gli Houthi sul territorio dello Yemen.
Ma secondo la Reuters, in un recente viaggio in Iran l’alto diplomatico Liu Jianchao avrebbe chiarito che qualora gli interessi cinesi venissero colpiti sul Mar Rosso ci sarebbero conseguenze sui rapporti bilaterali. Nonostante le rassicurazioni degli Houthi sulle navi cinesi e russe, i costi di spedizione dai porti cinesi sono più che raddoppiati nel giro di un mese e mezzo. Allo stesso tempo, la Cina non ha interesse a perdere le posizioni scalate nella regione a livello commerciale e diplomatico, officiando tra l’altro la ripresa delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita e ponendosi come sostanziale portavoce del mondo musulmano sulla questione palestinese.
Difficile che tutto questo sia rimasto fuori dai colloqui tra Wang e Sullivan, il binario più strategico dei rapporti tra le due potenze.
La Corea del Nord vuole aumentare il proprio peso negoziale
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Pyongyang preannuncia l’imminente visita di Putin, la prima dopo quella fatta dallo stesso Putin nel 2000. Intanto la situazione nella penisola coreana si fa sempre più tesa tra manovre militari e politiche: ad aprile le elezioni parlamentari in Corea del Sud.
Vladimir Putin è pronto a visitare la Corea del Nord. Lo si era capito già dallo scorso settembre, quando fu Kim Jong-un a recarsi nell’Estremo Oriente russo. Ora però c’è anche la comunicazione ufficiale da parte di Pyongyang, con l’agenzia di stampa statale Kcna che ha confermato che il presidente russo sarà nel Paese “nel prossimo futuro”.
Gli ultimi dettagli del viaggio sarebbero stati messi a punto nei giorni scorsi, durante la visita di tre giorni a Mosca della ministra degli Esteri nordcoreana Choe Son-hui. La diplomatica di Pyongyang ha incontrato sia l’omologo Sergej Lavrov e poi lo stesso Putin, aprendo così un 2024 in cui i rapporti tra Corea del Nord e Russia sembrano destinati a un salto di qualità ulteriore dopo quello già osservato lo scorso anno e in generale a partire dalla guerra in Ucraina.
Si tratterà della prima storica visita di un leader russo a Pyongyang dopo quella compiuta, nel 2000, proprio dallo stesso Putin. Allora il leader supremo era Kim Jong-il, padre di Kim Jong-un. Soprattutto, si era in una fase di ottimi rapporti tra Mosca e Occidente, così come era una fase di parziale distensione tra le due Coree. Tanto che la visita di Putin non fu percepita come una minaccia, così come probabilmente sarà percepita questa volta sia dall’Occidente sia dai Paesi asiatici che temono l’apertura di un nuovo fronte che li coinvolge. A partire, ovviamente, da Corea del Sud e Giappone, i due vicini di Pyongyang che hanno rafforzato in modo notevole l’alleanza militare e strategica con gli Stati Uniti.
Significativo, peraltro, anche il modo in cui è stato definito Putin nell’annuncio della Kcna: “Siamo pronti a ricevere il miglior amico del popolo coreano”, si legge. Un ruolo, quello di “miglior amico”, che in passato era riservato al leader della Cina, l’elefante (o meglio il dragone) nella stanza delle dinamiche in atto tra Russia e Corea del Nord.
La visita di Putin non ha ancora una data, ma potrebbe anche avvenire prima delle elezioni parlamentari del 10 aprile in Corea del Sud, con un possibile impatto sugli equilibri di un’Assemblea nazionale dove il presidente conservatore Yoon Suk-yeol (fautore di una linea ben più dura su Pyongyang rispetto al predecessore Moon Jae-in e al leader dell’opposizione Lee Jae-myung) potrebbe uscire ancora più azzoppato. Il viaggio unirebbe anche formalmente il fronte occidentale a quello orientale, dopo che gli Stati Uniti hanno ufficialmente accusato la Corea del Nord di aver fornito armi e missili balistici alla Russia, che in cambio avrebbe invece secondo Seul fornito assistenza tecnologica per il lancio del primo satellite spia di Pyongyang lo scorso novembre.
Il tutto avviene peraltro mentre le tensioni sulla penisola sono in continua ascesa, sia sul fronte militare sia su quello politico. Prima il record di lanci balistici del 2022, poi l’inasprirsi delle manovre contrapposte con il rafforzamento dell’alleanza con gli Stati Uniti e il Giappone operata da Yoon.
Lo scorso novembre c’è stata la cancellazione dell’accordo militare intercoreano dopo il lancio del primo satellite spia. A inizio 2024 ci sono stati alcuni round di colpi di artiglieria nei pressi della frontiera marittima, che per la prima volta dopo diversi anni hanno portato all’evacuazione delle due isole sudcoreane di Yeongpeyong e Baengnyeong, già teatro di bombardamenti (in quel caso con quattro vittime) nel 2010. Nei giorni scorsi è stato poi testato un sistema d’arma nucleare sottomarino, chiamato Haeil-5-23 e in grado secondo Pyongyang di effettuare attacchi nucleari occulti contro forze navali e porti attraverso dei droni subacquei in grado di creare una sorta di “tsunami radioattivo”.
Dopo aver definito l’obiettivo storico della riunificazione un “errore” nel suo discorso di fine anno davanti alla plenaria del Partito del Lavoro, Kim ha peraltro chiesto di emendare la costituzione nordcoreana per sancire di fatto la separazione e la rivalità col Sud.
La Corea del Sud verrà etichettata come “nemico principale e immutabile”. Verrà inclusa una definizione concreta del territorio del Nord come separato in modo definitivo da quello del Sud. Kim ha anche dichiarato che in caso di conflitto il territorio della Corea del Sud andrebbe “occupato completamente”, con la “sottomissione” totale di Seul. La mossa normativa ha portato immediatamente all’abolizione di tutte le agenzie dedicate alla cooperazione intercoreana. E potrebbe trattarsi di qualcosa di più di una mera azione propagandistica.
Certo, non significa che Kim sia convinto che un conflitto futuro sia inevitabile, ma tra manovre interne e alleanza sempre più esplicita con la Russia di Putin vuole aumentare il suo peso negoziale. Anche nei confronti della Cina, la cui postura in merito alla penisola coreana resta sotto esame. Nelle ultime settimane del 2023 si è svolta una ministeriale degli Esteri a livello trilaterale con Giappone e Corea del Sud, la prima dal 2019. Un summit dei leader con Xi Jinping, Fumio Kishida e Yoon, al di là del contenuto delle discussioni, sarebbe anch’esso un segnale rilevante. E un ulteriore ingrediente in un menù che continua ad arricchirsi, ma anche e soprattutto a rischiare di diventare per qualcuno indigesto.
Taiwan: ritratto del nuovo Presidente
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“Un lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan”. Così si era definito in passato Lai Ching-te, il vincitore delle elezioni presidenziali taiwanesi di sabato 13 gennaio. Una frase rimasta scolpita nelle menti della Cina continentale, che lo reputa un “secessionista radicale”. Nonostante da allora Lai abbia molto smussato le sue posizioni, ponendosi in perfetta linea con la più moderata presidente uscente Tsai Ing-wen, Lai viene ritenuto come più “imprevedibile” da Pechino, così come forse anche da Washington e da alcuni taiwanesi, convinti comunque dalle sue ripetute garanzie che manterrà lo status quo.
Dunque niente “unificazione” (o “riunificazione” come la chiama Pechino), ma nemmeno una dichiarazione di indipendenza formale che porterebbe Taiwan a superare la cornice della Repubblica di Cina entro la quale è indipendente de facto, pur se riconosciuta da soli 12 Paesi in tutto il mondo dopo la rottura dei rapporti operata da Nauru lunedì 15 gennaio. Appena due giorni dopo la vittoria di Lai, in quella che sembra come una prima reazione cinese alla vittoria del leader del Partito progressista democratico (DPP), che al contrario dell’opposizione dialogante del Kuomintang (KMT) non riconosce il “consenso del 1992”, un controverso accordo tra le due sponde che riconosce l’esistenza di una “unica Cina” pur senza stabilire immediatamente quale.
La base da cui può partire qualsiasi forma di dialogo, secondo Pechino, che pare dunque destinata a non ascoltare le richieste di Lai che si è ripetuto (come già fatto da Tsai) disponibile a un dialogo purché questo sia basato sui principi di “parità” e “dignità”. In sostanza, il DPP richiede che il Partito comunista riconosca che Pechino e Taipei sono al momento due entità separate e non interdipendenti l’una dall’altra. Richiesta irricevibile a cui il PCC replica con il prerequisito del “consenso del 1992” e dunque dell’implicito riconoscimento che Taiwan fa parte della Cina, seppure il KMT specifichi “Cina con diverse interpretazioni”, sottolineando che non accetta il modello “un Paese, due sistemi” di Hong Kong che Xi Jinping vorrebbe imporre anche a Taiwan dopo la “riunificazione”.
Ma chi è esattamente Lai?
65 anni compiuti lo scorso ottobre, proviene da un ambiente molto più modesto rispetto agli ultimi due presidenti, Tsai e Ma Ying-jeou, entrambi appartenenti a famiglie benestanti. Nato nell’attuale Nuova Taipei, Lai è stato allevato dalla madre insieme a cinque fratelli dopo la morte del padre in una miniera di carbone, avvenuta quando lui aveva solo due anni. Lai è cresciuto insieme a cinque fratelli in una casa minuscola.
La sua ascesa è stata però inarrestabile. Prima di quella politica, quella professionale visto che è diventato medico e ha studiato ad Harvard. Una volta che è stata dichiarata la fine della legge marziale, nel 1987, Lai ha abbandonato la professione medica per dedicarsi alla politica. La sua lunga carriera è iniziata come deputato, poi è stato sindaco di Tainan, l’antica capitale prima dell’occupazione giapponese. Poi è stato premier durante il primo mandato di Tsai, ma a fine 2018 succede qualcosa.
Il DPP perde in modo sonoro le elezioni locali e il KMT sembra destinato a vincere le presidenziali in programma a inizio 2020. Lai, alla guida della corrente più radicale del DPP, è protagonista di un duro scontro con l’establishment del partito, tanto che qualcuno reputa non impossibile una scissione. Lo frattura poi si ricompone con il miglioramento della situazione per il DPP, favorito dalla repressione delle proteste di Hong Kong della primavera del 2019 che consentono di spostare la campagna elettorale sul tema identitario e delle relazioni intrastretto, facendo passare il KMT come “filocinese”. Tsai promette a Lai la vicepresidenza, tradizionalmente anticamera della candidatura presidenziale quattro anni dopo.
Così è stato. Lai ha trascorso tutta la campagna elettorale nel provare a convincere gli elettori di essere in piena linea con Tsai sulle relazioni intrastretto, garantendo che manterrà lo status quo. Pechino non si fida ma potrebbe comunque pazientare, in attesa di ascoltare il suo discorso di insediamento il prossimo 20 maggio e di vedere le prime politiche che metterà in atto da presidente in carica. Soprattutto, la Cina può far leva sulla sconfitta del DPP alle elezioni legislative.
Il partito di Lai, infatti, non solo ha perso oltre due milioni e mezzo di voti alle presidenziali rispetto al 2020, ma ha anche perso la maggioranza in parlamento dopo otto anni. Il KMT è il primo partito con 52 seggi, uno in più del DPP ma comunque non abbastanza per avere la maggioranza assoluta. Sarà dunque decisivo il ruolo del terzo incomodo, il Partito popolare di Taiwan (TPP) di Ko Wen-je, ex sindaco di Taipei che si è presentato con una piattaforma che lui definisce “pragmatica e anti ideologica” e basata su temi più concreti, tanto da riscontrare il favore di buona parte dell’elettorato più giovane.
Il sì o il no alle riforme o al budget di difesa potrebbe passare da lui. Pechino potrebbe cercare di far leva sulle frammentazioni interne per guadagnare dei punti politici in vista del cruciale 2027, anno in cui è in programma il XXI Congresso del Partito comunista cinese in cui Xi potrebbe cercare un quarto mandato, proprio nel momento in cui ci sarà la campagna elettorale per le presidenziali taiwanesi del 2028. Una contingenza temporale che potrebbe risultare davvero decisiva, più di quella di questa metà di gennaio.
Bangladesh: alta tensione durante le elezioni del 7 gennaio
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La premier Sheikh Hasina ha vinto il suo quinto mandato con il 90% dei voti. Bassa l’affluenza alle urne, il 40%. L’opposizione, messa ai margini, ha organizzato posti di blocco per boicottare il voto, la polizia ha sparato contro gli attivisti.
L’unica cosa certa anche alla vigilia era il risultato: alle elezioni in Bangladesh la premier Sheikh Hasina ha conquistato il suo quinto mandato, il quarto consecutivo dopo il ritorno al potere del 2009. D’altronde era difficile pensare altrimenti, visto che il voto è stato boicottato da un’opposizione messa sempre più ai margini. Tutto il resto, però, conferma che il Paese dell’Asia meridionale, importante hub produttivo, si sta allontanando sempre di più dal poter essere considerato una democrazia.
Il partito Awami League di Hasina si è assicurato 223 dei 299 seggi del parlamento. I candidati indipendenti, molti dei quali selezionati dallo stesso partito di maggioranza e dai gruppi associati, hanno conquistato 62 seggi, mentre il Partito Jatiya ne ha ottenuti 11. Gli ultimi tre seggi sono finiti a tre partiti minori.
Ma il Partito nazionalista del Bangladesh, la principale forza di opposizione, non era presente al voto. Così come non c’era lo Jamaat-e-Islami. Giocando sempre più da solo, il partito della “donna di ferro” Hasina hacontinuato progressivamente a crescere a ogni tornata elettorale: dal 48% del 2008 al 90% di oggi.
Hasina e Awami League puntavano tutto sull’affluenza per dare legittimità al voto. Il test è fallito: la commissione elettorale ha dichiarato che l’affluenza dei circa 120 milioni di elettori è stata intorno al 40%. Una percentuale dimezzata rispetto all’80% delle elezioni del 2018. Tanto che, mentre Hasina e il suo partito esultano per la vittoria, l’opposizione celebra il “boicottaggio riuscito”. Una situazione che presumibilmente rischia di frammentare il Paese anche nei prossimi anni.
Il voto si è svolto d’altronde in un clima di enorme tensione. Da settimane, attivisti e membri dell’opposizione, anche dall’estero, denunciano le elezioni come una “farsa”. Migliaia di esponenti dell’opposizione sono stati arrestati negli ultimi mesi, compreso il segretario generale del Partito nazionalista, Mirza Fakhrul Islam Alamgir. L’ex premier Khaleda Zia è in regime di residenza sorvegliata, mentre il figlio Tarique Rahman si trova in esilio a Londra, da dove attacca a ripetizione il governo. Secondo le accuse, Rahman sarebbe coinvolto in un attacco del 2004 in cui Hasina rimase ferita. Humans Right Watch ha denunciato una “violenta repressione autocratica”, ma la premier non si è fatta impressionare e giustifica la stretta e gli arresti come l’unico metodo a disposizione per difendersi da violenze e rivolte.
D’altronde, proprio durante la giornata del voto di domenica 7 gennaio, Hasina ha etichettato il principale partito dell’opposizione come una “organizzazione terroristica”, presentandosi come l’unica in grado di difendere la democrazia del Bangladesh. Una presa di posizione arrivata dopo che gli attivisti del Partito nazionalista e di altre forze minori hanno indetto uno sciopero generale e organizzato posti di blocco per convincere i cittadini a non recarsi alle urne.
In alcune occasioni, la polizia ha aperto il fuoco contro gli attivisti che stavano evitando il regolare svolgimento del voto, anche se le autorità non segnalano vittime o feriti. È morto invece un sostenitore di Hasina durante alcuni degli scontri che si sono verificati sul territorio. L’episodio più grave è stato il presunto incendio doloso di un treno di pendolari che ha causato 4 morti e 8 feriti. La polizia ha arrestato 8 persone e l’Awami League ha accusato il Partito nazionalista della tragedia. L’opposizione sostiene invece si tratti di “atti di sabotaggio pianificati da parte di funzionari governativi volti a screditare il nostro movimento non violento”.
Mentre gli attivisti provavano a far boicottare il voto, il partito di governo ha cercato di forzare i cittadini a recarsi alle urne. Secondo alcune testimonianze riportate dai media internazionali, alcuni elettori hanno affermato di essere stati minacciati di confisca delle tessere statali necessarie a ricevere l’assistenza welfare se si fossero rifiutati di votare. Sempre durante le operazioni di voto, il Manab Zamin, uno dei principali quotidiani del Bangladesh con una posizione critica nei confronti del governo, avrebbe subito dei blocchi su internet.
Chi è Sheikh Hasina
Il potere di Hasina, 76 anni, nasce lontano: è la figlia di Sheikh Mujibur Rahman, padre fondatore del Bangladesh. Già premier dal 1996 al 2001, dopo il ritorno al potere del 2009 ha adottato una linea progressivamente più assertiva, tanto che il suo governo è stato più volte accusato di abusi dei diritti umani e di repressione dell’opposizione. Allo stesso tempo, in molti le riconoscono il merito di aver risollevato il Bangladesh dalla povertà rilanciando l’economia del Paese. Partendo dall’immensa industria dell’abbigliamento, ma andando oltre attraendo diversi investimenti e lo spostamento di alcune linee produttive di aziende internazionali.
Di recente, il Fondo monetario internazionale ha dato il via libera alla prima revisione del pacchetto di salvataggio da 4,7 miliardi di dollari, garantendo al Bangladesh accesso immediato a circa 468,3 milioni e mettendo a disposizione 221,5 milioni per il programma di lotta al cambiamento climatico. Contestualmente, però, la popolazione ha spesso protestato negli ultimi mesi per l’inflazione e l’aumento del costo della vita.
Sul piano internazionale, un punto a favore di Hasina è stato senz’altro il vasto piano di accoglienza fornito alla minoranza Rohingya in fuga dal Myanmar. Quasi un milione di rifugiati si trovano attualmente in Bangladesh, che allo stesso tempo starebbe rafforzando i rapporti con la Cina. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea restano però i principali acquirenti di capi d’abbigliamento prodotti in Bangladesh, la principale industria di valuta estera del Paese. Anche per questo Hasina spera di evitare che alle accuse di repressione dell’opposizione facciano seguito delle sanzioni. La premier ha bisogno di successi economici per evitare che le turbolenze interne sfocino dal fronte politico a quello sociale.
Giappone: maxi rimpasto di governo dopo uno scandalo sui finanziamenti ai partiti
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A rischio il futuro politico del Primo Ministro Fumio Kishida per uno scandalo legato a fondi neri del Partito liberaldemocratico da lui guidato e che regna da decenni in Giappone. Una vicenda che può avere effetti anche sul sistema di alleanze internazionali.
L’assetto dell’Asia orientale è in costante evoluzione. Processi già in corso sul versante politico-commerciale (come la riorganizzazione delle catene di approvvigionamento) e sul versante strategico (la corsa al riarmo) hanno acquisito una maggiore velocità in seguito alla pandemia di Covid-19 e alla guerra in Ucraina.
Ma il timore diffuso di un crescente allineamento sinorusso e il fastidio cinese per le manovre indopacifiche di Stati Uniti e alleati non sono l’unico fattore di questo processo di riassetto. Al centro ci sono infatti anche dinamiche interne. Non è certo la stessa cosa, in Corea del Sud, avere un presidente democratico come Moon Jae-in o uno conservatore come Yoon Suk-yeol. Così come non è certo la stessa cosa, nelle Filippine, avere un leader filocinese come Rodrigo Duterte e uno rivelatosi come filostatunitense come Ferdinand Marcos Junior.
In Giappone, il consenso sulla posizione in politica estera è più diffuso, anche perché da decenni regna pressoché incontrastato il Partito liberaldemocratico che fu di Shinzo Abe e che è ora guidato dal primo ministro Fumio Kishida. Eppure, non tutti i grandi dirigenti dell’immenso partito sono uguali. E Kishida non è certo il più falco, né la più colomba. Ecco perché è importante osservare quanto sta accadendo nella politica interna giapponese anche da un punto di vista più ampio.
Nel 2024, il Partito liberaldemocratico terrà un’elezione interna per decidere il suo prossimo leader, che automaticamente sarà il candidato premier in vista delle prossime elezioni che si terranno al più tardi nel 2025.
Le possibilità di Kishida si sono improvvisamente ridotte dopo un ampio scandalo in corso nelle ultime settimane e che ha portato a uno stravolgimento nella formazione del governo. Quattro ministri sono stati costretti a dimettersi a causa di uno scandalo relativo alla raccolta di fondi che ha coinvolto la fazione più potente del partito al governo. Si presume che più di 500 milioni di yen (2,8 milioni di sterline; 3,4 milioni di dollari) siano finiti nei fondi neri in un periodo di cinque anni fino al 2022. Anche la procura di Tokyo ha avviato un’indagine per corruzione.
Il capo segretario di gabinetto e portavoce del governo Hirokazu Matsuno, considerato il braccio destro di Kishida e il volto del suo governo, figura tra i quattro ministri costretti a farsi da parte. Un brutto colpo per il premier, che ha dovuto accettare anche le dimissioni del ministro dell’Economia e dell’Industria Yasutoshi Nishimura, del ministro degli Interni Junji Suzuki e del ministro dell’Agricoltura Ichiro Miyashita. Inoltre, si sono dimessi anche cinque viceministri senior e un viceministro parlamentare della stessa fazione, precedentemente guidata dal defunto primo ministro Shinzo Abe.
Conosciuta anche come gruppo politico Seiwa, la fazione aveva fissato delle quote per i suoi membri sulla vendita dei biglietti per gli eventi di raccolta fondi del partito. Quando le loro vendite superavano le quote, i membri ricevevano fondi aggiuntivi. Di per sé, ciò non viola la legge giapponese. Tuttavia, le accuse suggeriscono che le entrate aggiuntive sono state tenute fuori dai libri contabili e sono invece finite nei fondi neri. Lo stesso Matsuno è accusato di non aver dichiarato entrate superiori a 10 milioni di yen.
Anche altre importanti fazioni all’interno del Partito, inclusa quella precedentemente guidata da Kishida, si trovano ad affrontare accuse simili legate alle entrate derivanti dalla raccolta fondi. Il premier ha dichiarato che avrebbe affrontato le accuse “frontalmente”, ma lo scandalo potrebbe costargli caro a livello politico.
Il tasso di sostegno al gabinetto è sceso al 22,3%, nuovo minimo storico, mentre quello per il Partito liberaldemocratico è sceso sotto il 30% per la prima volta da quando è tornato al potere più di dieci anni fa. Il tasso di disapprovazione è invece salito al livello record del 65,4%.
Il sondaggio ha anche mostrato che il 75% degli intervistati ritiene che Kishida manchi di leadership nell’affrontare lo scandalo dei fondi. E la fiducia in un cambio di rotta è bassa, tanto che il 77,2% degli intervistati crede che il Partito non sarà in grado di correggere i propri errori.
Kishida, già nel mirino per l’aumento dell’inflazione e i mancati risultati raggiunti sul piano economico a fronte dell’annuncio in campagna elettorale di un “nuovo capitalismo” più attento alle persone, rischia di vedere in bilico il suo futuro politico.
Una vicenda che potrebbe avere un impatto significativo non solo sul Giappone, ma anche sul sistema di alleanze (compresa quella con la Corea del Sud dopo la fine di una lunga guerra commerciale) che il premier ha rilanciato con forza.
Vietnam: in equilibrio tra Cina e Stati Uniti
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Quando lo scorso 10 settembre Joe Biden ha varcato la soglia del quartier generale del Partito Comunista Vietnamita di Hanoi, il mondo ha raccontato quel momento come “storico”. Non era un’esagerazione, ma era sbagliato pensare che quella visita del presidente degli Stati Uniti avesse improvvisamente arruolato o anche solo sbilanciato il Vietnam nei suoi rapporti internazionali.
La prova di questo arriva martedì 12 e mercoledì 13 dicembre, quando in visita di Stato nel Paese del Sud-Est asiatico ci sarà Xi Jinping. Si tratta del terzo viaggio del presidente cinese in Vietnam, dopo i due precedenti del 2015 e del 2017. Sei anni dopo, è cambiato praticamente tutto.
La guerra in Ucraina ha spinto Hanoi a comprare armi e cercare tutela dagli Usa, per il timore di un crescente allineamento sinorusso e le difficoltà di Mosca a mandare armi come ha sempre fatto.
Ma subito dopo il viaggio di Biden, che con sé aveva portato decine di grandi imprese americane tra cui alcune tra le principali del settore di difesa, Hanoi ha cominciato a mandare segnali di garanzia verso Pechino. Secondo i media di Stato cinesi, il viaggio di Xi sarà concentrato su sei grandi aree: politica, sicurezza, cooperazione pratica, supporto pubblico, questioni multilaterali e problemi marittimi.
L’ultimo tassello di questo elenco è osservato con grande attenzione, vista l’irrisolta disputa territoriale sulle isole Paracelso nel mar Cinese meridionale. Prima dell’avvento di Ferdinand Marcos Junior, che ha portato le Filippine con grande decisione nell’alveo del sistema di alleanze statunitense in Asia-Pacifico, il Vietnam era senz’altro il Paese più deciso a far rispettare le proprie rivendicazioni tra quelli dell’area. E negli ultimi mesi le forze vietnamite hanno accelerato sulla costruzione di infrastrutture e sulla loro presenza nei pressi delle acque contese. Lo stesso ha fatto la Cina, che anzi ha mandato più spesso del solito navi nei tratti di mare più caldi, anche in risposta alla visita della portaerei americana Ronald Reagan al porto di Da Nang, vale a dire la città che sta esattamente di fronte alle isole contese e che ospita anche un museo che reitera le rivendicazioni vietnamite sul tema.
Ciò nonostante, il rapporto commerciale e politico tra Hanoi e Pechino continua a viaggiare spedito. Xi incontrerà, molto significativamente, tutti e 4 i cosiddetti pilastri del sistema politico vietnamita: il segretario generale del Partito comunista Nguyen Phu Trong (che da un anno prima di Xi ha avviato uno storico terzo mandato dopo la rottura del vincolo ufficioso dei due mandati), il presidente Vo Van Thuong, il primo ministro Pham Minh Chinh e il capo dell’assemblea nazionale Vuon Dinh Hue.
In cima all’agenda delle discussioni ci dovrebbe essere il trasporto ferroviario, con l’intenzione reciproca di costruire una linea ferroviaria ad alta velocità lungo il confine, dopo i progetti già conclusi da aziende cinesi in Indonesia e in Laos. Ampio spazio poi alla transizione energetica, col Vietnam a caccia di pannelli solari per sviluppare la sua industria fotovoltaica. La Cina, che domina il settore, può aiutare.
Hanoi e Pechino hanno profondissimi rapporti commerciali. Nonostante il Vietnam stia diventando sempre di più meta privilegiata delle grandi aziende internazionali, colossi digitali in primis, che cercano di diversificare le proprie linee di produzione dalla Cina, è impensabile una strategia di “riduzione del rischio” nei confronti di Pechino come quella promossa dall’Occidente.
Allo stesso tempo, in Vietnam non si è mai cancellato il ricordo dei quasi mille anni di dominazione dell’impero cinese. Pechino è senz’altro il vicino che fa più paura, anche se allo stesso tempo il Vietnam ha subito le guerre col coinvolgimento di Francia e Stati Uniti, diventando il luogo che forse più di tutti ha subito le devastazioni “calde” della prima guerra fredda. Ecco forse perché ora più di tutti il Vietnam vorrebbe evitarne una seconda, avvicinanosi agli Usa ma riaffermando il suo rapporto stretto con la Cina. Legami che sfociano sul fronte ideologico, vista la leadership comunista in entrambi i Paesi.
Le tensioni resteranno celate durante il viaggio di Xi, ma non significa che siano cancellate. Anche perché alla vigilia dell’arrivo del presidente cinese, ci sono state manovre navali vicino alle isole contese, mentre altre navi hanno attraccato per la prima volta in un porto in Cambogia, a poche decine di chilometri dal confine vietnamita. Peraltro non è escluso un trialterale che coinvolga oltre a Xi e i leader vietnamiti anche Hun Manet. Il premier cambogiano, erede di Hun Sen dopo le elezioni dello scorso luglio, si trova infatti in viaggio ad Hanoi lunedì 11 e martedì 12 dicembre.
Filippine: weekend drammatico a Mindanao
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Un tranquillo weekend di paura, quello appena vissuto dalle Filippine. Tra eventi naturali estremi, attentati terroristici e dispute territoriali, a Manila e dintorni le ultime 48 ore sono state un susseguirsi di emozioni. E soprattutto di problemi.
A partire da sabato mattina, quando un terremoto di magnitudo 7,6 ha colpito la parte orientale di Mindanao, grande isola nella parte meridionale dell’arcipelago filippino. Non una primizia, visto che il Paese si trova sul cosiddetto Anello di fuoco del Pacifico, un’area di grande attività sismica e vulcanica in cui si registrano ogni anno circa settemila terremoti. Ma quello di sabato ha avuto un’entità ben più grave degli eventi sismici consueti, tanto da portare le autorità filippine a emettere un allarme tsunami. A distanza di qualche ora, l’allarme è stato poi revocato, anche se sono arrivate onde oltre un metro al di sopra della marea.
Meno di 24 ore dopo, ancora Mindanao è stata oggetto delle cronache. Questa volta per un attentato terroristico, con un’esplosione durante una messa cattolica che ha ucciso almeno 4 persone ferendone circa 50. L’attacco è avvenuto a Marawi, capitale della provincia di Lanao del Sur. A essere colpita è stata una palestra dell’università di Mindanao, dove si stava svolgendo la messa della prima domenica di avvento. Sulla scena sono stati trovati frammenti di mortaio, mentre le ambulanze hanno continuato a lungo a trasportare i feriti in ospedale. Nessun dubbio che si tratti di un attentato. È subito partita la caccia all’uomo, con la polizia che ha imposto una serie di posti di blocco sulle strade e nei porti dell’isola di Mindanao.
Il presidente filippino Ferdinand Marcos Junior ha incolpato “terroristi stranieri”. Aggiungendo: “Gli estremisti che compiono violenze contro gli innocenti saranno sempre considerati nemici della nostra società. Porgo le mie più sentite condoglianze alle vittime”, ha sottolineato Marcos, assicurando di aver chiesto una maggiore sicurezza nella regione. “Siate certi che consegneremo alla giustizia gli autori di questo atto spietato”.
Anche il ministro degli Esteri Teodoro Locsin Junior ha confermato che “ci sono indizi che l’attacco sia stato condotto da elementi stranieri”, senza entrare nello specifico. Secondo il segretario alla Difesa Gilbert Teodoro, l’attentato ricorda nello stile l’attacco alla cattedrale di Nostra Signora del Monte Carmelo a Jolo, Sulu, nel gennaio 2019, che causò la morte di 23 persone.
Va sottolineato che l’attacco si inserisce in un contesto di alta tensione tra governo centrale e Mindanao, regione con una forte presenza musulmana. Da decenni sul territorio operano gruppi armati con velleità indipendentiste. Proprio nei giorni scorsi un’operazione miltiare ha portato all’uccisione del leader di un gruppo islamista affiliato all’Isis, il Daula Islamiyah. Lo stesso gruppo che nel 2017 si era impadronito di Marawi, cercando di farne un governatorato islamista. All’epoca si era combattuto per cinque mesi con un bilancio finale di oltre mille morti, tra cui anche un centinaio di civili.
A Manila c’è il timore che l’attacco di domenica possa segnare l’inizio di un nuovo periodo di turbolenze interne. L’ultima cosa necessaria a un paese già impegnato a far fronte a una pericolosa disputa territoriale con la Cina nel mar Cinese meridionale.
Una disputa che si sta inasprendo. Sempre domenica 3 dicembre, le autorità delle Filippine hanno dichiarato che oltre 135 navi della Milizia Marittima Cinese hanno “sciamato” nell’area di Julian Felipe Reef, a circa 175 miglia nautiche dalla costa di Bataraza, Palawan. Foto e video diffusi dalla Guardia costiera mostrano diversi gruppi di navi della Milizia Marittima Cinese ormeggiate l’una accanto all’altra. Si tratta di una mossa che gli analisti definiscono “rafting”, ovvero quando le navi si ancorano insieme per creare un avamposto galleggiante temporaneo in mare. È considerata una delle “tattiche della zona grigia”, ovvero delle azioni al di fuori di un conflitto armato che vengono però impiegate per mostrare assertività su una contesa territoriale.
L’arrivo di Ferdinand Marcos Junior ha cambiato tutto nei rapporti tra Filippine e Cina. Manila ha concesso libero accesso alle truppe americane in 4 sue ulteriori basi. Le esercitazioni congiunte di quest’anno sono state le più vaste di sempre, mentre sono state avviate trattative per sviluppare un porto civile nelle remote isole più settentrionali dell’arcipelago, quelle più vicine a Taiwan.
In risposta, Pechino ha aumentato la presenza nei pressi di Second Thomas, una minuscola secca all’interno dell’arcipelago delle Spratly, un centinaio di piccole isole rivendicate dalla Cina. È qui che si trova la Sierra Madre, una nave di fabbricazione statunitense impiegata durante le battaglie contro i giapponesi nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. Rimasta alla deriva, è passata poi di mano alle Filippine.
Nel 1999, Manila ha deciso di arenare il vecchio relitto nei pressi della secca. I resti dell’imbarcazione sono utilizzati dalle Filippine come un avamposto, presidiato da una dozzina di militari, per rafforzare le proprie pretese di sovranità. Da allora, Pechino chiede a Manila di rimuovere il relitto in maniera più o meno diplomatica a seconda dello stato dei rapporti col governo filippino.
Il governo cinese non riconosce la validità del pronunciamento del tribunale dell’Aia, che nel 2016 si è espresso contro la sua rivendicazione di sovranità su circa il 90% del mar Cinese meridionale. E finora non si è mai riusciti a stipulare un agognato codice di condotta regionale su un quadrante fondamentale per il passaggio di enormi quantità di merci ma anche per le sue risorse naturali. Da agosto in avanti si sono succeduti alcuni incidenti, tra cannoni ad acqua e collisioni tra navi, fortunatamente senza gravi conseguenze. Ma una soluzione alla questione ancora non si intravede.
Cina, Giappone, Corea del Sud: riprende il dialogo
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Nel corso del colloquio di Busan i tre ministri degli Esteri hanno concordato di far progredire la cooperazione in sei aree, tra cui la sicurezza, l’economia e la tecnologia, e di preparare il prossimo vertice trilaterale dei leader dei tre giganti dell’Asia orientale
Cina, Giappone e Corea del Sud insieme allo stesso tavolo. Era difficile potesse (ri)succedere viste le tensioni degli ultimi anni, acuite soprattutto dalla guerra in Ucraina. E invece è successo. Domenica 26 novembre a Busan, importante città portuale della Corea del Sud, si è svolta la prima ministeriale degli Esteri tra i tre big dell’Asia orientale a distanza di quattro anni dall’ultima volta.
Un primo incontro di “studio”, che non ha portato svolte o accordi clamorosi, ma che è già di per sé un risultato importante perché riavvia un dialogo trilaterale che sembrava chiuso. Non solo. I ministri di Pechino, Tokyo e Seul si sono accordati per tenere il prima possibile un summit dei tre leader, che non si svolge dal 2019. Quasi un’altra epoca.
Allora, in Giappone c’era ancora il primo ministro Shinzo Abe e in Corea del Sud c’era il presidente democratico Moon Jae-in. Una contingenza favorevole al dialogo, con il leader cinese Xi Jinping che nel 2020 avrebbe dovuto recarsi sia a Tokyo sia a Seul per suggellare una “nuova era” dei rapporti. Viaggi mai avvenuti a causa dell’inizio della pandemia di Covid-19. Nel frattempo è cambiato tutto. Abe è stato assassinato nel luglio 2020 e nel marzo 2022, poche settimane dopo l’invasione russa, in Corea del Sud ha vinto le elezioni il conservatore Yoon Suk-yeol.
Nel corso del colloquio di Busan, durato 100 minuti, i ministri hanno concordato di far progredire la cooperazione in sei aree, tra cui la sicurezza, l’economia e la tecnologia, e di promuovere discussioni concrete per preparare il vertice trilaterale. Wang ha anche invitato i tre Paesi a riavviare al più presto i negoziati per un accordo trilaterale di libero scambio.
Le distanze, ovviamente, restano su diversi temi. A partire dal posizionamento strategico. Il cinese Wang Yi ha detto che i tre Paesi dovrebbero “opporsi alla demarcazione ideologica e resistere a mettere la cooperazione regionale in campi avversi”, un riferimento all’approfondimento dei rapporti di Tokyo e Seul con gli Stati Uniti. Nonostante Xi abbia incontrato il 15 novembre Joe Biden a San Francisco per ridurre le tensioni tra le due potenze, le frizioni restano. E l’architettura di sicurezza messa in piedi da Washington con Tokyo e Seul disturba molto Pechino.
A marzo 2023, Yoon ha riavviato i rapporti col Giappone, operando un allineamento a livello trilaterale degli scambi in materia di sicurezza con il vicino (tradizionalmente odiato) e Washington. Ad aprile, Yoon è stato alla Casa Bianca in visita di Stato, ottenendo l’estensione dell’ombrello nucleare. Ha poi ospitato a Busan un sottomarino americano a propulsione nucleare, ha aumentato esponenzialmente le esercitazioni congiunte e si prepara al pieno dispiegamento del Terminal High Altitude Area Defense (Thaad), il sistema di radar antimissile americano il cui primo acquisto nel 2016 causò una durissima battaglia diplomatica tra Corea del Sud e Cina. Ad agosto è andato in scena il summit di Camp David, che ha riunito proprio Yoon, Biden e il premier giapponese Kishida. Senza contare che Giappone e Corea del Sud sono sempre più integrati nell’orbita di partnership della Nato, tanto che non è da escludere un riavvio dei colloqui sulla possibile apertura di un ufficio di rappresentanza dell’Alleanza Atlantica a Tokyo.
Eppure, il riavvio del dialogo trilaterale con la Cina è considerato fondamentale per provare a ridurre le tensioni in Asia orientale. Il tempismo della ministeriale di Busan è interessante anche perché avviene pochi giorni dopo il lancio del primo satellite spia da parte della Corea del Nord. Era da tempo che Pyongyang provava nell’impresa, mancata per due volte negli scorsi mesi. Tanto da costare il posto al capo di stato maggiore, licenziato ad agosto.
Il terzo tentativo è stato quello buono. La differenza potrebbe averla fatta l’incontro di Vladivostok tra Kim Jong un e Vladimir Putin, avvenuto a settembre. Secondo i servizi segreti di Seul, dopo il vertice tra i due leader la Corea del Nord avrebbe fornito alla Russia progetto e dati dei lanci falliti. Mosca li avrebbe analizzati e fornito i suggerimenti necessari al lancio. In cambio di aiuti militari per la guerra in Ucraina. Secondo i media di regime, il satellite sarebbe già in grado di raccogliere immagini della base militare statunitense di Guam, cruciale epicentro strategico del Pacifico. Gli esperti sudcoreani per ora non confermano e sostengono possa anche trattarsi di un bluff.
La tensione è cresciuta ulteriormente dopo che Seul ha annunciato prima la sospensione parziale dell’accordo militare intercoreano del 2018, poi la cancellazione totale dopo che Pyongyang ha risposto con il lancio (fallito) dell’ennesimo missile balistico. Giovedì 30 novembre anche Seul lancerà il suo satellite spia (mentre il capo dell’intelligence Kim Kyou-hyun si è appena dimesso), già da lunedì 27 sono state avviate esercitazioni congiunte con Usa e Giappone.
La Corea del Nord ha preannunciato il lancio di altri satelliti e ha inviato truppe al suo confine meridionale per ripristinare i posti di guardia che erano stati rimossi dall’accordo del 2018. Pyongyang ha spiegato che il suo esercito non sarà più “vincolato” dall’intesa e riprenderà tutte le attività che erano state interrotte negli ultimi cinque anni.
Tornando a parlare con Pechino, Corea del Sud e Giappone sperano in un maggiore controllo sulle azioni di Kim da parte di Xi Jinping, che in passato ha mostrato più volte di non gradire le sue intemperanze. La giapponese Yoko Kamikawa ha affermato che una maggiore cooperazione trilaterale contribuirebbe alla pace regionale, dato che la situazione della sicurezza internazionale è diventata “più grave e complessa che mai”.
Da capire la prospettiva cinese sull’avvicinamento tra Pyongyang e Mosca. A fine luglio, Xi ha inviato una delegazione di tono minore per le celebrazioni dell’armistizio della guerra di Corea, al contrario della Russia che ha spedito il ministro della Difesa Sergei Shoigu. Delegazione minore anche per le celebrazioni dell’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare di Corea e primi contatti per riavviare il meccanismo trilaterale con Giappone e Corea del Sud proprio a cavallo del vertice tra Kim e Putin.
Ma è tutto da vedere che la Cina voglia o possa premere sulla Corea del Nord per abbassare le tensioni, proprio perché in cambio vorrebbe un rallentamento del rafforzamento dell’asse Seul-Tokyo-Washington. Nel summit con Biden, Xi ha chiesto di tenere in considerazione le “legittime preoccupazioni di sicurezza” della Corea del Nord, stessa formula utilizzata tante volte sulla Russia a proposito del conflitto in Ucraina.
Elezioni a Taiwan: salta l’accordo dell’opposizione sul candidato unitario
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Il futuro di Taiwan è appeso all’interpretazione del margine d’errore statistico nei sondaggi d’opinione. Può sembrare strano, ma le prospettive sulle elezioni presidenziali taiwanesi del prossimo 13 gennaio, da cui dipendono anche i rapporti intrastretto fra Taipei e Pechino con importanti riflessi sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina, sono legate a qualche punto decimale. Non sui risultati delle urne, ma sui sondaggi d’opinione commissionati dall’opposizione per individuare un candidato unitario.
Le candidature ufficiali vanno depositate entro le 17 di venerdì 24 novembre. Fino a pochi giorni fa, la vittoria del Partito progressista democratico (DPP) appariva quasi scontata. Non fosse altro che il campo “verde”, quello che chiede il riconoscimento di Taiwan come entità non interdipendente rispetto alla Repubblica Popolare Cinese, ha un solo candidato. Si tratta di Lai Ching-te, attuale vicepresidente e leader del DPP che mira a prendere il posto della collega di partito Tsai Ing-wen. Tra i due in passato c’è stata più di una frizione, ricomposta in tempo utile per vincere le elezioni del 2020. Ma ora sembra tutto dimenticato, con Lai che ha smussato le sue posizioni più radicali di un tempo e si propone in perfetta continuità con la postura di Tsai. Pechino non si fida e lo percepisce come il candidato a lei più ostile e lo descrive come una figura più imprevedibile rispetto alla già odiata presidente uscente.
Dopo mesi di indiscrezioni e trattative infruttuose, l’opposizione sembrava aver trovato l’accordo per una candidatura unitaria tra le sue due principali anime, il Kuomintang (KMT) e il Taiwan People’s Party (TPP). Durante un incontro presso la fondazione di Ma Ying-jeou, l’ex presidente più dialogante di sempre con Pechino, i rispettivi candidati Hou Yu-ih e Ko Wen-je avevano firmato un accordo per affidarsi al risultato di alcuni sondaggi d’opinione per individuare i candidati a presidenza e vicepresidenza. Sabato 18 novembre era previsto l’annuncio ufficiale e l’istituzione di un ufficio elettorale unitario.
Ma l’annuncio non è mai arrivato, a causa di una diversa interpretazione dei dati. Secondo il KMT, il risultato finale è di 5 a 1 per il suo candidato Hou. Secondo il TPP, si è trattato di un pareggio per 3 a 3. Ko ha contestato il funzionamento del “margine d’errore”, ma il KMT sottolinea che l’ipotetico alleato non ha rispettato i termini dell’accordo da lui stesso firmato. L’ipotesi più credibile è che Ko, non nuovo a improvvisi ripensamenti, si sia accorto di aver concesso una modalità vantaggiosa a Hou. E abbia dunque deciso di fare un passo indietro. In televisione ha raccontato di essersi sentito preso “alla sprovvista” durante i colloqui di mercoledì e sostanzialmente di aver ripetuto più volte “sì” al KMT perché si sentiva sotto pressione. “La prossima volta andrò a parlare non da solo”, ha aggiunto.
Una giustificazione che ha fatto sorgere profondi dubbi a diversi analisti sulle sue capacità strategiche, nonché sull’opportunità di avere Ko come leader. “Se si è fatto convincere a un accordo svantaggioso perché si sentiva sotto pressione col KMT immaginate che potrebbe fare a dialogare col Partito comunista cinese”, dicono in molti. Ko resta comunque apprezzato soprattutto da una parte dell’elettorato più giovane, in cerca di novità dopo 8 anni di governo del DPP e alcune delusioni sul fronte delle politiche economiche, sociali e legate al mondo del lavoro.
Ko e Hou sono pressoché appaiati nei sondaggi e uniti avrebbero il vantaggio dei pronostici contro il DPP. Per questo il KMT sta continuando a provare ad accordarsi con Ko, il quale però potrebbe alla fine decidere di correre da solo se non fosse indicato lui come candidato unitario. Questo anche perché l’ex sindaco di Taipei si è sempre presentato come un’alternativa alla tradizionale polarizzazione tra DPP e KMT, entrambi aspramente criticati anche durante gli ultimi mesi. L’accordo col KMT potrebbe deludere parte della sua base, ma sarebbe giustificabile con la guida del ticket. Un accordo tenendosi in secondo piano assomiglierebbe di più a un assorbimento e a una normalizzazione della proposta “pragmatica” e “non ideologica” di Ko, che a quel punto vedrebbe tramontare anche l’ipotesi di diventare la vera opposizione al DPP nel 2028.
Da tenere in considerazione anche la variabile di “Terry” Gou Taiming, il patron del colosso dell’elettronica Foxconn, principale fornitore di iPhone per Apple. Un paio di settimane fa la Cina ha annunciato indagini a carico dell’azienda che hanno colpito (volutamente o no) la sua campagna elettorale basata sulla capacità di fare affari sia con la Repubblica Popolare Cinese sia con gli Usa. Gou è molto lontano da tutti gli altri candidati nei sondaggi ma Ko ha dichiarato l’intenzione di coinvolgerlo nei colloqui.
Il tempo a disposizione dell’opposizione per trovare la quadra è assai limitato. La possibilità di una candidatura unitaria non è ancora ufficialmente naufragata, ma Ko dice ora di voler correre per la presidenza “fino alla fine” e il KMT chiede invece al leader del TPP un ritorno su suoi passi e all’accordo sottoscritto il 15 novembre.
Scenario complicato. Come detto, le candidature vanno depositate entro venerdì. Al momento l’unica certezza è la candidatura di Lai per il DPP, con l’ex rappresentante di Taipei negli Usa Hsiao Bi-khim a correre per la vicepresidenza. Una scelta dall’alto tasso simbolico, visto che Hsiao è inserita, al contrario di Lai e Tsai, nella lista nera di quelli che Pechino chiama “secessionisti”. Dall’accordo, o mancato accordo, nell’opposizione dipende molto del possibile risultato alle urne. E del futuro dei rapporti tra le due sponde dello Stretto di Taiwan.
Asia Pacifico: si incontrano in California i leader dei 21 Paesi APEC
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Grande attenzione per il summit della Cooperazione Economica Asia Pacifico. L’edizione 2023, aperta nei giorni scorsi a San Francisco, è uno snodo cruciale della diplomazia globale. Anche, ma non solo, per l’attesissimo incontro tra Joe Biden e Xi Jinping.
I leader delle 21 economie del Pacifico che fanno parte dellìAPEC parteciperanno alle prime riunioni solo giovedì 16 novembre, per poi svolgere la seduta plenaria venerdì 17. Ma si inizia a fare sul serio ben prima. A partire da lunedì 13, quando il presidente indonesiano Joko Widodo sarà ricevuto alla Casa Bianca. Nel corso dell’ultimo anno, Biden ha ospitato un’ampia schiera di leader asiatici. Dal premier giapponese Fumio Kishida al presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol (poi peraltro ospitati entrambi al summit di Camp David dello scorso agosto che ha rilanciato l’alleanza trilaterale), dal presidente filippino Ferdinand Marcos Junior al premier indiano Narendra Modi. Widodo va a completare il quadro, rappresentando la principale economia del Sud-Est asiatico, presidente di turno dell’ASEAN e membro dell’APEC.
I piani per l’incontro a Washington sono stati annunciati per la prima volta a settembre, dopo che Biden aveva deluso l’Indonesia non partecipando al summit dell’ASEAN ospitato da Giacarta, inviando al suo posto la vicepresidente Kamala Harris. Se la Cina è un partner economico fondamentale per l’Indonesia, Giacarta è diventata anche un grande acquirente di armi statunitensi e gli esperti regionali si aspettano che le due parti discutano di rafforzare i legami di sicurezza. Ma a Washington fanno gola anche i minerali critici utilizzati per le batterie dei veicoli elettrici, di cui è ricchissima l’Indonesia. A partire dal nichel, dove però la Cina ha costruito nel tempo un grande vantaggio strategico.
In cambio di qualche accordo in materia, Widodo potrebbe chiedere a Biden di sbloccare i 20 miliardi di dollari promessi dai Paesi occidentali per finanziare la transizione energetica dell’Indonesia, obiettivo cruciale di Giacarta utile a favorire la chiusura delle centrali elettriche a carbone. Un ostacolo al dialogo è però rappresentato dal nuovo conflitto in Medio Oriente. L’Indonesia è il Paese musulmano più popoloso al mondo e ha condannato l’invasione di Gaza da parte di Israele dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre, chiedendo un cessate il fuoco immediato. Posizione più vicina a quella di Pechino che a quella di Washington.
Mercoledì 15 novembre, Biden incontrerà invece il presidente cinese Xi. Si tratta senz’altro del momento più atteso della settimana, se non del mese o dell’anno, sul fronte diplomatico. Da alcuni mesi Stati Uniti e Cina hanno tessuto pazientemente la tela che ha consentito il via libera di Pechino al viaggio di Xi a San Francisco. Una serie di visite incrociate tra i membri dell’amministrazione Biden e i fedelissimi del leader cinese hanno portato a replicare l’incontro del 2022 a Bali. Ma stavolta non si tratta di un semplice colloquio “a margine”. La stessa diplomazia cinese ha definito l’incontro un “summit” e nel comunicare la partenza di Xi lo ha citato per primo, davanti al meeting APEC. La speranza è che l’incontro produca qualche risultato concreto, a partire dal riavvio del dialogo in materia militare, interrotto sin dall’agosto 2022 dopo il viaggio a Taiwan dell’allora presidente del Congresso, Nancy Pelosi.
Grande attesa anche per il possibile disgelo tra Cina e Giappone. Da Tokyo non hanno nascosto la speranza che si possa tenere un bilaterale tra Kishida e Xi. Potrebbe essere un modo per abbassare le tensioni tra i due giganti asiatici, acuite dal rafforzamento dei rispettivi legami con Stati Uniti per il Giappone e con la Russia per la Cina, nonché dalla vicenda dello sversamento delle acque della centrale nucleare di Fukushima, a cui Pechino ha risposto con un boicottaggio commerciale. Di certo, Kishida incontrerà il presidente sudcoreano Yoon, suggellando il disgelo dei rapporti avviato all’inizio dell’anno. I ministri della Difesa di Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone hanno peraltro appena annunciato di aver concordato l’attivazione di un’operazione di condivisione dei dati in tempo reale sui lanci missilistici nordcoreani già a dicembre
Ma le tensioni strategiche restano. A partire dalle Filippine. Nei giorni scorsi c’è stato un nuovo incidente tra navi di Manila e di Pechino in acque contese del mar Cinese meridionale. A San Francisco ci sarà anche Marcos Jr. Grande attenzione per capire se si terrà un colloquio con Xi. Complicato, vista l’agenda del presidente filippino protagonista di un grandissimo riavvicinamento agli Usa dopo l’era di Rodrigo Duterte. Il Dipartimento degli Affari Esteri di Manila ha infatti confermato che Marcos si recherà negli Stati Uniti il 14 novembre per partecipare al vertice APEC. In seguito visiterà Los Angeles e le Hawaii, dove il clan Marcos si rifugiò dopo che il padre dittatore fu estromesso dal potere nel 1986. Qui visiterà anche il Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti. Si tratta del più grande comando geografico unificato dell’esercito statunitense. Il suo comandante riferisce direttamente al presidente degli Stati Uniti attraverso il segretario alla Difesa e ha alle sue dipendenze diversi comandi componenti e sub-unificati nella regione, comprese le forze statunitensi in Corea del Sud e Giappone. Le unità del Comando Indo-Pacifico si addestrano solitamente con i soldati filippini durante il Balikatan, la più grande esercitazione congiunta annuale tra le forze statunitensi e filippine. La visita di Marcos ha un valore altamente simbolico, con risvolti però anche operativi.
La Cina, ça va sans dire, non apprezzerà. L’altro fronte di tensione sempre aperto è quello di Taiwan. Anche Taipei fa parte dell’APEC ma non può partecipare coi suoi leader politici. Come accade già da diversi anni, la presidente Tsai Ing-wen ha inviato in sua vece Morris Chang, il fondatore del colosso dei microchip TSMC. Come l’anno scorso a Bangkok, Chang potrebbe parlare con Xi, compiendo così uno scambio di alto livello tra le due sponde dello Stretto a pochi mesi dalle elezioni presidenziali taiwanesi del 13 gennaio prossimo.
La guerra civile in Myanmar e il confine cinese
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Mentre si combatte in Ucraina e a Gaza, c’è un altro conflitto con meno riflettori internazionali che continua da ormai quasi tre anni. Si tratta della guerra civile in Myanmar, dove la situazione è finita fuori controllo in una zona a dir poco nevralgica: il confine con la Cina. Anzi, in realtà, persino oltre quella sensibile frontiera con la principale potenza asiatica.
Sabato 4 novembre, un cittadino cinese è stato ucciso e diversi altri sono rimasti feriti quando un proiettile di artiglieria sparato dall’esercito birmano ha apparentemente mancato il bersaglio previsto ed è atterrato sul lato cinese del confine.
Il colpo aveva preso di mira la città di Laiza, sede del quartier generale dell’Esercito per l’Indipendenza Kachin, una delle più grandi e potenti tra le decine di organizzazioni di resistenza etnica che combattono contro la giunta militare protagonista del golpe del 1° febbraio 2021. Il rischio di ulteriori vittime da parte cinese è stato ridotto dall’evacuazione dei residenti dalla città di confine di Naban. Ma da Laiza, come sottolinea Asia Times, non ci sono molte vie di fuga praticabili.
La Cina osserva con grande preoccupazione l’evolversi della situazione birmana sin dal colpo di Stato che ha deposto Aung San Suu Kyi. Ma l’incidente di Laiza rappresenta un’escalation impossibile da ignorare, anche perché i gruppi armati hanno conquistato un avamposto commerciale chiave lungo la frontiera. Si tratta di Chinshwehaw, importante snodo per l’interscambio annuale di 1,8 miliardi di dollari tra Cina e Myanmar. E infatti il governo di Pechino ha subito esortato il Myanmar a “cooperare” per mantenere stabile il confine condiviso.
Il viceministro degli Esteri Nong Rong ha visitato il Myanmar durante il fine settimana per discutere degli scontri che, secondo le Nazioni Unite, hanno causato lo sfollamento di oltre 23.000 persone. Durante la sua visita, Nong ha incontrato il vice primo ministro e ministro degli Esteri Than Shwe e il vice ministro degli Esteri Lwin Oo. In cima all’agenda, la situazione lungo il confine con la provincia dello Yunnan.
Pechino ha chiesto il “cessate il fuoco immediato”, ma gli ultimi combattimenti sottolineano le difficoltà crescenti che il potere militare deve affrontare per controllare il Paese. Un controllo che è tutt’altro che totale. A settembre, il leader ad interim del governo in esilio del Myanmar, Duwa Lashi La, ha dichiarato che le forze di resistenza controllano circa il 60% del territorio della nazione del Sud-Est asiatico e sono pronte a minacciare la giunta nelle sue roccaforti chiave.
A complicare la situazione, il fatto che da tempo la Cina intrattiene rapporti con il gruppo che governa l’autoproclamato Stato Wa nel nord del Paese, un angolo inaccessibile noto come centro del commercio illegale di stupefacenti. Nel recente passato, questi legami sono stati messi alla prova dalla decisione dei Wa di sospendere l’attività estrattiva, tagliando fuori quasi un terzo delle forniture totali di minerale di stagno della Cina. Le tensioni sono state esacerbate dagli sforzi di Pechino per bloccare le truffe cyber nella regione di confine, attività che finanziano il crimine organizzato e spesso prendono di mira i cittadini cinesi. La stretta di Pechino ha preso di mira gli ufficiali dell’Esercito dello Stato di Wa. L’agenzia di stampa statale Xinhua ha recentemente riferito che più di 2.300 sospetti sono stati catturati in Myanmar nell’ambito di un più ampio giro di vite e scortati oltre il confine.
La Cina non ha certo giocato un ruolo nel golpe del 2021 ma ora vorrebbe presumibilmente vedere un ritorno alla stabilità in Myanmar. Questo nonostante Pechino avesse rapporti probabilmente migliori con la Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi (che ha un rapporto ottimo con Xi Jinping) che non con il Tatmadaw, con il quale è spesso entrata in rotta di collisione sul presunto sostegno alle milizie etniche.
La Cina ha sempre mantenuto interessi importanti in Birmania. Il China-Myanmar Economic Corridor (CMEC) dovrebbe connettere lo Yunnan al golfo del Bengala (e dunque all’oceano Indiano) attraverso il porto di Kyaukpyu, aggirando lo stretto di Malacca. Ma 29 dei 38 progetti in ambito CMEC sono ancora da approvare.
Inoltre, quasi la metà delle importazioni cinesi di terbio e disprosio (terre rare con alto valore atomico) provengono proprio dal Myanmar. L’avvio della transizione democratica era stata deciso dai militari anche per diversificare i rapporti commerciali e diplomatici e ridurre la dipendenza da Pechino. Lo dimostrano anche gli eccellenti rapporti costruiti nel tempo con Russia (soprattutto in materia militare) e India.
Ora però, la Cina ha bisogno che in Myanmar torni l’ordine. Anche se a poterlo garantire dovessero essere i generali golpisti.
Cina: la Conferenza quinquennale sulle politiche finanziarie
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L’ultima volta era ancora il 2017. Sembra quasi un’altra epoca. Prima del Covid, prima della guerra in Ucraina e di quella tra Israele e Hamas, prima persino della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti. O ancora: prima della rimozione del vincolo dei due mandati presidenziali nella Repubblica Popolare. Ecco, quella fu l’ultima volta in cui Xi Jinping avviò la Conferenza quinquennale sulle politiche finanziarie. A sei anni di distanza, lunedì 30 e martedì 31 ottobre il leader che nel frattempo ha ottenuto e avviato il suo terzo mandato, riunisce a porte chiuse i principali leader cinesi, i dirigenti statali, le autorità di regolamentazione e i banchieri di alto livello. Obiettivo: dare una direzione precisa allo sviluppo finanziario dei prossimi cinque anni.
Un’altra differenza rispetto al passato è che la conferenza si svolge in un momento in cui la crescita economica della Cina sembra aver rallentato il passo e le turbolenze (esterne e interne) hanno in qualche modo scosso l’ecosistema finanziario del gigante asiatico. La crisi immobiliare e l’aumento del debito sono le due preoccupazioni principali, inserite in un contesto in cui il Partito comunista sta provando a rivedere il proprio modello di sviluppo. Dall’alta esposizione debitoria portata da giganteschi progetti infrastrutturali e dagli investimenti a debito dei colossi immobiliari, si sta provando ad arrivare a una crescita di più alta qualità e soprattutto con meno rischi. Provando dunque a schermarsi sia dalle problematiche esterne (leggasi sanzioni, interruzioni delle catene di approvvigionamento, crisi economiche), sia da quelle interne.
La conferenza si dovrebbe non a caso concentrare principalmente sulla risoluzione del debito. Già nel 2018, il governo centrale ha chiesto alle autorità locali di smettere di accumulare i cosiddetti debiti nascosti, canali informali di prestito spesso attraverso veicoli di finanziamento del governo locale. Obiettivo non del tutto raggiunto, anche perché la stretta e l’avvio della conversione del modello di sviluppo cinese sono coincisi con la pandemia prima e la guerra poi. Le difficoltà per il settore immobiliare (su tutti), che erano state già preventivate quando Xi tracciò le cosiddette “tre linee rosse” per ridurre l’esposizione debitoria, sono state acuite dagli eventi esterni. E le casse locali sono strettamente correlate, così come i fondi fiduciari, proprio ai costruttori immobiliari.
Il governo non ha sin qui predisposto mastodontici piani di salvataggio, ma proprio la scorsa settimana è arrivata una mossa piuttosto rilevante, quando Pechino ha approvato l’emissione di 1.000 miliardi di yuan (137 miliardi di dollari) di obbligazioni sovrane, i cui fondi saranno trasferiti ai governi locali per sostenere la ricostruzione e migliorare le capacità di prevenzione e soccorso in caso di disastri. Metà delle obbligazioni dovranno essere emesse e spese prima della fine del 2023 e l’altra metà entro il 2024. La nuova emissione porterà il rapporto tra deficit di bilancio e prodotto interno lordo a circa il 3,8%, ben oltre l’obiettivo del 3% fissato a marzo durante le cosiddette “due sessioni”.
La parola chiave della conferenza sarà come sempre quella: stabilità.
Nell’ultimo anno Pechino ha chiesto alle maggiori banche cinesi di assumersi una parte della responsabilità, fornendo sostegno creditizio ai costruttori in difficoltà e ai veicoli di finanziamento degli enti locali, che hanno un debito di 9 mila miliardi di dollari. La loro crescente esposizione ha suscitato l’allarme di alcuni analisti. Verrà probabilmente chiesto ai governi locali di rispondere della risoluzione del debito nascosto esistente e della prevenzione di nuove passività illecite. In questo senso potrebbe giocare un ruolo importante il nuovo ministro delle Finanze, Lan Foan, nominato al posto di Liu Kun dal Comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo una settimana fa. Lan è il primo titolare delle Finanze in 40 anni a non essere stato prima viceministro. La rapida ascesa è dovuta alla sua esperienza da governatore provinciale, in un momento in cui la priorità del partito è impedire il contagio della crisi immobiliare sulle casse locali.
Nel corso della riunione a porte chiuse ci si aspetta che venga ribadito il principio secondo cui il settore finanziario deve essere al servizio dell’economia reale. Ciò potrebbe significare una spinta a concedere più prestiti a settori chiave come l’alta tecnologia, le nuove energie e la protezione dell’ambiente, mentre potrebbero essere prese in considerazione anche iniziative per stimolare i consumi e i settori dei servizi.
E poi c’è ovviamente l’aspetto politico. Rispetto all’ultima conferenza quinquennale del 2017, la presa del Partito e dunque di Xi sul settore privato si è molto amplificata. La campagna di rettificazione delle grandi piattaforme digitali è servita come esempio a mostrare che le grandi imprese non possono ammassare eccessivo potere e possibilmente devono contribuire a perseguire i principali obiettivi strategici della politica.
A riprova del mai sopito impulso a “pulizia” e “controllo”, anche i dati diffusi dalla Commissione centrale per la Disciplina e la Supervisione del Partito, secondo cui tra gennaio e settembre del 2023 sono stati puniti per corruzione 405 mila funzionari, di cui 34 con incarichi di alto livello. Tra di loro, l’ex segretario del Partito nella città di Hangzhou (la sede centrale di Alibaba) e l’ex vice governatore della Banca Popolare Cinese. La riforma dell’apparato governativo e statale prevede peraltro una maggiore supervisione centrale e partitica. Xi ha dato un ulteriore messaggio nei giorni scorsi, quando prima della conferenza ha compiuto la sua prima storica visita nei panni di leader alla sede della banca centrale.
La Cina deve continuare a crescere ma deve farlo seguendo un altro dei concetti mantra dell’era di Xi: la sicurezza.
Taiwan: il candidato Presidente Terry Gou Taiming e la Foxconn
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C’è un’azienda che è il principale fornitore di iPhone per Apple ma che ha i suoi centri di produzione più vasti in Cina. C’è un’azienda il cui fondatore è candidato alle elezioni presidenziali forse più importanti del 2024 insieme a quelle per la Casa Bianca. C’è un’azienda che più di tante altre, forse più di tutte, incarna ciò che rimane del triangolo di cooperazione Repubblica Popolare Cinese-Stati Uniti-Taiwan.
Quell’azienda si chiama Hon Hai, Foxconn a livello internazionale. Il suo storico patron, “Terry” Gou Taiming, ambisce a essere eletto prossimo presidente della Repubblica di Cina (Taiwan) al voto del prossimo 13 gennaio. Al momento si ritrova quarto nei sondaggi, ma per provare una complicata rimonta si presenta come il “grande stabilizzatore”, l’unico in grado di tutelare gli affari commerciali tra le due sponde dello Stretto facendo ripartire il dialogo con Pechino ed evitando azioni militari. Ecco, questa linea sembra improvvisamente e inaspettatamente essere andata in frantumi domenica 22 ottobre, quando i media statali cinesi hanno dato conto dell’avvio di controlli fiscali e indagini in loco sull’uso del terreno da parte della Foxconn e delle sue sussidiarie nelle provincie di Hubei ed Henan, cioè quella che ospita l’immenso stabilimento di Zhengzhou ribattezzato “iPhone City” visto che proprio qui vengono assemblati la maggior parte dei dispositivi poi spediti alla statunitense Apple.
“I dipartimenti competenti che conducono ispezioni fiscali e indagano sulle situazioni di utilizzo dei terreni delle imprese nazionali in Cina sono normali attività di supervisione del mercato, ragionevoli e legali” sostiene il tabloid nazionalista Global Times, ma le tempistiche e la pubblicità data all’indagine fanno sospettare l’esistenza di motivazioni politiche. Il messaggio esplicito in arrivo dai media cinesi alle aziende taiwanesi è il seguente: “Non solo dovrebbero beneficiare delle opportunità di sviluppo e dei dividendi della terraferma, ma anche assumersi le relative responsabilità sociali. Dovrebbero contribuire attivamente alla promozione di relazioni pacifiche tra gli Stretti e svolgere un ruolo positivo nel loro continuo sviluppo”.
Legittimo pensare che si tratti di un messaggio rivolto a Gou in vista delle campagne elettorali. Anche perché secondo fonti citate da Reuters, diverse aziende taiwanesi sarebbero state sottoposte a controlli da parte delle autorità cinesi negli ultimi mesi, senza che fosse annunciato.
L’annuncio esplicito dell’indagine sulla Foxconn ha invece una serie di impatti concreti, al di là che siano stati perseguiti volontariamente e politicamente da parte di Pechino. Partiamo dal fronte aziendale: Foxconn sta di recente insistendo sulla diversificazione e delocalizzazione di alcune linee di produzione dalla Cina continentale ad altri Paesi, in primis India e Vietnam. Indagine e ispezioni sembrano voler dire al colosso taiwanese che deve scegliere da che parte stare: intende mantenere le radici nella Repubblica Popolare (come spera il Partito comunista che anche di recente ha corteggiato l’azienda per nuovi affari) oppure perseguire la strategia di riduzione del rischio promossa dall’Occidente e che secondo la Cina è un “disaccoppiamento mascherato”? La risposta è cruciale, anche perché tradizionalmente la Foxconn è citata da Pechino come un esempio di successo di cooperazione commerciale e tecnologica tra le due sponde dello Stretto.
C’è poi il fronte politico. A Pechino potrebbe non dispiacere un’eventuale presidenza Gou, visto che l’ex presidente della Foxconn ha ottimi agganci anche con gli Stati Uniti. Nel 2019, era stato persino ricevuto alla Casa Bianca da Donald Trump che lo aveva anche etichettato come “vecchio amico”. Allo stesso tempo, il Partito comunista sa che la sua corsa rischia di compromettere le probabilità di successo dell’opposizione dialogante.
A un mese esatto dalla chiusura ufficiale delle candidature, l’attuale partito di maggioranza (DPP, Partito progressista democratico) sembra ancora una volta favorito a vincere le presidenziali con l’attuale vicepresidente Lai Ching-te, meno moderato della leader uscente Tsai Ing-wen e particolarmente inviso a Pechino. Il vantaggio fondamentale di Lai è che il campo rivale è frammentato in tre candidati diversi: Hou Yu-ih del Kuomintang (il principale partito d’opposizione), Ko Wen-je del Taiwan People’s Party (che si presenta come una terza via rispetto ai due grandi partiti tradizionali) e, appunto, Gou.
Il fondatore della Foxconn aveva provato a ottenere la candidatura col KMT, ma come accaduto nel 2019 il partito gli ha preferito un altro nome. Nonostante l’iniziale promessa di supporto a Hou, alla fine Gou ha annunciato la sua candidatura da indipendente a fine agosto. Presentandosi a sua volta come una prospettiva di cambiamento e utilizzando lo slogan “Good Timing”, giocando sulle iniziali del suo nome e mettendo in mostra un nuovo modello di Apple Watch.
Gou fonda(va) la sua campagna sulla capacità di poter parlare sia con la Cina continentale sia con gli Stati Uniti, preservando dunque Taiwan dai rischi geopolitici. L’avvio delle indagini in Cina rischia dunque di far crollare il centro nevralgico della retorica politica di Gou. Una prospettiva citata da qualcuno a Taipei è che in tal modo la Cina vorrebbe ottenere maggiori garanzie o concessioni politiche da Gou qualora avesse un ruolo nella futura amministrazione. Un’altra teoria, la più complottista, è quella che così facendo si dà a Gou la possibilità di smentire la parte di opinione pubblica taiwanese che lo considera troppo vicino alla Cina continentale. Ma l’ipotesi più concreta è che Pechino voglia favorire un compattamento del campo dell’opposizione. Lo stesso DPP ha reagito accusando Pechino di voler fare pressioni su Gou per costringerlo ad abbandonare la candidatura. Così fosse, il campo più “dialogante” avrebbe un disturbo in meno in vista delle urne, con Gou che qualora restasse in corsa ruberebbe voti soprattutto al KMT o a Ko.
Il messaggio potrebbe peraltro essere già stato decrittato dal KMT, che ha innalzato di livello le trattative in corso col TPP per formare un’alleanza. Ko ha infatti incontrato sia Hou sia il presidente del KMT, Eric Chu. Un deciso cambio di passo dopo che fin qui si erano incontrati solo i funzionari dei due partiti, senza riuscire a raggiungere un accordo sul come far funzionare l’eventuale coalizione. Ora, diversi personaggi in vista nella sfera del KMT stanno venendo allo scoperto per dare il via libera alla possibilità di sostenere Ko, al momento testa a testa per il secondo posto con Hou nei sondaggi. Il candidato alle elezioni del 2020 Han Kuo-yu, ancora molto popolare, si è fatto immortalare sui social insieme a Ko. E Jaw Shaw-kong, influente presidente della Broadcasting Corporation of China, ha cambiato posizione dopo aver sempre proposto Hou come candidato presidente: ora sostiene che il KMT debba accettare Ko alla guida del ticket per avere speranze di rovesciare il DPP. In cambio, Ko ha promesso tra le righe un rafforzamento del ruolo del primo ministro a discapito di quello di presidente. Come a dire al KMT che qualora diventasse presidente grazie al suo supporto, gli concederà ampi margini di manovra per l’azione governativa.
La maggiore incognita resta quella sulla volontà di Ko, che ha invece basato la sua proposta politica come una terza via rispetto al tradizionale bipolarismo taiwanese. Accettare l’accordo col KMT significherebbe “normalizzare” il TPP. Andando da solo, Ko sa che molto probabilmente perderà ma se arrivasse secondo diventerebbe il kingmaker del prossimo yuan legislativo (il parlamento taiwanese), dove nessuno dovrebbe avere la maggioranza. Per poi presentarsi come vera alternativa al DPP alle presidenziali del 2028. Viceversa, scegliesse di allearsi con Ko, il voto del 2024 diventerebbe per lui un rischiatutto, dove può diventare presidente o rischiare di finire nel dimenticatoio. Le tempistiche saranno decisive. Un’eventuale alleanza Ko-Hou lascerebbe a Gou il ruolo di vera “novità” rispetto ai partiti tradizionali. Sempre che il fondatore della Foxconn non ceda nel frattempo.
Cina: il terzo Forum della Nuova Via della Seta
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Questa edizione è popolata soprattutto da figure dei Paesi emergenti e in via di sviluppo più che dei Paesi occidentali, tranne rare eccezioni. Una Via della Seta a due velocità: una con sempre più ostacoli in Occidente, l’altra più spedita nel Sud globale.
L’ultima volta era stata l’aprile del 2019. Quattro anni e mezzo fa, un’eternità. Prima della pandemia di Covid-19, prima della guerra in Ucraina, prima della visita di Nancy Pelosi a Taiwan, prima del nuovo conflitto tra Israele e Hamas. Prima di tutto questo, a Pechino si era tenuto il secondo forum sulla Belt and Road Initiative (BRI), nome ufficiale del colossale progetto cinese noto in Italia con la più romanticheggiante alternativa di “Nuova Via della Seta”. Quattro anni e mezzo fa, a Pechino c’era anche l’allora premier italiano Giuseppe Conte. Stavolta, c’è un rappresentante della Farnesina. Già, perché l’Italia si prepara a uscire dalla BRI, seppure abbia rispettato l’etichetta istituzionale attendendo lo svolgimento della terza edizione del forum per non rovinare la festa del presidente Xi Jinping.
Tra martedì 17 e mercoledì 18 ottobre sono attesi all’evento rappresentanti di oltre 130 Paesi. Xi partecipa alla cerimonia di apertura del forum e terrà un discorso programmatico, oltre a organizzare un banchetto di benvenuto ed eventi bilaterali per i vari ospiti. Il bilaterale più atteso è ovviamente quello con Vladimir Putin. Anticipato da un colloquio tra i due ministri degli Esteri, Wang Yi e Sergej Lavrov, i due leader si ritrovano a Pechino venti mesi dopo l’ormai celebre incontro del 4 febbraio 2022 a margine dei Giochi Olimpici Invernali.
In quell’occasione fu forgiata quella “partnership senza limiti” che la Cina ha poi rapidamente disconosciuto con la guerra in Ucraina. Quantomeno a livello lessicale, facendola depennare da tutti i successivi incontri e dal documento congiunto dello scorso marzo durante la visita di Xi a Mosca. Gli analisti si attendono novità più concrete sul fronte energetico. Secondo i dati doganali cinesi, a settembre il valore degli scambi bilaterali è salito a 21,18 miliardi di dollari, il valore più alto dal febbraio 2022. Il mese scorso, il ministro del Commercio cinese Wang Wentao ha dichiarato che la cooperazione economica e commerciale tra Cina e Russia si è approfondita ed è diventata più “solida” sotto la “guida strategica” dei due leader.
Mosca esporta circa 2 milioni di barili di petrolio al giorno in Cina, pari a più di un terzo delle sue esportazioni totali di greggio. Circa il 40% delle forniture passa attraverso l’oleodotto East Siberia Pacific Ocean (ESPO), lungo 4.070 km e finanziato con prestiti cinesi per un valore stimato di 50 miliardi di dollari. Le forniture attraverso il gasdotto Power of Siberia, invece, sono iniziate alla fine del 2019 e dovrebbero salire a 38 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2025. Sono attese novità più precise sul secondo gasdotto verso la Cina, il Power of Siberia 2, che dovrebbe avere una capacità di 50 miliardi di metri cubi all’anno e passare per la Mongolia. Xi e Putin hanno menzionato più volte il progetto nei loro recenti incontri, ma non sono ancora chiari contorni e tempistiche del progetto.
I titoli dei media internazionali saranno senz’altro dominati dall’incontro Xi-Putin, ma a Pechino ci sono diversi altri attori. Più di una dozzina di leader provenienti da Africa, Asia e Medio Oriente sono già arrivati a Pechino, tra cui il presidente cileno Gabriel Boric, il primo ministro ungherese Viktor Orbán, il primo ministro etiope Abiy Ahmed, il presidente dello Sri Lanka Ranil Wickremesinghe, il presidente della Repubblica del Congo Denis Sassou Nguesso, il primo ministro della Papua Nuova Guinea James Marape e il primo ministro cambogiano Hun Manet.
Presente anche il presidente indonesiano Joko Widodo. Proprio lui, a inizio ottobre ha inaugurato il treno Giacarta-Bandung, la linea ferroviaria ad alta velocità del Sud-Est asiatico. Un progetto che rientra sotto l’ombrello della BRI, lanciata esattamente dieci anni fa da Xi appena asceso al potere. Lo sviluppo della rete ferroviaria del Sud-Est asiatico è da sempre uno dei primi obiettivi della Belt and Road. Nel 2021 è entrato in funzione il collegamento tra Kunming, capoluogo della provincia cinese dello Yunnan, e Vientiane, capitale del Laos. Il primo passo di un tracciato che in futuro dovrebbe arrivare fino a Singapore passando per Thailandia e Malesia.
Presenti anche emissari del governo dei talebani in Afghanistan. Alla Cina interessano i giacimenti non sfruttati di rame e litio, mentre i talebani vorrebbero entrare a far parte del Corridoio economico Cina-Pakistan.
Negli ultimi anni i progetti targati BRI hanno perso un po’ di slancio. Non solo per la pandemia, ma anche per il rallentamento della crescita cinese e le tensioni geopolitiche che hanno provocato ritardi, rallentamenti e sospensioni di diversi progetti. Fino al 2019 sono stati investiti circa 100 miliardi di dollari all’anno, da allora la cifra si aggira tra i 60 e i 70 miliardi. E alcuni Paesi sono in difficoltà o del tutto impossibilitati a ripagare i debiti accumulati nei confronti della Cina. Questo non significa che il progetto è destinato ad arenarsi. Anzi, l’idea è quella di passare dai mastodontici progetti portatori (anche) di debito a obiettivi più specifici e di alta qualità.
Qualche tempo fa, Wang Yi aveva auspicato “progetti piccoli e belli” in ambito BRI. Non a caso il nome ufficiale del terzo forum richiama questo concetto: “High-quality Belt and Road Cooperation: Insieme per lo sviluppo e la prosperità comuni”. Il richiamo è in realtà anche ad altri due concetti chiave della retorica della “nuova era” di Xi: prosperità comune e destino condiviso. Il primo tradizionalmente all’interno, il secondo all’esterno. Citato per la prima volta proprio nel discorso con cui da Giacarta lanciò la Via della Seta marittima il 2 ottobre 2013, nelle scorse settimane Pechino ha rilasciato un documento che sistematizza la teoria della “comunità globale con destino condiviso”, che mira a presentare la Cina come un attore responsabile e garante di stabilità. Una retorica adottata su diverse crisi di questi anni, spesso in contrapposizione agli Stati Uniti, presentati invece dalla narrazione cinese come portatori di instabilità e di una “mentalità da guerra fredda” che rischia di dare forma a una nuova “logica di confronto tra blocchi”. Si tratta di una narrazione che trova consensi soprattutto nel cosiddetto Sud globale. E non è un caso che il terzo forum sia pensato e popolato soprattutto da figure dei Paesi emergenti e in via di sviluppo più che da figure dei Paesi occidentali, tranne rare eccezioni.
In futuro, si può prevedere una Via della Seta a due velocità: una con sempre più ostacoli in Occidente, soprattutto nei settori strategici come infrastrutture e telecomunicazioni, l’altra più spedita nel Sud globale.
Conflitto Israele-Palestina: le reazioni dell’Asia orientale
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Un nuovo fronte dopo quello della guerra in Ucraina. Seppure ci si trovi non così lontano dalle porte dell’Europa, il conflitto in Israele viene osservato con attenzione anche in Asia orientale. A partire dalla Cina, che proprio sulla questione israelo palestinese aveva iniziato a investire un forte capitale diplomatico e retorico. La prima reazione di Pechino agli attacchi di Hamas è stata come sempre all’insegna della pretesa di neutralità e imparzialità. “La Cina è profondamente preoccupata per l’attuale escalation di tensioni e violenze tra Palestina e Israele. Chiediamo alle parti interessate di mantenere la calma, di esercitare la moderazione e di porre immediatamente fine alle ostilità per proteggere i civili ed evitare un ulteriore deterioramento della situazione”, si legge nel comunicato del ministero degli Esteri di domenica 8 ottobre. Per poi passare alla fase propositiva: “La via d’uscita fondamentale dal conflitto è l’attuazione della soluzione dei due Stati e la creazione di uno Stato palestinese indipendente. La comunità internazionale deve agire con maggiore urgenza, intensificare il contributo alla questione palestinese, facilitare la rapida ripresa dei colloqui di pace tra Palestina e Israele e trovare un modo per realizzare una pace duratura”.
Nessuna condanna diretta degli attacchi, dunque, tanto da suscitare la reazione delusa di Israele, la cui ambasciata a Pechino ha postato sul proprio account X una critica non proprio velata, dicendo che sperava in una dimostrazione di solidarietà e sostegno da parte di Pechino, aspettandosi una “forte condanna” di Hamas. Lunedì, il governo cinese ha parzialmente aggiustato il tiro. “La Cina si oppone e condanna le azioni che danneggiano i civili”, ha dichiarato Mao Ning, portavoce del Ministero degli Esteri, durante la conferenza stampa quotidiana. Ma, ancora una volta, non è stata menzionata esplicitamente Hamas. “L’unica soluzione è il dialogo e tutelare le legittime preoccupazioni di entrambe le parti”, ha aggiunto Mao. Parole che a molti hanno ricordato quelle utilizzate regolarmente dal governo cinese sulla guerra in Ucraina. Pechino ha d’altronde rapporti profondi sia con la Palestina, di cui ha sempre appoggiato l’indipendenza, sia con Israele, di cui è il secondo partner commerciale dopo gli Stati Uniti. E la Cina, dopo aver favorito il riavvio delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, si era detta pronta a svolgere un ruolo di mediazione tra le parti. A giugno, il Presidente Xi Jinping ha ricevuto a Pechino il leader palestinese Mahmoud Abbas. A luglio, l’ambasciatore cinese in Israele ha regalato al premier israeliano una copia autografata dell’ultimo libro di Xi e ha trasmesso l’invito a Netanyahu a visitare Pechino.
Come sottolineato da Wen Ti-sung dell’Australian National University, proprio a causa delle difficoltà diplomatiche sulla guerra in Ucraina a causa dell’impossibilità nel condannare la Russia, la Cina ha puntato molto sulla sua diplomazia in Medio Oriente per promuovere la propria immagine da “grande stabilizzatore”. Ora, però, col conflitto in Israele vacilla anche il percorso di dialogo tra Arabia Saudita e Iran, il cui ruolo sull’azione di Hamas è peraltro da chiarire. Tutto ciò rischia di creare delle nuove frizioni con gli Stati Uniti, proprio mentre Pechino e Washington stanno cercando di arrivare a una stabilizzazione delle relazioni. Sempre lunedì, Xi ha peraltro ricevuto a Pechino la prima delegazione congressuale statunitense dal 2019. Chuck Schumer, leader della maggioranza democratica al Senato e guida della missione, si è detto deluso dalla reazione del governo cinese sulla situazione israeliana. Sui media di stato cinesi, invece, iniziano già ad affiorare delle allusioni più o meno esplicite alla posizione giudicata “non imparziale” degli Stati Uniti e in particolare sull’intenzione espressa dalla Casa Bianca di inviare nuove armi a Israele. Dinamiche che ricordano quelle sull’Ucraina, con la Cina che prova ancora una volta a presentarsi come osservatrice giusta, non parte coinvolta direttamente nel conflitto o sostenitrice di una delle due parti. E dunque, un potenziale mediatore. O meglio, ispiratore. Ruolo a cui ha dimostrato di voler assurgere col celeberrimo documento di posizione sull’Ucraina, che non è un piano di pace per stessa ammissione cinese, e con tutti i documenti sulla visione cinese del mondo pubblicati di recente. L’ultimo, quello sulla “comunità globale dal destino condiviso” che sistematizza il concetto espresso da Xi per la prima volta esattamente dieci anni fa col lancio della Nuova Via della Seta marittima col discorso di fronte al parlamento indonesiano del 2 ottobre 2013.
A Taiwan si osserva invece con qualche preoccupazione quanto accade in Israele. Non tanto perché si ritenga che l’ennesima crisi possa dare il via libera a Pechino per tentare un’avventura militare sullo Stretto, quanto per il potenziale impatto sugli aiuti e spedizioni militari. Gli Stati Uniti hanno già mostrato di non avere risorse infinite per sostenere le difese dell’Ucraina e la promessa di mandare nuove armi in Israele potrebbe produrre nuovi rallentamenti nella consegna dei pacchetti previsti per Taipei. Il governo, intanto, ha preso con convinzione le parti di Israele. Lo stesso ha fatto l’India, che è stata fin qui invece molto più ambigua su Russia e Ucraina. “Profondamente scioccato dalla notizia degli attacchi terroristici in Israele”, ha scritto il primo ministro indiano Narendra Modi su X. “I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con le vittime innocenti e le loro famiglie. Siamo solidali con Israele in questo momento difficile”. Anche Singapore è sulla stessa linea. “Condanniamo fermamente gli attacchi missilistici e terroristici da Gaza contro Israele, che hanno causato la morte e il ferimento di molti civili innocenti. Chiediamo la fine immediata delle violenze e sollecitiamo tutte le parti a fare il possibile per proteggere la sicurezza dei civili”, si legge in un comunicato del Ministero degli Esteri della città-Stato.
Anche Giappone e Corea del Sud hanno espresso solidarietà a Israele. A Seul però c’è chi teme che la situazione possa aumentare ancora di più le pressioni di Usa e Nato per inviare direttamente armi all’Ucraina. Cosa sin qui evitata visto che le norme sudcoreane impedirebbero un’assistenza militare diretta a Paesi coinvolti in conflitti. Senza contare le ripercussioni sulla sicurezza nazionale e i rapporti con Russia, Corea del Nord e Cina. Particolarmente colpita dalla nuova crisi anche la Thailandia, che ha avuto almeno 12 suoi cittadini tra le vittime degli attacchi.
Maldive: il filocinese Mohamed Muizzu vince le presidenziali
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“Se vincerò le elezioni, amplierò i legami tra i nostri due Paesi”. Era il 2022, quando Mohamed Muizzu ha fatto questa promessa alla Cina durante un incontro virtuale con rappresentanti del Partito comunista cinese. Allora era il sindaco di Male, la capitale delle Maldive, da oggi invece è il Presidente eletto dell’arcipelago dell’oceano Indiano. Muizzu (Partito Progressista delle Maldive) ha infatti vinto il ballottaggio delle elezioni presidenziali che si è svolto sabato 30 settembre. Un voto osservato con grande attenzione dalla Cina e dall’India, visto che le due potenze regionali si contendono da tempo l’influenza sulle Maldive tra prestiti, accordi, infrastrutture, investimenti e partnership legate alla sicurezza.
Con quasi tutti i voti scrutinati, la Commissione elettorale delle Maldive ha dichiarato sul proprio sito web che Muizzu ha ricevuto il 54% delle preferenze alle urne, contro il 46% del Presidente uscente Ibrahim Solih del Partito Democratico Maldiviano. Circa l’85% dei 282.000 elettori aventi diritto si è presentato ai seggi elettorali allestiti nelle 187 isole dell’arcipelago.
Nuova Delhi tifava con convinzione per la conferma di Solih, che durante la sua presidenza ha sostenuto una politica di rafforzamento dei legami col grande vicino, denominata “India First“. Solih rimarrà presidente fino all’insediamento di Muizzu, previsto per il 17 novembre. “Oggi il popolo ha preso una forte decisione per riconquistare l’indipendenza delle Maldive”, ha dichiarato Muizzu ai giornalisti nella capitale Male. “Tutti noi, lavorando insieme con unità, Insha Allah, avremo successo”.
Dietro Muizzu si staglia l’ombra di Abdulla Yameen, ex presidente filocinese finito in carcere per scontare una condanna a 11 anni per corruzione e riciclaggio di denaro. Il Presidente eletto sostiene che le accuse contro Yameen sono motivate politicamente e, appena vinte le elezioni, ha chiesto a Solih di rilasciarlo. Già dal primo turno delle presidenziali Muizzu era uscito in vantaggio, nonostante i favori del pronostico fossero dalla parte di Solih, infine però frenato da alcune divisioni all’interno del suo partito. Il leader uscente aveva puntato sul mettere in evidenza l’efficace gestione della pandemia di Covid-19, ma alla fine hanno prevalso le critiche dell’opposizione sulla crescita dell’indebitamento a causa degli ingenti prestiti dei Paesi stranieri per finanziare gli investimenti infrastrutturali di cui l’arcipelago ha estremo bisogno. Tra questi Paesi stranieri in prima fila proprio Nuova Delhi, finita però al centro della campagna di protesta chiamata “India out”, motivata dalla volontà di rimuovere la (seppur piccola) presenza militare indiana alle Maldive, composta da circa 70 unità e aerei di sorveglianza.
Ingegnere civile di formazione britannica, Muizzu è stato in passato il ministro dell’Edilizia dell’amministrazione Yameen. In quel ruolo ha supervisionato diversi progetti infrastrutturali finanziati dalla Cina, tra cui spicca un ponte di 200 milioni di dollari che collega la capitale con il principale aeroporto dell’arcipelago. Anche qui, a costo di forti debiti accumulati verso Pechino e in scadenza nel 2025. Muizzu è riuscito a convincere gli elettori che con lui alla guida è concreta la possibilità di raggiungere nuovi accordi in materia con la Cina, visto che a suo dire la politica estera di Solih era troppo sbilanciata a favore dell’India, pregiudicando così i rapporti con Pechino.
Sia Cina sia India si sono affrettate a complimentarsi con Muizzu. “La Cina è disposta a collaborare con le Maldive per consolidare la tradizionale amicizia, approfondire la cooperazione reciprocamente vantaggiosa e spingere verso nuovi e continui progressi nel partenariato amichevole e globale orientato al futuro tra i due Paesi”, ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino. Per l’India è sceso in campo direttamente il premier Narendra Modi, che sul suo account X ha scritto: “L’India rimane impegnata a rafforzare le relazioni bilaterali India-Maldive, ormai consolidate nel tempo, e a migliorare la nostra cooperazione generale nella regione dell’Oceano Indiano”. Osservano con attenzione anche gli Stati Uniti, che puntano tantissimo sul ruolo di Nuova Delhi per contenere l’ampliamento dell’influenza cinese in tutta la regione che chiamano Indo-Pacifico. Maldive comprese. Ma ora l’arcipelago famoso in tutto il mondo delle vacanze da sogno sembra in procinto di guardare proprio verso Pechino.
Taiwan: pronto al varo il primo sottomarino autoctono
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Un pesce mitologico che può trasformarsi in un uccello. 海鯤 (Hǎi kūn) è il nome scelto dalla marina taiwanese per il suo primo sottomarino di produzione autoctona. Il riferimento è a una leggenda della dinastia Ming, il cui lealista Koxinga riparò a Taiwan cacciando gli olandesi, prima che i suoi eredi fossero costretti a sottomettersi ai Qing. Storie che rimandano ancora una volta a un’epica antica, come spesso accade nelle liturgie dell’esercito taiwanese che più di altri comparti sociali si riconosce ancora pienamente all’interno della cornice della Repubblica di Cina, il nome con cui Taiwan è indipendente de facto.
Al di là dei nomi, il lancio del primo sottomarino di produzione autoctona è una notizia rilevante per la difesa di Taiwan, che sta provando ad aumentare le proprie capacità di combattimento asimmetriche. Costato 49,36 miliardi di dollari, Hǎi kūn utilizzerà un sistema di combattimento della Lockheed Martin Corp e trasporterà siluri pesanti MK-48 di produzione statunitense.
Il varo del sottomarino è previsto per giovedì 28 settembre presso lo stabilimento della Taiwan Shipbuilding Corporation di Kaohsiung, il principale porto taiwanese. Dopo il varo, verrà effettuato il test di ancoraggio portuale, così come i test di navigazione e varie azioni tattiche come immersioni e mirate. Dopo di che il sottomarino verrà consegnato alla marina che valuterà la sua prontezza al combattimento. Tutto il processo dovrebbe completarsi entro la fine del 2024.
Non resterà l’unico. Entro il 2027 Taipei punta ad avere in funzione almeno due sottomarini di produzione autoctona, possibilmente dotando i modelli successivi di missili. Taiwan ha fatto del programma di sottomarini indigeni una parte fondamentale di un ambizioso progetto di modernizzazione delle proprie forze armate, anche perché l’area grigia entro la quale si svolgono le manovre militari di Pechino continua ad allargarsi. L’ammiraglio Huang Shu-kuang, Consigliere per la sicurezza della Presidente Tsai Ing-wen, guida il programma relativo ai sottomarini. E ha dichiarato che una flotta di 10 sottomarini, che ne include però alcuni piuttosto datati e due di fabbricazione olandese commissionati negli anni ’80, renderebbe più difficile un’azione militare di Pechino. Taipei è infatti convinta che una buona flotta di sottomarini possa rappresentare un “deterrente strategico” per le navi da guerra cinesi che attraversano lo Stretto di Miyako, vicino al Giappone sudoccidentale, o il Canale di Bashi, che separa Taiwan dalle Filippine. Proprio da qui, nelle scorse settimane, è transitata la portaerei Shandong che ha dato vita a imponenti esercitazioni sul Pacifico occidentale. Nella strategia taiwanese, i sottomarini potrebbero aiutare a mantenere aperto un canale di collegamento invece verso Pacifico orientale e meridionale, rompendo un ipotetico blocco al largo della costa orientale di Taiwan. Uno scenario che l’Esercito popolare di liberazione ha avvicinato durante le esercitazioni dello scorso aprile, in risposta all’incontro tra Tsai e lo speaker del Congresso Usa, Kevin McCarthy, in California. La Shandong si è infatti posizionata al largo della costa orientale col suo gruppo di combattimento. Il messaggio è stato in quel caso chiaro: provare a trasformare lo Stretto di Taiwan in una sorta di mare interno bloccando l’unica via d’accesso all’isola. “I sottomarini terranno le loro navi lontane dalle nostre coste orientali”, ha detto ottimisticamente Huang alla stampa.
Secondo la Reuters, Taiwan ha ottenuto tecnologia, componenti e talenti da almeno sette Paesi per sostenere il suo programma di costruzione di sottomarini. Il caso più noto sarebbe quello del Regno Unito, che lo scorso anno ha aumentato drasticamente la quantità di esportazioni di parti di sottomarini e di tecnologia approvate per Taipei. Le spese militari sono in costante aumento, col governo taiwanese che ha da poco proposto un budget da 19,1 miliardi di dollari per il 2024: un aumento del 7,7% rispetto all’anno in corso. Senza contare bilanci speciali aggiuntivi e altri fondi che potrebbero essere assegnati al Ministero della Difesa.
Negli ultimi anni le manovre militari di Pechino nella regione intorno a Taiwan sono nettamente aumentate. Lunedì 18 settembre si è registrato il record di jet avvistati nello spazio di 24 ore: 103. Domenica 24 settembre invece la difesa taiwanese ha dichiarato di aver individuato, sin dalle prime ore del mattino, un ciclo di esercitazioni in una baia della provincia costiera del Fujian, cioè quella che si affaccia su Taiwan. In particolare, i test sarebbero stati condotti nella baia di Dacheng col probabile scopo di testare la capacità delle forze armate di utilizzare navi civili per supportare le operazioni di sbarco congiunte.
Il mare è l’elemento decisivo della partita del Pacifico, a partire da Taiwan. Governare quello che accade sopra è fondamentale per assicurarsi un vantaggio strategico. Così come governare quello che accade sotto.
Cina/Russia: Wang Yi a Mosca
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Dopo gli Stati Uniti, tocca alla Russia. Giornate intense per la diplomazia cinese, in particolare per il ministro degli Esteri Wang Yi che, dopo aver tenuto due giornate di incontri a Malta col consigliere per la Sicurezza Nazionale statunitense Jake Sullivan, oggi si sposta a Mosca per una visita di 4 giorni. La seconda da quando è a capo della diplomazia del Partito comunista cinese dopo quella di febbraio scorso, al termine di un tour europeo, alla vigilia del primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina, la prima da quando è tornato ministro al posto di Qin Gang, rimosso per ragioni mai chiarite a fine luglio dal suo ruolo.
Wang parteciperà al 18esimo round di consultazioni sulla sicurezza strategica Cina-Russia su invito del Segretario del Consiglio di Sicurezza di Mosca, Nikolai Patrushev.
I colloqui del diplomatico cinese con l’omologo Sergei Lavrov riguarderanno “un’ampia gamma di questioni”, compresi “i contatti ai livelli più alti”, ha dichiarato la scorsa settimana il Ministero degli Esteri russo. Come sempre, Pechino è meno prodiga di dettagli e dipinge la visita all’interno di una cornice abitudinaria, probabilmente anche per allontanare potenziali paralleli con il viaggio appena concluso di Kim Jong-un nell’Estremo Oriente russo. La visita di Wang è un “evento di routine” nell’ambito delle consultazioni sulla sicurezza strategica tra Cina e Russia, ha dichiarato in conferenza stampa Mao Ning, portavoce del Ministero. E ha l’obiettivo di “attuare l’importante consenso raggiunto dai due capi di Stato, promuovere lo sviluppo delle relazioni bilaterali e condurre una comunicazione approfondita su importanti questioni che coinvolgono gli interessi strategici di sicurezza dei due Paesi”.
Probabile che Wang aggiorni Lavrov sui colloqui tenuti con Sullivan, ma anche sulla visita in Cina del cardinale Zuppi della scorsa settimana. Già ad agosto, dopo la partecipazione dell’inviato speciale cinese Li Hui al summit per la pace di Gedda in Arabia Saudita, Wang aveva parlato con Lavrov al telefono. Anche per rassicurarlo del fatto che la posizione di Pechino non era cambiata. Una posizione che il governo cinese continua a descrivere come in linea con l’impegno “a promuovere la pace e i colloqui” e con la volontà a“svolgere un ruolo costruttivo nel promuovere l’allentamento e il raffreddamento della situazione”. La cooperazione tra Cina e Russia non si è mai fermata dopo la guerra. Ultimo esempio? Al forum di Vladivostok dei giorni scorsi, mentre tutti i riflettori erano sull’incontro tra Kim e Putin, Cina e Russia hanno invece firmato un accordo sul grano. Uno dei nodi della discordia tra Mosca e Occidente. Il New Land Grain Corridor, un consorzio di aziende che gestisce lo sviluppo della produzione di cereali e delle infrastrutture tra Urali e Siberia, collaborerà con l’azienda statale China Chengtong International Investment, per creare un hub logistico nei pressi del confine tra i due paesi. Investimento di 159 milioni di dollari, con la realizzazione di 22 mila container per il trasporto di 600 mila tonnellate di cereali, con capacità massima di stoccaggio di 8 milioni di tonnellate all’anno.
Allo stesso tempo, Pechino ha evitato di sostenere a livello militare la Russia, mostrando il desiderio di mantenere aperti e fluidi i rapporti con l’Occidente. Anche per questo, secondo molti analisti, Putin si sarebbe rivolto a Kim per ottenere armi. Una dinamica che crea forse qualche preoccupazione alla Cina, che teme il ritorno della Corea del Nord in cima all’agenda degli Usa, e dunque in grado di giustificare una presenza ulteriormente rafforzata dei mezzi militari statunitensi e un ampliamento delle partnership militari coi vicini asiatici come Giappone e Corea del Sud.
Ma l’agenda di Wang dovrebbe gettare le basi per la visita di Putin nella capitale cinese per il terzo Belt and Road Forum, dopo l’invito del presidente Xi Jinping durante una visita di alto profilo a Mosca a marzo. Putin ha partecipato ai primi due Belt and Road Forum cinesi nel 2017 e nel 2019 ed è ampiamente atteso come il “grande ospite” anche del terzo forum che si svolgerà a ottobre. Sarebbe il primo viaggio ufficiale all’estero del Presidente russo dopo che la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto nei suoi confronti per l’accusa di aver deportato illegalmente centinaia di bambini dall’Ucraina. Il mandato, emesso pochi giorni prima della visita di Xi in Russia, obbliga i 123 Stati membri della Corte ad arrestare Putin e a trasferirlo all’Aia per il processo se entra nel loro territorio. Ma la Cina non è parte dello Statuto di Roma che ha portato all’istituzione della Corte penale internazionale nel 2002. E così, dopo aver saltato il summit dei Brics in Sudafrica, Putin dovrebbe recarsi a Pechino.
Interessante sottolineare anche la coincidenza di tempi con i colloqui tra Wang e Sullivan, così come l’incontro tra il Segretario di Stato Antony Blinken e il vicepresidente Han Zheng all’Assemblea delle Nazioni Unite a New York. I colloqui Wang-Sullivan per la parte cinese sono stati “strategici, sinceri, sostanziali e costruttivi, incentrati sulla stabilizzazione e sul miglioramento delle relazioni”. Significativo che vengano utilizzate due parole: “costruttivi” e “miglioramento”. Ovviamente i problemi e le tensioni restano, dai microchip su cui presto potrebbero arrivare nuove restrizioni della Casa Bianca fino soprattutto a Taiwan (nella cui regione Pechino ha inviato tra domenica e lunedì un numero record di jet militari), ma la sensazione è che l’incontro Wang-Sullivan faccia registrare un importante passo avanti in vista di una possibile visita di Xi Jinping negli Usa, dove Joe Biden spera di incontrarlo a margine del summit dell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) di novembre. Sarebbe la prima volta che i leader delle due potenze si parlano di persona dopo il G20 del 2022 a Bali.
Stati Uniti/Vietnam: partnership strategica globale
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Ogni tanto, i vecchi nemici possono anche diventare amici. Non alleati, termine abusato nella descrizione delle dinamiche di un mondo in cui gli interessi sono compenetrati e compenetrabili. Ma succede che Stati Uniti e Vietnam, a meno di 50 anni dalla fine di una sanguinosa e drammatica guerra, elevino i loro rapporti a partnership strategica globale. Una mossa che porta gli Usa al livello di Russia e Cina nella gerarchia delle relazioni diplomatiche di Hanoi. Tutt’altro che banale, visto che il salto è doppio dalla condizione precedente e rende Washington pari a due storici partner del Vietnam. Con Mosca, Hanoi ha profondi rapporti sul fronte militare e della difesa. Con Pechino, invece, su quello commerciale e ideologico. Ma anche dispute territoriali aperte sulle isole Paracelso nel conteso mar Cinese meridionale.
Ha fatto sensazione agli osservatori, seppur fosse atteso, il primo storico ingresso di un presidente degli Stati Uniti nel quartier generale del Partito comunista vietnamita. A ricevere Biden c’era Nguyen Phu Trong, il Segretario generale e vero leader politico del Paese del Sud-Est asiatico, seppure il sistema politico locale si basi sui cosiddetti ” 4 pilastri” che comprendono anche presidente, premier e capo del parlamento. Nguyen, al suo terzo mandato, ha in realtà accentrato progressivamente il potere. Tendenza ancora più chiara dopo le dimissioni probabilmente pilotate di qualche mese fa da parte del Presidente Nguyen Xuan Phuc, che alla vigilia dell’ultimo congresso del partito nel 2021 era considerato il più papabile successore allo scranno di segretario generale.
L’accentramento di potere e la non certo idilliaca situazione sui diritti degli oppositori non ha impedito a Biden di effettuare l’agognato viaggio in Vietnam, anticipato lo scorso aprile dalla visita del segretario di Stato Antony Blinken.
Lo stesso Biden ha definito “storico” il suo viaggio e ha definito il Vietnam un “partner cruciale”. Nell’ottica statunitense, l’elevazione dei rapporti con Hanoi si inserisce nella più vasta strategia di rilancio della presenza americana in Asia-Pacifico. E si aggiunge agli altri accordi sottoscritti da Biden da quando è alla Casa Bianca: il piano AUKUS con Australia e Regno Unito, l’allineamento trilaterale con Giappone e Corea del Sud suggellato dal summit di Camp David del 18 agosto, nonché i nuovi accordi militari con le Filippine di Ferdinand Marcos Junior.
“Gli Stati Uniti sono una nazione del Pacifico. E non ce ne andremo da nessuna parte”, ha detto Biden. La Cina la vede come una minaccia, anche se lui prova a rassicurare. “Non stiamo provando a ferire la Cina. Voglio vederla avere successo, ma deve seguire le regole”, avvisa Biden. Prima di aggiungere di sperare di vedere presto Xi Jinping. Sul piatto della visita di Biden anche numerosi accordi commerciali. Vietnam Airlines ha concluso l’acquisto di 50 jet 737 Max dal costruttore statunitense Boeing: un affare dal valore di 7,8 miliardi di dollari. È stato inoltre tenuto un colloquio business di alto livello, con Biden e il premier vietnamita Pham Minh Chinh. Presenti i dirigenti delle principali aziende statunitensi e vietnamite in vari settori, con particolare attenzione a semiconduttori, mobilità e terre rare. Tra gli altri, c’erano alti dirigenti di Google, Intel, Amkor, Marvell, GlobalFoundries. Per il Vietnam erano presenti i dirigenti di una mezza dozzina di aziende, tra cui VinFast, produttore di auto elettriche quotato al Nasdaq, la compagnia di bandiera Vietnam Airlines, l’azienda tecnologica FPT che si è da poco lanciata sui chip, MoMo, il più grande portafoglio elettronico del Paese per numero di utenti, e l’azienda internet VNG, che in agosto ha presentato domanda di quotazione a Wall Street.
Durante l’incontro, Biden ha ribadito che i due Paesi stanno approfondendo la cooperazione nei settori del cloud computing, dei semiconduttori e dell’intelligenza artificiale e ha sottolineato che il Vietnam è fondamentale per le forniture di minerali critici. Il Paese del Sud-Est asiatico possiede un grande deposito al mondo di terre rare, utilizzate nei veicoli elettrici e nelle turbine eoliche. Tra gli accordi svelati dalla Casa Bianca vi è il progetto di Microsoft di realizzare una “soluzione basata sull’intelligenza artificiale generativa su misura per il Vietnam e i mercati emergenti. Chiusa una collaborazione tra Nvidia, FPT, Viettel e Vingroup, società madre di VinFast, sempre sul fronte dell’intelligenza artificiale. E poi, come detto, i microchip. Capitolo strategico della contesa Usa-Cina e in cui Washington vorrebbe ridurre la dipendenza da Taiwan. Marvell e Synopsys investiranno in Vietnam per la costruzione di centri di progettazione di chip. La nuova fabbrica di Amkor nei pressi di Hanoi, del valore di 1,6 miliardi di dollari, che si occuperà dell’assemblaggio, del confezionamento e del collaudo dei chip, dovrebbe entrare in funzione a ottobre.
Tutto questo non significa, però, che il Vietnam voglia allinearsi del tutto agli Usa. Anzi, nel suo discorso Nguyen ha ricordato il principio di non interferenza negli affari interni degli altri Paesi (caro anche alla Cina), ha parlato di rispetto necessario per i diversi modelli politici e di sviluppo. Così come ha richiamato al multilateralismo e all’autonomia della politica estera vietnamita. Senza mai menzionare la Cina, né in conferenza stampa né nei documenti congiunti che pure richiamano alla stabilità e al rifiuto di azioni unilaterali sul mar Cinese meridionale. La guerra in Ucraina e il timore dell’allineamento tra Russia e Cina spingono il Vietnam a rafforzare i rapporti con Washington. Ma allo stesso tempo Hanoi starebbe negoziando nuovi acquisti di armi da Mosca, e non è escluso che ospiti presto anche Xi Jinping. D’altronde, già durante il summit Asean della scorsa settimana il premier vietnamita aveva incontrato l’omologo cinese Li Qiang per dargli qualche garanzia che Hanoi non si schiererà né con, né contro nessuno.
La leadership del Sud globale
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Quando si parla di possibili flashpoint in Asia, si citano sempre Taiwan e Mar Cinese meridionale. Eppure, l’unico confine conteso dove ci sono stati dei veri scontri negli ultimi anni è quello tra Cina e India. Nella tarda primavera del 2020 ci sono state anche diverse vittime dall’una e dall’altra parte dopo un lungo periodo di calma apparente. Lo scorso dicembre si sono verificate nuove schermaglie. Da allora, ci sono stati diversi incontri tra gli esponenti delle forze armate e dei Ministeri della Difesa dei due giganti asiatici, ma la situazione non è mai stata del tutto risolta. Al massimo congelata. Il governo di Nuova Delhi ha recentemente descritto la situazione come “fragile e pericolosa”, quello di Pechino tende più a minimizzare. Ma secondo diversi osservatori è lungo questa immensa frontiera che si decide molto del futuro del continente.
Qui, d’altronde, si deciderà molto del bilanciamento regionale. Dopo che la guerra in Ucraina ha spinto Giappone, Corea del Sud e Filippine sempre più tra le braccia degli Stati Uniti, il posizionamento indiano è cruciale. Non a caso Joe Biden ha invitato Narendra Modi alla Casa Bianca a giugno, rafforzando la cooperazione in materia tecnologica e militare. Già lo scorso dicembre, per la prima volta, l’esercito indiano ha utilizzato le informazioni satellitari condivise dagli Stati Uniti per acquisire vantaggi strategici nella contesa con l’esercito cinese. E ha anche acquistato dei droni militari americani, che Pechino teme possano essere dispiegati proprio su questo quadrante.
Una contesa secolare
Qui, sui territori impervi e montuosi a cavallo dell’Himalaya, c’è in gioco moltissimo. Con diversi aspetti che contribuiscono a ritenere che nel prossimo futuro, se i colloqui tra le due parti non garantiranno stabilità, la tensione possa persino aumentare. Dalle risorse idriche alla questione strategica, dall’aspetto storico a quello religioso. Quella tra Cina e India è una contesa territoriale che ha più di un secolo, sin dalla linea McMahon tracciata nel 1914 e non riconosciuta da Pechino perché frutto di un accordo tra il Tibet autonomo e l’India britannica, con cessioni di una parte importante di territorio da quella che sarebbe poi diventata una regione autonoma della Repubblica Popolare. Una contesa che riguarda diverse aree. In primis l’Aksai Chin, regione montuosa del Kashmir in mano alla Repubblica Popolare dalla guerra sino-indiana del 1962, nella quale sono morti circa duemila soldati. Si tratta di un’area montuosa che funge da strategico collegamento tra Tibet e Xinjiang e che Nuova Delhi continua a rivendicare come parte del Ladakh, una delle divisioni dello stato di Jammu e Kashmir. Non solo. L’Aksai Chin ha un’altra porzione di territorio ceduta nel 1963 alla Cina dal Pakistan e che funge da cuscinetto tra Xinjiang e l’entità autonoma del Gilgit-Baltistan, controllata da Islamabad.
La coda allungata dell’Aksai Chin tocca anche la zona strategica del lago himalayano Pangong Tso, che dal territorio indiano arriva a toccare il principale snodo stradale del Tibet. Il tutto dopo essere passata anche a toccare altri due stati indiani, l’Himachal Pradesh (dove col benestare di Nuova Delhi risiede, nella città di Dharamsala, il Dalai Lama, fuggito dal Tibet dopo l’arrivo di Mao nel 1950) e l’Uttaranchal. Scendendo a sud est, invece, si trovano altre due aree dove la tensione è alta. La prima è quella del Sikkim, incastonato tra Nepal e Bhutan ed entrato a far parte dell’India nel 1975 con un referendum. La seconda, andando ancora più verso oriente dopo il Bhutan, è quella dell’Arunachal Pradesh, stato controllato dall’India ma rivendicato da Pechino. Le due parti si accusano reciprocamente di aumentare le tensioni costruendo nuove strutture o strade nei pressi del confine. Pechino ha anche dato nuove denominazioni ad alcune località che si trovano in territorio conteso, in una mossa utile a operare una simbolica reiterazione di sovranità.
La questione del doppio Dalai Lama
La vicenda della successione del Dalai Lama gioca un ruolo non trascurabile sugli scenari futuri. Il leader religioso è stato peraltro “schierato” la scorsa estate sul Ladakh, nei pressi dei territori contesi. La spinosa questione della successione porterà ad avere probabilmente due figure nominate a capo del buddhismo tibetano. La prima sostenuta dal governo tibetano in esilio (e con ogni probabilità dall’India e dagli Stati Uniti), la seconda nominata dalla Cina. Un doppio Dalai Lama, con Pechino pronta a mettere nel mirino chiunque ospiti quello che nella sua prospettiva sarà un “impostore”. Una questione che rischia di alimentare le tensioni tra Cina e India. Un antipasto si è avuto negli scorsi mesi, quando Tenzin Gyatso ha nominato il decimo Khalkha Jetsun Dhampa, terza carica del buddhismo tibetano. Si tratta di un bambino di otto anni, nato negli Stati Uniti ma originario della Mongolia. Vero che il Tibet è ormai completamente integrato nella vita della Repubblica Popolare, ma non si può escludere che il delicato passaggio della più che probabile doppia nomina (scenario peraltro ammesso anche dal Presidente del governo tibetano in esilio, Penpa Tsering) porti a nuove tensioni anche nella regione autonoma. O che quantomeno Pechino intensifichi la presenza del suo apparato statale per presidiare quella fase. È prevedibile che i paesi buddhisti subiranno una forte pressione per scegliere quale leader seguire. Soprattutto quelli che finora hanno provato a mantenere una posizione equilibrata in politica estera, come la Mongolia.
Il ruolo del Nepal e del Bhutan
La partita sul quadrante himalayano comprende anche altri due attori: Nepal e Bhutan. Il primo con questioni territoriali aperte con l’India, il secondo con la Cina. A Kathmandu, dalla fine del 2022 c’è un governo guidato da Pushpa Kamal Dahal, meglio noto col nome da combattente Prachanda. Ex guerrigliere maoista, tempo fa ha definito l’India una forza “espansionistica”, accusandola di aver orchestrato la sua estromissione dal ruolo di premier nel 2008 e insinuando persino l’esistenza di un piano per ucciderlo. Il tutto dopo che l’anno scorso il governo precedente aveva rifiutato lo State Partnership Program, un accordo proposto da Washington che a Kathmandu si temeva potesse portare difficoltà nei rapporti con la Cina. Col suo ritorno da premier, però, Prachanda sta provando ad adottare una linea più equidistante. A dimostrarlo, una recente visita a Nuova Delhi, durante la quale ha incontrato Modi. Prachanda ha affermato che la sua visita ha ripristinato la fiducia smarrita con la leadership indiana. Ma il principale partito di opposizione nepalese, il CPN-UML, si è fortemente opposto alla proposta del Primo Ministro per risolvere la disputa sui confini nella regione di Kalapani, definendola contraria all’interesse nazionale. Insomma, tutt’altro che scontato che i tentativi di distensione funzionino o portino a risultati concreti.
Anche il sovrano del Bhutan, Jigme Khesar Namgyel Wangchuck, è stato di recente in India. Si è parlato, lontano dai microfoni, anche della disputa territoriale con Pechino. Una necessità per il Bhutan, che non ha relazioni diplomatiche ufficiali con la Repubblica Popolare e ha invece rapporti profondi con Nuova Delhi e il buddhismo tibetano, per ragioni storiche e religiose. Nell’ottobre 2021, il Bhutan e la Cina hanno firmato un memorandum d’intesa per una “tabella di marcia in tre fasi” per accelerare i colloqui sulla risoluzione dei confini. I colloqui si concentrano su due valli a nord del Bhutan e sull’area di Doklam, a ovest del Bhutan, vicino alla tripartizione con l’India, che è stata teatro di uno stallo tra le forze indiane e cinesi nel 2017. L’India è stata particolarmente attenta a qualsiasi possibilità di un “accordo di scambio” tra i due Paesi che potrebbe influire sulla sua sicurezza. Il confine conteso si snoda su una lunghezza di circa 470 chilometri. È da quasi 40 anni che i due governi conducono colloqui per arrivare a una soluzione, senza successo. Negli ultimi anni, il Bhutan sostiene che la Cina abbia adottato una postura più assertiva alla frontiera. Secondo Thimphu, la Cina avrebbe costruito circa 200 strutture, tra cui edifici a due piani, in sei diverse località a cavallo della labile frontiera. Recenti colloqui a Kunming sembravano aver sbloccato la situazione, ma qualsiasi accordo tra il Regno e Pechino pare debba passare anche per Nuova Delhi, che secondo la parte cinese starebbe cercando di rallentare il dialogo.
La sfida incrociata si intreccia anche con l’ambizione di Cina e India di ergersi a guida del cosiddetto Sud globale. Una partita che comincia dalle cime dell’Himalaya.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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Papa Francesco conclude il pellegrinaggio in Mongolia e lancia un segnale a Pechino
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Bergoglio ha elogiato il Paese che ricerca con tenacia il bene del singolo e della comunità e ha salutato la Cina, chiedendo ai cattolici cinesi di essere “buoni cristiani e buoni cittadini”
Si è chiusa la storica visita di Papa Francesco in Mongolia. Un viaggio che ha riservato anche numerosi spunti di interesse sulla Cina, l’immenso vicino convitato di pietra del pellegrinaggio di Bergoglio. Tanto che più di una bandiera della Repubblica Popolare Cinese è apparsa durante gli appuntamenti pubblici a cui ha presenziato il pontefice.
Dopo i vari incontri istituzionali con le massime cariche politiche e religiose del Paese, il fulcro del viaggio del Papa è stato l’incontro ecumenico e interreligioso di Ulan Bator. Qui ha dichiarato che l’Asia ha moltissimo da offrire e che la Mongolia “custodisce un grande patrimonio di sapienza, che le religioni qui diffuse hanno contribuito a creare e che vorrei invitare tutti a scoprire e valorizzare”. Da sempre considerata periferia, nella visione del Papa “venuto dalla fine del mondo” la Mongolia è il cuore dell’Asia, cioè del continente a sua volta cuore del terzo millennio. Bergoglio ha anche elencato i 10 elementi che la Mongolia può offrire al mondo come esempio: “Il buon rapporto con la tradizione, nonostante le tentazioni del consumismo; il rispetto per gli anziani e gli antenati – quanto bisogno abbiamo oggi di un’alleanza generazionale tra loro e i più giovani! Dialogo tra nonni e nipoti –. E poi, la cura per l’ambiente, nostra casa comune, altra necessità tremendamente attuale. Siamo in pericolo… E ancora: il valore del silenzio e della vita interiore, antidoto spirituale a tanti malanni del mondo odierno. Quindi, un sano senso di frugalità; il valore dell’accoglienza; la capacità di resistere all’attaccamento alle cose; la solidarietà, che nasce dalla cultura dei legami tra le persone; l’apprezzamento per la semplicità. E, infine, un certo pragmatismo esistenziale, che tende a ricercare con tenacia il bene del singolo e della comunità”.
Alla Steppe Arena della capitale mongola, Bergoglio ha poi tenuto la messa di fronte a circa 2500 fedeli. Molti mongoli vivono ancora una tradizione nomade per far pascolare i loro animali e, nella sua omelia, il Papa ha usato l’immagine per far capire il suo punto di vista. “Tutti noi siamo nomadi di Dio, pellegrini in cerca di felicità, viandanti assetati d’amore”, ha detto. Diversi monaci buddisti hanno partecipato alla cerimonia, insieme ad altri rappresentanti religiosi. Evenienza criticata da alcuni cattolici conservatori, che hanno parlato di “supermercato delle religioni”. Ma il Papa ha ribadito di dare grande importanza al “dialogo ecumenico, interreligioso e culturale” e ha condannato “la ristrettezza, l’imposizione unilaterale, il fondamentalismo e la costrizione ideologica”, dicendo che distruggono la fraternità, alimentano le tensioni e compromettono la pace.
Presenti, come detto, anche alcuni fedeli cinesi. Appena atterrato in Mongolia, peraltro, Papa Francesco ha fatto recapitare un messaggio a Xi Jinping in cui ha augurato il benessere alla nazione cinese. Poi Bergoglio ha inviato anche altri due segnali. Il primo quando ha detto di voler sfatare un mito sulla Chiesa cattolica, affermando che il suo obiettivo non è quello di convertire i popoli. Il secondo, forse più significativo, quando ha detto che la Chiesa non è un’entità politica. “Le istituzioni secolari e i governi non hanno nulla da temere dall’opera di evangelizzazione della Chiesa”, ha dichiarato. Due tentativi di rassicurazioni, con sullo sfondo il sogno mai sopito di un viaggio a Pechino sulle tracce di Matteo Ricci.
C’è anche un passaggio esplicito, quando al termine della messa il Papa ha inviato un saluto alla Cina, definendo i suoi cittadini un popolo “nobile” e chiedendo ai cattolici in Cina di essere “buoni cristiani e buoni cittadini”. Un’aggiunta, la seconda, che non dispiacerà a Pechino che da anni è impegnata a sinizzare la religione cattolica e in generale ad adattare le diverse fedi alle “caratteristiche cinesi”. Domenica il Santo Padre ha voluto al suo fianco il cardinale John Tong Hon, vescovo emerito di Hong Kong, e il cardinale designato, nonché attuale vescovo, Stephen Chow. Pronta la risposta. “La Cina ha assunto un atteggiamento positivo nel migliorare le relazioni con il Vaticano”, ha dichiarato Mao Ning, portavoce del Ministero degli Esteri, durante la conferenza stampa quotidiana.
Santa Sede e Pechino hanno rinnovato già due volte l’accordo biennale del 2018 sulla nomina dei vescovi, ma il Vaticano ha denunciato più volte di non essere stato consultato durante le procedure di scelta operate dal Partito comunista. Col viaggio in Mongolia, Bergoglio spera di aver fatto un passo in più in direzione di Pechino.
Non tutto luccica a Taipei
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Se in Asia c’è un esempio brillante di democrazia, questo è probabilmente Taiwan. Dal 1996, anno delle elezioni che hanno portato Lee Teng-hui a diventare il primo presidente democraticamente eletto, Taipei ha fatto passi da gigante. Ci sono stati tre passaggi di potere del tutto pacifici, con gli sconfitti che hanno accettato l’esito delle urne, nonostante la forte polarizzazione che contraddistingue un sistema politico basato sulla contrapposizione tra il Partito progressista democratico (DPP) e il Kuomintang (KMT). L’avanzamento dei diritti è stato costante e ha portato Taiwan a diventare nel 2019 il primo luogo in Asia a riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Negli scorsi mesi è arrivato anche il via libera alle adozioni per le coppie gay. Il governo, anche grazie all’attività della ministra degli Affari digitali Audrey Tang, promuove un sistema di governance partecipativa che utilizza consultazioni pubbliche per recepire indicazioni e suggerimenti sulle politiche da attuare.
Detta così, sembra una favola. Anche perché nella narrazione mediatica occidentale prevale spesso un racconto “esterno” di Taiwan, legato più che altro al triangolo con Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese e alle questioni legate alla sicurezza o esercitazioni militari. Sul fronte interno, si resta piuttosto in superficie. Eppure, com’è normale che sia per qualsiasi democrazia al mondo, anche a Taiwan tra le tante luci non mancano certo le zone d’ombra.
Le zone d’ombra: il mercato del lavoro
Il primo esempio è quello che riguarda il mercato del lavoro. Nel 2022 poco più del 23% della forza lavoro di Taiwan ha guadagnato meno di 30mila dollari taiwanesi al mese, meno di 900 euro. Il salario medio dell’intera forza lavoro è stato lo scorso anno di poco inferiore a 41mila dollari taiwanesi al mese, circa 1200 euro. I numeri variano molto a seconda dell’area di riferimento. Se a Taipei o Hsinchu (sede del colosso dei semiconduttori TSMC e di altri giganti dei microchip e dell’elettronica) gli stipendi sono più alti, in alcune zone più rurali si scende parecchio. Il problema, come spesso accade, si acuisce soprattutto tra le nuove generazioni. Il 70% dei giovani taiwanesi guadagna tra i 27mila e i 29mila dollari taiwanesi al mese. Il Ministero del Lavoro ha dichiarato che i bassi salari sono dovuti alla mancanza di laureati con competenze in “settori chiave”. Il governo ha fatto sapere di voler aumentare il numero di giovani che si laureano con competenze nei settori della produzione di semiconduttori, dell’intelligenza artificiale e delle comunicazioni intelligenti. Tre cardini della strategia di crescita non solo economica ma anche strategica di Taiwan. Il tasso di partecipazione al lavoro dei giovani taiwanesi è inoltre inferiore del 10% rispetto alla media OCSE, a causa del numero relativamente elevato di anni di istruzione frequentati dagli studenti taiwanesi, un divario che il Ministero spera di colmare.
Non solo. Taiwan ha alcune delle tasse universitarie molto alte, se si tiene conto della parità di potere d’acquisto. Bassi salari, alte tasse universitarie, alti prezzi degli alloggi, soprattutto a Taipei. I giovani taiwanesi sono spesso in difficoltà e comprare una casa diventa spesso un’utopia. Tutti aspetti che peraltro influiscono sulla bassa natalità che affligge Taiwan. Bassi stipendi e alte spese significa far fatica a costruire una famiglia. E dunque a fare figli. Non a caso il calo demografico è una delle maggiori preoccupazioni di Taipei, che secondo alcuni report potrebbe perdere circa un quarto della sua popolazione da 24 milioni entro il 2050. Un problema che si ripercuote peraltro anche sull’indebolimento della forza lavoro, che sta provocando tra le altre cose una carenza di infermieri. Secondo le normative, il rapporto medio infermiere-paziente dovrebbe essere di 1 a 8 negli ospedali di grandi dimensioni, 1 a 10 negli ospedali regionali e 1 a 15 negli ospedali locali. Tuttavia, accade spesso che un’infermiera che lavora in un turno diurno debba occuparsi di più di 15 pazienti. Il sovraccarico di lavoro porta spesso infermieri a licenziarsi, innescando un circolo vizioso difficile da interrompere senza interventi decisi.
La legge sul salario minimo: una promessa non mantenuta
I problemi vissuti dal mercato del lavoro sono simboleggiati anche dalle proteste che si sono svolte negli ultimi tempi. In occasione della festa del Primo Maggio, migliaia di persone hanno marciato per le strade di Taipei per contestare le politiche del governo in materia di salari e diritti del lavoro. La Confederazione dei Sindacati di Taiwan (TCTU) sostiene che il DPP, nonostante abbia avuto la maggioranza parlamentare negli ultimi sette anni, non ha mantenuto la promessa di emanare una legge sul salario minimo. Si tratta di un tema che ha contraddistinto la campagna elettorale con cui la Presidente Tsai Ing-wen ha vinto il voto del 2016. Sebbene il salario minimo sia aumentato del 28,36% da quando Tsai è entrata in carica, i salari reali sono stati pesantemente erosi dall’inflazione, problema notevolmente acuito dalle conseguenze della guerra in Ucraina che hanno fatto schizzare in alto i prezzi delle case e di un’infinita lista di categorie merceologiche, a partire dal settore alimentare. I sindacati vogliono un quadro normativo chiaro e stabile: la richiesta a Tsai è quella di aumentare il salario minimo mensile di 3600 dollari taiwanesi, portandolo a 30mila dollari. E poi di introdurre una legge, prima della fine del suo secondo mandato nel maggio del prossimo anno, che istituisca un meccanismo di adeguamento del salario minimo.
Un altro classico tema di dibattito è quello della scarsità del numero di giorni festivi e di ferie concessi ai lavoratori dipendenti. Viene poi espressa la necessità di aumentare i contributi minimi per il conto pensionistico dei lavoratori da parte dei datori di lavoro rispetto all’attuale 6% del salario individuale. A lamentarsi sono anche i fattorini e i lavoratori della cosiddetta gig economy, figure atipiche non ancora coperte dalla legge che fissa gli standard lavorativi.
La questione delle minoranze
Tra le altre questioni non ancora del tutto risolte c’è quella che riguarda le minoranze. Oggi il 98% della popolazione di Taiwan è di etnia han, quella maggioritaria anche in Cina continentale. Frutto di ondate migratorie avvenute in diversi momenti storici. Il 2% circa della popolazione proviene da diversi gruppi indigeni, che secondo diversi studi ed evidenze archeologiche hanno dato origine alle popolazioni austronesiane. Le comunità indigene di Taiwan hanno affrontato una lunga e travagliata storia di trattamento negativo e discriminazione. Sia durante la colonizzazione giapponese, sia dopo l’arrivo del KMT di Chiang Kai-shek dopo la sconfitta nella guerra civile del 1949, le politiche di modernizzazione del governo centrale hanno spesso ignorato i diritti delle comunità indigene e i loro bisogni. La confisca delle loro terre ha privato le comunità indigene del loro modo tradizionale di sostenersi, creando dipendenza da lavori precari e impoverimento. La perdita di identità culturale e la pressione per assimilarsi alla cultura dominante hanno causato un senso di alienazione e discriminazione all’interno della società taiwanese più ampia. L’accesso limitato all’istruzione di qualità e alle opportunità economiche ha anche contribuito a un ciclo di svantaggio sociale per le comunità indigene. Negli ultimi decenni, ci sono state significative iniziative messe in atto dal governo per proteggere i diritti delle minoranze, compreso il riconoscimento delle loro terre tradizionali e la promozione della cultura indigena nelle scuole. L’opinione pubblica taiwanese si è sensibilizzata sulla questione, anche attraverso una promozione culturale che passa da alcuni musei e serie televisive che raccontano la loro storia, proponendo una visione in cui le minoranze e l’eterogeneità identitaria arricchiscono Taiwan.
Ma molte sfide permangono e ogni tanto si verificano ancora episodi che danno vita a delle tensioni. A maggio, un gruppo di studenti indigeni della National Taiwan University di Taipei ha inscenato una protesta nel campus contro quella che, a loro dire, è una discriminazione di fondo nei loro confronti. Il motivo del contendere era uno striscione apparso nel campus con lo slogan “sfogo del mio spleen a 4,5 zhang“, un gioco di parole sull’idioma cinese “sfogo del proprio spleen a tre zhang“, che descrive lo stato di rabbia con “zhang“, antica unità di misura cinese della lunghezza. Lo slogan, secondo un'”alleanza contro la discriminazione” formata da studenti indigeni della NTU, sarebbe una sottile frecciatina alla politica del Ministero dell’Istruzione per “garantire agli studenti indigeni un accesso adeguato” alle università. Nelle chat degli studenti era circolata una frase anticipatoria dello striscione: “I privilegi concessi alle popolazioni indigene sono una tirannia per gli abitanti delle città”. Il riferimento era al sistema di ponderazione più favorevole introdotto per le minoranze indigene.
A proposito di minoranze, nonostante le parole di sostegno (politico e non) arrivate negli scorsi anni dopo le proteste e la repressione che ne è seguita, gli abitanti di Hong Kong non stanno trovando a Taiwan quel porto sicuro che pensavano di avere. Anzi, per gli attivisti e gli esuli politici di Hong Kong potrebbe presto diventare più difficile rimanere a lungo a Taiwan. Secondo i piani di modifica dei requisiti di residenza in fase di approvazione, ai cittadini di Hong Kong potrebbe essere richiesto di aver vissuto più a lungo nella Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan) per ottenere la residenza permanente. Secondo le regole attuali, alcuni immigrati di Hong Kong e Macao possono ottenere la residenza permanente più facilmente di altri cittadini stranieri, per i quali sono richiesti cinque anni di residenza. Ciò potrebbe presto cambiare. La ragione della modifica sarebbe quella di evitare che le regole possano essere sfruttate da “spie” della Cina continentale. Ma se approvate, le modifiche rappresenterebbero un altro colpo all’immagine di Taiwan come rifugio per i dissidenti e i critici di Pechino. L’amministrazione Tsai ha aperto un ufficio dedicato ai servizi di scambio tra Taiwan e Hong Kong per assistere gli arrivi dall’ex colonia britannica il giorno dopo l’introduzione della famosa legge sulla sicurezza nazionale. Ma negli anni successivi, alcuni esuli di Hong Kong hanno trovato la vita a Taiwan più difficile del previsto, affrontando problemi che vanno dai salari più bassi all’eccessiva burocrazia, dalle barriere linguistiche alla difficoltà di ottenere i documenti per restare in modo permanente. Tra gennaio 2020 e marzo 2023, 32.364 hongkonghesi hanno ottenuto il permesso di residenza a Taiwan. Ma l’anno scorso il numero di nuovi residenti da Hong Kong è sceso a 8.945. Le domande sono diventate più difficili da quando Taiwan ha chiuso il suo consolato non ufficiale nel 2021, ma ora molti taiwanesi vedono sempre meno distinzioni tra Hong Kong e la Cina continentale.
A Taiwan, d’altronde, manca ancora una legge sul diritto d’asilo, nonostante le numerose discussioni al riguardo durante la campagna elettorale di Tsai e le pressioni di coloro che ricordano che durante la legge marziale erano stati i taiwanesi a trovare rifugio a Hong Kong. Le richieste, infatti, sono ancora esaminate caso per caso.
Anche sul fronte della politica estera, spesso viene da chiedersi che cosa c’entrino Paesi come Haiti, Guatemala o eSwatini con la retorica dei “like-minded partners” utilizzata da Taipei per raccontare i suoi rapporti con gli alleati diplomatici o i paesi “amici” con i quali non si intrattengono relazioni ufficiali come Stati Uniti e Giappone. Taiwan ha a lungo staccato corposi assegni tutti gli anni per il regime sandinista di Ortega in Nicaragua, prima che il Paese centroamericano decidesse a fine 2021 di avviare rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare Cinese. Insomma, Taiwan ha tante storie positive da raccontare, ma com’è normale che sia esistono anche storie meno edificanti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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Mongolia: la proiezione asiatica del papato di Bergoglio
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Papa Francesco è pronto a diventare il primo pontefice della storia a recarsi in visita in Mongolia. Prevista per giovedì sera la partenza dall’aeroporto di Fiumicino, con arrivo all’aeroporto Chinggis Khaan di Ulan Bator per la mattinata di venerdì 1° settembre. Un viaggio che conferma la proiezione asiatica del papato di Bergoglio, che si avvicina come mai fatto prima alla Cina, cioè la meta che lui stesso ha definito a più riprese come una sorta di “sogno”. Lui, gesuita come Matteo Ricci, in territorio cinese. Un passaggio che avrebbe davvero un significato storico, che per ora si ferma però nella limitrofa Mongolia, il Paese asiatico stretto tra Cina e Russia e futura via di passaggio del gasdotto Power of Siberia 2.
“Si tratta di una visita tanto desiderata”, ha confessato Bergoglio al termine dell’Angelus di domenica 27 agosto. “Sarà l’occasione per abbracciare una Chiesa piccola nei numeri ma vivace nella fede e grande nella carità. E anche per incontrare da vicino un popolo nobile, saggio, con una grande tradizione religiosa che avrò l’onore di conoscere specialmente nel contesto di un evento interreligioso”. Al centro del viaggio i rapporti con la religione buddista, maggioritaria in Mongolia. Giusto negli ultimi mesi, un bambino di 8 anni di cittadinanza mongola è stato scelto dal Dalai Lama come nuovo Khalka Jetsun Dhampa, terza carica del buddismo tibetano. Una nomina che in Mongolia crea in realtà anche qualche preoccupazione, vista la disputa aperta tra il Dalai Lama e la Repubblica Popolare Cinese, che rivendica il diritto di nomina delle cariche religiose tibetane.
Il pellegrinaggio di Bergoglio ha anche un alto valore simbolico. Da sempre il Papa “venuto dalla fine del mondo” insiste sulla necessità di ampliare gli sforzi e il ruolo della Chiesa nelle cosiddette periferie globali. E la Mongolia è senz’altro una di queste, visto che conta solo poche centinaia di fedeli cattolici. Per l’esattezza, i battezzati sono poco meno di 1500, circa il 2% dei 3,5 milioni di abitanti di cui il 30% si professa non religioso.
Altro tema centrale sarà l’ambiente, visto che proprio la Mongolia nel 2026 ospiterà la Cop17 della Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione. Un fenomeno che, secondo gli ultimi studi, colpisce circa il 76% del territorio mongolo. E che mette a rischio la produzione agricola, cruciale per l’economia del Paese asiatico, nonché l’antica tradizione pastorale e nomade. A incidere anche le attività estrattive. Mongolia e Mongolia interna, quest’ultima una delle province del territorio cinese, hanno attive ancora molte miniere e centrali elettriche a carbone, anche perché molto ricche di risorse minerali o terre rare considerate strategiche per la competizione tecnologica e la transizione energetica. Il governo locale si trova di fronte alla difficile sfida di trovare un equilibrio tra esigenze climatiche e necessità economiche, visto che altri settori, a partire dal turismo, sono stati pesantemente colpiti prima dalla pandemia di Covid-19 e poi dalla guerra in Ucraina che ha bloccato il consueto flusso dalla Russia.
Bergoglio si fermerà in Mongolia fino a lunedì 4 settembre. In programma incontri col Presidente Ukhnaagiin Khurelsukh e il capo del Grande Hural di Stato (il parlamento unicamerale mongolo) Gombojavyn Oyun-Erdene. Ma anche ovviamente con vescovi, sacerdoti e missionari presenti in Mongolia. Domenica 3 settembre in agenda l’incontro ecumenico e interreligioso con esponenti del buddismo tibetano, mentre nel pomeriggio il Papa celebrerà la messa nella Steppe Arena.
Un programma fitto che conferma il recente grande attivismo diplomatico della Mongolia, che sta cercando di rafforzare la diversificazione dei suoi rapporti internazionali. Solo poche settimane fa, il premier Luvsannamsrain Oyun-Erdene si è recato negli Stati Uniti dove ha incontrato la vicepresidente Kamala Harris. A luglio, invece, era stato a Ulan Bator il Presidente francese Emmanuel Macron.
Ma la visita rafforza anche la presenza asiatica della Chiesa cattolica. A fine luglio, durante la visita a Roma del Presidente Vo Van Thuong, la Santa Sede ha raggiunto uno storico accordo col Vietnam per la nomina di un rappresentante stabile del Vaticano ad Hanoi. Uno sviluppo rilevante che potrebbe servire da apripista, quantomeno nei programmi vaticani, a un simile accordo con la Cina. Per ora, con Pechino è in vigore un accordo sulla nomina dei vescovi di durata biennale, istituito nel 2018 e rinnovato già due volte nel 2020 e nel 2022. In attesa di un viaggio in terra cinese, un Pontefice arriva per la prima volta davvero alle sue porte.
Sudafrica: domani inizia il summit dei Paesi Brics
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A Johannesburg, grande assente Vladimir Putin, e grande presente Xi Jinping. Gli interessi cinesi nel summit e nella spinta all’allargamento, richiesto da una ventina di Paesi del cosiddetto Sud globale, desiderosi di entrare nel blocco dei Brics.
A Johannesburg è tutto pronto per il summit annuale dei leader del gruppo BRICS, di cui fanno parte Brasile, Russia, India, Cina e appunto Sudafrica. Unico assente, Vladimir Putin. Il mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, riconosciuta dal Paese africano, avrebbe rischiato di costringere le autorità locali a procedere all’arresto. E dunque il capo del Cremlino ha deciso di mandare il fidato ministro degli Esteri Sergej Lavrov al suo posto.
La sua assenza aumenterà ulteriormente la già ampia risonanza della presenza di Xi Jinping. Non era scontato che il presidente cinese decidesse di recarsi a Johannesburg di persona. D’altronde, già a luglio, il summit dei leader della Sco (l’Organizzazione della cooperazione di Shanghai) di Nuova Delhi è stato ridotto a un formato virtuale per evitare imbarazzi al padrone di casa, un’India impegnata in un complicato esercizio di equilibrismo tra Quad, Sco e appunto Brics.
Invece Xi ha deciso di esserci. Una mossa importante, che arriva in un momento peraltro parecchio delicato. Venerdì scorso, Joe Biden ha ospitato il premier giapponese Fumio Kishida e il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, per il primo trilaterale di questo tipo di sempre. Pechino l’ha interpretata come un’azione ostile nei suoi confronti e un tentativo di creare una sorta di “mini Nato asiatica”.
Non sorprende dunque che il viaggio di Xi in Sudafrica venga presentato anche mettendo in evidenza le pretese differenze di azione diplomatica tra le due potenze: la cooperazione win-win con attenzione ai Paesi in via di sviluppo del cosiddetto “Sud globale” da parte di Pechino, contro invece la “mentalità da guerra fredda” e la logica del “confronto tra blocchi” che sarebbero promosse dagli Usa.
Un racconto che si poggia sul ruolo dei Brics e sulla volontà di tanti altri governi di aderire al gruppo. L’espansione è in cima all’agenda dopo essere stata messa in secondo piano ai vertici precedenti. Ci sarebbero circa una ventina di Paesi desiderosi di entrare. Tra questi Argentina, Indonesia, Arabia Saudita ed Egitto.
La spinta della Cina verso l’allargamento è stata tradizionalmente rallentata dall’India, ma anche dal Brasile. Il timore è quello di trasformare il gruppo in una piattaforma filocinese o quantomeno utilizzata da Pechino come strumento di confronto con gli Stati Uniti e l’Occidente. Cosa che il premier indiano Narendra Modi e il presidente brasiliano Lula vogliono evitare. Ma è aumentata la pressione di chi chiede che vengano concordate regole e criteri di ammissione, aprendo dunque la porta all’adesione di nuovi membri.
Ovviamente si parlerà anche di economia. Il blocco proverà a ravvivare l’idea di ridurre il predominio del dollaro statunitense nei pagamenti. Un dibattito che ha ripreso grande vigore dopo che gli aumenti dei tassi di interesse americani e l’invasione dell’Ucraina hanno fatto impennare la valuta statunitense. Senza contare il desiderio di schermarsi di fronte a eventuali sanzioni future di alcuni dei componenti del gruppo. Il tentativo sarà quello di incentivare l’utilizzo delle valute nazionali dei vari Paesi membri negli scambi commerciali e transazioni transfrontaliere, ma l’idea di sviluppare una moneta comune appare ancora molto lontana.
Un articolo di Chen Xiaodong, ambasciatore della Cina in Sudafrica, riassume bene la prospettiva cinese sui BRICS: “Il meccanismo di cooperazione BRICS è un’importante piattaforma per la collaborazione tra i Paesi dei mercati emergenti e le nazioni in via di sviluppo. È diventata una forza chiave nel promuovere la crescita economica globale, guidare le riforme nel sistema di governance globale e mantenere la pace e la stabilità internazionali”. Sviluppo e stabilità, in linea con l’iniziativa di sicurezza globale lanciata da Xi lo scorso anno e che ha avuto i primi riverberi nelle iniziative diplomatiche sul Medio Oriente e sull’Ucraina, pur con esiti molto alterni.
Ma per Xi sono cruciali altri due passaggi. Il primo è un forum di dialogo che presiederà insieme al presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, a cui parteciperà la maggior parte dei leader africani. Un modo per riaffermare il legame tra la Cina e un continente cruciale per gli interessi di Pechino, che da decenni ormai investe ingenti somme sulle sue infrastrutture ottenendo in cambio un accesso privilegiato alle sue risorse naturali e minerarie.
Il secondo appuntamento molto atteso è il possibile bilaterale con Modi. I due non si parlano da maggio 2020, poche settimane prima dei violenti scontri esplosi lungo l’enorme confine conteso che hanno causato diversi morti tra i militari di entrambe le parti. Scontri che si sono poi ripetuti anche lo scorso dicembre, stavolta senza vittime. Un incontro tra funzionari della difesa, avvenuto nei giorni scorsi, non è bastato per un totale disgelo. Ma avrebbe quantomeno posto le basi affinché Xi e Modi possano tornare a parlarsi. Sarebbe uno sviluppo rilevante.
Taiwan/Usa/Cina: tensioni, reazioni e compromessi
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Nuovo stress test sullo Stretto di Taiwan. Il vicepresidente taiwanese, Lai Ching-te, sta effettuando un viaggio tra Stati Uniti e Paraguay che rischia di riaccendere le tensioni tra Taipei e Pechino. Il tutto un anno dopo la visita di Nancy Pelosi a Taiwan, che diede il via alle più vaste esercitazioni di sempre intorno all’isola. Da allora, le manovre di jet e navi dell’Esercito popolare di liberazione oltre la linea mediana, il confine sullo Stretto non riconosciuto ma ampiamente rispettato sino ad agosto 2022, si sono moltiplicate e si svolgono su base pressoché quotidiana.
Il viaggio non è una novità assoluta ed era anzi atteso da tempo. Si tratta infatti dell’undicesima volta che un vicepresidente taiwanese effettua un transito negli Stati Uniti, la seconda per Lai che era passato da queste parti nel gennaio del 2022 sulla strada dell’Honduras, dove aveva assistito alla cerimonia d’insediamento di Xiomara Castro. La presidente honduregna ha poi deciso nei mesi scorsi di rompere le relazioni diplomatiche con Taipei, per stabilire quelle con Pechino.
I paesi rimasti ad avere rapporti ufficiali con la Repubblica di Cina, il nome con cui Taiwan è indipendente de facto, sono rimasti 13. Tra questi il Paraguay, dove Lai si reca lunedì 14 al termine del primo transito a New York. Martedì 15 è in programma la cerimonia di insediamento del neo presidente Santiago Peña, che vincendo le elezioni dei mesi scorsi ha allontanato le possibilità che anche Asuncion possa abbandonare Taiwan, come chiedeva invece uno degli altri candidati.
Il profilo del viaggio di Lai appare però più basso rispetto a quello del 2022. C’è un dettaglio, infatti, che rende più delicato che mai il suo transito dagli Stati Uniti: Lai non è solo il vicepresidente, ma anche il candidato alle presidenziali del 2024 per l’attuale forza di maggioranza, il Partito progressista democratico della presidente Tsai Ing-wen. Non è certo strano che un candidato taiwanese si presenti negli Stati Uniti. Anzi, è una sorta di tradizione.
Gli stessi rivali di Lai al voto di gennaio prossimo lo hanno fatto o lo faranno. Ko wen-je, sindaco di Taipei e attualmente secondo nei sondaggi con il suo Taiwan People’s Party, è stato a Washington nei mesi scorsi. Hou Yu-ih, il candidato del Kuomintang (il partito nazionalista cinese, dialogante con Pechino), dovrebbe andarci a settembre.
Ma per Pechino, con Lai è un’altra storia. Intanto perché è già la seconda carica della politica taiwanese. E poi perché viene ritenuto un “secessionista”. Questo soprattutto per alcune sue dichiarazioni passate, in cui si era raffigurato come un “lavoratore per l’indipendenza di Taiwan”. Cosa ben diversa dal riconoscere e dire di voler tutelare la sovranità de facto di Taiwan come Repubblica di Cina, la posizione ufficiale di Tsai e dello stesso Lai, che ha molto smussato la sua retorica e le sue esternazioni sulle relazioni intrastretto da quando è vicepresidente. Ma a Pechino ricordano che nel 2019, il detestato partito di maggioranza (per il suo mancato riconoscimento del cosiddetto “consenso del 1992”, che riconosceva l’esistenza di una unica Cina pur, dice il Kuomintang, senza stabilire quale) fu sull’orlo della scissione per i contrasti tra l’ala radicale di Lai e quella più moderata di Tsai.
Proprio per questo, Lai sta cercando di veicolare un’immagine di continuità sia sul piano interno sia durante il suo viaggio. “Se Taiwan è sicura, il mondo è sicuro. Se sullo Stretto di Taiwan c’è pace, nel mondo c’è pace”, ha detto durante il discorso alla comunità taiwanese di New York, a cui ha presenziato Ingrid Larson, direttrice generale dell’Ufficio di Washington dell’American Institute in Taiwan (di cui incontrerà la presidente Laura Rosenberger nel secondo transito di San Francisco).
Le direttrici del suo discorso sono state in linea con Tsai: disponibilità al dialogo con il Partito comunista, ma tutela della sovranità de facto di Taiwan come entità non subordinata alla Repubblica Popolare, entro la cornice della Repubblica di Cina e senza indipendenza formale. Presente anche il capo dello staff di Tsai, Lin Chia-lung per ribadire la pretesa di continuità con l’ex rivale all’interno del partito. Una necessità, dopo alcune esternazioni delle scorse settimane che avevano destato qualche timore sulla riedizione di un periodo Chen Shui-bian, il primo presidente eletto col Dpp nel 2000 e non apprezzato dagli Usa per la sua imprevedibilità. Caratteristica che ora renderebbe tutto più pericoloso, visto che la Repubblica Popolare Cinese non è certo quella di 20 anni fa.
Lai vuole presentarsi come garante dello status quo, che nonostante le attuali tensioni a diverse componenti degli Usa (con l’amministrazione Biden che si professa comunque neutrale sul voto taiwanese) sembrerebbe più appetibile rispetto a un ritorno del Kuomintang, che invece veniva quasi apertamente sostenuto dall’amministrazione Obama fino al 2012.
Il profilo del viaggio di Lai è stato finora piuttosto basso. A New York non sono stati annunciati incontri con nessun componente dell’amministrazione Biden o del Parlamento. In Paraguay non potrà imbattersi nella vicepresidente Kamala Harris, com’era invece accaduto in Honduras nel gennaio 2022. Tra i repubblicani statunitensi c’era chi aveva chiesto che la vicepresidente incontrasse Lai, una possibilità di cui si è parlato molto anche a Taipei. Ma alla fine Biden ha mandato ad Asuncion (dove un incontro con Lai sarebbe stato meno sensibile che durante i due transiti negli Usa) la segretaria degli Interni, Deb Haaland. Mercoledì 16 agosto previsto il transito a San Francisco, proprio la città dove dovrebbe recarsi a novembre Xi Jinping per il summit dell’Asia Pacifico. Non è ancora chiaro chi vedrà in questo caso Lai, che si fermerà solo per mezza giornata prima del rientro a Taipei.
Pressoché certa la reazione di Pechino. Domenica 13 il ministero degli Esteri cinese ha definito Lai un “piantagrane”, ha detto di “monitorare attentamente” i suoi transiti negli Stati Uniti e che verranno prese “misure forti e risolute a tutela della sovranità nazionale e integrità territoriale”. Ampiamente attese nuove esercitazioni militari intorno a Taiwan. Non certo quelle di routine lanciate sabato 12 nel mar Cinese orientale, al largo della provincia dello Zhejiang e a più di 500 chilometri a nord di Taiwan. No, è probabile che ci sia una finestra temporale per svolgere esercitazioni più o meno ampie dopo il transito di Lai a San Francisco e prima della partenza di Xi per il Sudafrica, dove sarà il 22 agosto per il summit dei Brics.
I funzionari taiwanesi si aspettano possibili manovre aeree e/o navali nei pressi delle 24 miglia nautiche dalle coste, che segnano l’ingresso nelle acque contigue. Quello delle 24 miglia è il limite che è stato lambito dai mezzi di Pechino già ad agosto 2022 e nei mesi scorsi, ma oltre cui non si è mai andati. Attenzione anche alla possibile estensione delle ispezioni a bordo delle navi in passaggio sullo Stretto annunciata in alcune zone dal Fujian lo scorso aprile, e poi non messe in atto in modo stringente.
La sensazione è però che la reazione militare possa essere in qualche modo contenuta. Soprattutto se, come pare, Lai terrà un basso profilo durante il doppio passaggio negli Usa. Un po’ come accaduto ad aprile, quando Tsai incontrò lo speaker del Congresso Kevin McCarthy in California. In quell’occasione Taipei messe in atto una sorta di “male minore” per Pechino: incontro con McCarthy sì, ma negli Usa invece che a Taiwan. Invito al compromesso che fu colto per effettuare manovre sì vaste ma non tanto quelle dell’agosto 2022 dove la visita di Pelosi non aveva contenuto nessun segnale di compromesso, nemmeno nei suoi più piccoli dettagli.
In vista delle elezioni di gennaio 2024, manovre troppo forti potrebbero rivelarsi un boomerang per il Partito comunista, che senz’altro utilizzerà comunque la vicenda e il suo malcontento che non mancherà di dimostrare più volte anche a parole come leva negoziale (in senso ampio e non su Taiwan dove un negoziato è impossibile) nei dialoghi in corso con Washington per organizzare il viaggio di Xi a San Francisco.
Mongolia: visita ufficiale del Premier Oyun-Erdene negli Stati Uniti
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Firmati accordi su voli Open Skies e sull’estrazione di minerali critici. La Mongolia possiede ampi depositi di rame e terre rare, importanti nella competizione tecnologica tra Washington e Pechino.
Non solo Giappone, Corea del Sud e Filippine. Gli Stati Uniti allargano lo spettro della loro azione diplomatica in Asia orientale, con uno sguardo anche a quei paesi che a prima vista sembrerebbero ormai inseriti negli ingranaggi della Cina. Tra questi anche la Mongolia, snodo chiave incastonato tra Repubblica Popolare e Russia.
Da qui passerà in futuro il Power of Siberia 2, il nuovo gasdotto frutto di un accordo tra Pechino e Mosca che aumenterà in maniera rilevante le forniture energetiche russe alla Cina. Proprio un anno fa, il premier Luvsannamsrain Oyun-Erdene ha annunciato l’inizio dei lavori per la sua costruzione in territorio mongolo. Oggi, lo stesso premier è reduce da una visita negli Stati Uniti, la prima per un pari grado dal 2018. Un passo rilevante e che mostra l’interesse di Ulan Bator a diversificare le proprie relazioni diplomatiche. Il sottotesto è significativo anche per Cina e Russia, “avvisate” indirettamente che la Mongolia ha intenzione di preservare i suoi rapporti commerciali e politici con l’Occidente.
“Gli Stati Uniti non sono solo il nostro vicino commerciale, ma anche la stella polare dell’economia di mercato e dei valori democratici della Mongolia”, ha dichiarato Oyun-Erdene in un’intervista rilasciata all’ambasciata mongola a Washington. Parole che sembrano andare al di là della circostanza e convenienza commerciale. Alla domanda sui rapporti con i vicini della Mongolia il premier ha risposto: “Abbiamo le nostre tensioni geopolitiche… ma sono fiducioso che i nostri due vicini continueranno a rispettare le nostre scelte e le partnership che stiamo sviluppando”.
Queste scelte includono la firma dell’accordo Open Skies e un altro sulle terre rare, annunciati a margine dell’incontro con la vicepresidente statunitense Kamala Harris. Washington ha stipulato accordi di aviazione civile Open Skies con oltre 130 paesi. Si tratta di una piattaforma che consente alle compagnie aeree di entrambi il diritto di operare nei rispettivi Paesi, imponendo standard di sicurezza e protezione.
La compagnia di bandiera della Mongolia, MIAT Mongolian Airlines, vola in Europa e in Asia, ma non negli Stati Uniti. L’accordo Open Skies cambierà la situazione e offrirà anche opzioni più facili per i voli cargo. Il nuovo accordo si affianca a nuove iniziative di scambio culturale e di formazione in lingua inglese in Mongolia, dopo la recente legislazione che ha reso l’inglese la prima lingua straniera nell’istruzione secondaria del paese asiatico.
Più strategico sul fronte tecnologico e politico il dialogo sulle risorse minerali. La Mongolia possiede ampi depositi di minerali, di terre rare e di rame, materiali critici a cui anela l’amministrazione Biden per elettrificare il mercato automobilistico nazionale. La Casa Bianca vede la Mongolia come un candidato per il Partenariato per la sicurezza dei minerali, un’iniziativa con 14 paesi per lo più occidentali per promuovere investimenti sostenibili nell’estrazione, nella lavorazione e nel riciclaggio di minerali critici.
Secondo il Dipartimento di Stato americano, i funzionari dei due paesi hanno discusso “modi creativi” per garantire che Ulan Bator possa ovviare al mancato sbocco sul mare e immettere minerali critici sul mercato mondiale. Oyun-Erdene ha dichiarato che la Mongolia intende approfondire la cooperazione con gli Stati Uniti per l’estrazione di terre rare e altri minerali con applicazioni high-tech. Un tema particolarmente delicato, vista l’importanza delle terre rare nella competizione tecnologica Washington e Pechino.
Il premier mongolo ha incontrato anche giganti del settore privato. Tra questi, spiccano i colloqui con l’amministratore delegato di Tesla Elon Musk su possibili investimenti e collaborazioni nel settore dei veicoli elettrici. La SpaceX di Musk è stata anche autorizzata a operare come fornitore di servizi Internet in Mongolia.
Il principale interesse di Ulan Bator è quello di ridurre la dipendenza dai suoi vicini. Nello specifico, la Cina acquista più del 90% delle esportazioni della Mongolia e Ulan Bator si affida al porto di Tianjin per spedire gran parte di ciò che vende al resto del mondo. La Mongolia spera che la tecnologia possa ridurre questa dipendenza. “In futuro, le merci potrebbero essere trasportate da droni”, ha dichiarato Oyun-Erdene dopo l’incontro con Harris.
Ambizione legittima, ma che non cela certo l’obiettivo di scaricare o prendere le distanze da Pechino o Mosca. La Mongolia sa che i suoi “eterni vicini” sono destinati a restare. L’importante è provare a non restarne schiacciati.
Ue/Filippine: “un nuovo slancio alle relazioni bilaterali”
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Il passato è definitivamente alle spalle. L’Occidente ha messo da parte le perplessità sul conto di Ferdinand Marcos Junior. Non tanto perché non piacesse lui in sé, quanto ovviamente per l’ingombrante retaggio che si porta dietro a causa del padre, dittatore delle Filippine fino al 1986 e alla rivoluzione di febbraio. E a causa della mamma Imelda, ancora viva e per molti vera mente dell’ascesa politica del figlio, che delle Filippine è diventato Presidente dopo le elezioni del maggio 2022.
In molti si aspettavano un’estremizzazione della politica filocinese promossa da Rodrigo Duterte, anche perché la vicepresidente è Sara, figlia del suo predecessore. E invece no, Marcos Jr. ha subito riportato l’arcipelago del Sud-Est asiatico nell’alveo del sistema di alleanze degli Stati Uniti nel Pacifico. Tanto da raggiungere un accordo con l’ex colonizzatore, aprendo quattro nuove basi militari su territorio filippino alle forze armate di Washington. In posizione ritenuta a dir poco cruciale in caso di contingenza militare su Taiwan. O sul mar Cinese meridionale, dove le tensioni con la Cina sono in crescita. Proprio anche in seguito a questa ridefinizione della postura strategica di Manila. Marcos ha ricevuto il definitivo lasciapassare in ambito euroatlantico lo scorso 1° maggio, quando è stato ricevuto alla Casa Bianca da Joe Biden. Rapporti completamente rilanciati nonostante sulle sue spalle pesasse un’antica class action per la sostanziosa somma di denaro che la sua famiglia avrebbe sottratto dalle casse pubbliche filippine durante il regno del padre.
Dopo il placet americano, lunedì 31 luglio è arrivato un altro capitolo importante della diplomazia filippina. Ursula von der Leyen è infatti diventata la prima leader europea a recarsi in visita ufficiale a Manila da quando c’è Marcos Jr. La presidente della Commissione europea ha incontrato il leader filippino nel palazzo presidenziale di Malacañang, quello dove si narra che mamma Imelda aveva una collezione sterminata di oltre tremila paia di scarpe. Qui von der Leyen ha manifestato l’intenzione di dare “un nuovo slancio alle relazioni bilaterali tra Unione europea e Filippine”. In cima all’agenda: commercio, transizione ecologica, innovazione digitale e sicurezza.
Sul primo punto i due leader hanno annunciato l’intenzione di perseguire il rilancio dei negoziati per un accordo di libero scambio “ambizioso, moderno ed equilibrato, incentrato sulla sostenibilità”. Piano ambizioso, che segue gli accordi di libero scambio conclusi dall’Unione europea con Singapore e Vietnam negli scorsi anni. A testimonianza del fatto che Bruxelles punta molto sul Sud-Est asiatico, area in grande ascesa che consente anche una diversificazione dei rapporti commerciali e diplomatici nella regione asiatica rispetto alla Cina. “Le Filippine sono per noi un partner fondamentale nella regione indo-pacifica e con l’avvio di questo processo di valutazione stiamo aprendo la strada per portare il nostro partenariato al livello successivo”, ha detto von der Leyen. “Insieme, realizzeremo il pieno potenziale della nostra relazione, creando nuove opportunità per le nostre aziende e i consumatori, sostenendo anche la transizione verde e promuovendo un’economia giusta”.
Per la presidente della Commissione europea, il futuro accordo di libero scambio comprenderà impegni ambiziosi in materia di accesso al mercato, procedure sanitarie e fitosanitarie rapide ed efficaci, nonché la protezione dei diritti di proprietà intellettuale, comprese le indicazioni geografiche”. Al centro però anche il tema della sostenibilità, dossier su cui è già arrivato un annuncio durante la visita. Von der Leyen e Marcos hanno infatti lanciato l’iniziativa Team Europe sulla green economy, che prevede un contributo Ue di 466 milioni di euro per la gestione “verde” dei rifiuti. Il tutto nell’ambito del programma Global Gateway lanciato dalla Commissione europea. Previsto anche il trasferimento di competenze, formazione e tecnologie volte a costruire un modello alternativo di gestione dei rifiuti di plastica.
Sul fronte della sicurezza, non sono mancati riferimenti di von der Leyen alla questione del mar Cinese meridionale, con critiche alle manovre di Pechino in merito alle dispute territoriali aperte con Manila. “La Cina deve ancora assumersi pienamente la responsabilità ai sensi della Carta delle Nazioni Unite di sostenere la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina”, ha dichiarato la Presidente della Commissione Ue. “Ciò sta accadendo sullo sfondo della sua posizione più assertiva nella vostra regione. L’Europa ha costantemente invitato la Cina a rispettare i diritti sovrani degli Stati all’interno delle loro zone economiche esclusive. La dimostrazione di forza militare della Cina nel Mar Cinese Meridionale e Orientale e nello Stretto di Taiwan colpisce direttamente le Filippine e gli altri nostri partner nella regione”.
Von der Leyen ha anche collegato il fronte occidentale con quello orientale, quando ha detto che “qualsiasi indebolimento della stabilità regionale in Asia, la regione in più rapida crescita al mondo, influisce sulla sicurezza globale, sul libero flusso degli scambi e sui nostri interessi nella regione. Quindi, sia che si parli dell’Ucraina o del Mar Cinese Meridionale, la nostra sicurezza è collegata. Ecco perché l’Ue ha rafforzato il suo impegno nell’Indo-Pacifico“. Con riferimenti alle manovre di sicurezza marittima e informatica condotte dai singoli Paesi Ue nella regione. Non esattamente musica per le orecchie di Pechino. Proprio in queste settimane, per esempio, si sono svolte o sono in fase di svolgimento esercitazioni aeree congiunte di Francia e Italia con il Giappone. E le Filippine sembrano sempre più coinvolte in un’architettura di difesa che vede un crescente interesse europeo.
“Le Filippine e l’Ue sono partner affini grazie ai nostri valori condivisi di democrazia, prosperità sostenibile e inclusiva, Stato di diritto, pace e stabilità e diritti umani”, ha detto invece Marcos. “I continui scambi tra me e la Presidente von der Leyen, iniziati a Bruxelles l’anno scorso, testimoniano il nostro comune desiderio di portare le nostre relazioni bilaterali a livelli più alti”, ha aggiunto. Il passato è ormai lontano. E anche i leader europei possono mettere piede senza imbarazzi al palazzo di Malacañang.
Thailandia: il futuro negato ai vincitori delle elezioni
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Sono passati più di due mesi dalle elezioni in Thailandia, terminate con un successo fragoroso di Move Forward, il partito anti sistema guidato da Pita Limjaroenrat. Ma ancora il Paese del Sud-Est asiatico non ha un nuovo primo ministro. E, anzi, le speranze del grande vincitore emerso dalle urne sembrano vacillare. Giovedì 13 luglio il Parlamento ha respinto la sua prima nomina, arrivata di concerto con la coalizione che Pita è riuscito a mettere in piedi insieme al Pheu Thai della dinastia Shinawatra e ad altre forze minori.
Servivano 376 voti per ottenere il via libera, ne sono arrivati “solo” 325. Un numero che potrebbe sembrare sufficiente, visto che la camera bassa del parlamento è composta da 500 membri. Ma in realtà sulla nomina di premier e formazione del governo votano anche i 250 senatori. Espressione del potere costituito di esercito e monarchia, cioè quelle istituzioni che non vedono bene (per usare un eufemismo) l’ascesa al potere di un giovane leader che ha costruito la sua campagna elettorale promettendo una revisione del reato di lesa maestà, architrave della perpetuazione del potere della corona thailandese.
Mercoledì 19 luglio si svolge la seconda votazione. E tutti gli scenari sono aperti. Pita ha dichiarato di volerci riprovare, chiedendo dunque l’appoggio alla coalizione per i prossimi due voti. Ma ha anche aggiunto che si farà da parte a favore del partner di coalizione Pheu Thai se non riuscirà a diventare primo ministro in una delle due votazioni previste per i prossimi giorni. “La Thailandia non può continuare a lungo senza un governo popolare come questo. Ci restano poche possibilità”, ha dichiarato in un video rapidamente diventato virale sui social.
Pita ha rifiutato di ritirare la posizione di Move Forward sulla riforma reale, nonostante le pressioni dei senatori e dei partner della coalizione. Nei giorni scorsi si è iniziato a intravedere qualche scricchiolio: il leader del Partito liberale thailandese, che fa parte della coalizione, ha dichiarato che la posizione di Move Forward sulla modifica della Costituzione è “futile” ed “egoista”. E ha poi esortato Move Forward a farsi da parte per Pheu Thai, per evitare che quest’ultimo si unisca ai partiti conservatori.
Ma invece che cercare compromessi, Move Forward sembra deciso ad andare nella direzione opposta. Venerdì scorso è stata infatti presentata in Parlamento una mozione per limitare il potere del Senato. Il Segretario generale del partito, Chaithawat Tulathon, ha affermato: “Ci sono forze del vecchio potere che fanno pressione sul Senato”. La richiesta è quella di revocare l’articolo della Costituzione che consente ai senatori di votare per la nomina del primo ministro. Un tentativo che appare però velleitario, visto che ci vorrà almeno un mese per arrivare a una decisione sulla mozione.
Nel frattempo, si continueranno però a mettere in agenda votazioni. Pita ha ottenuto una seconda nomina, ma è tutt’altro che scontato che possa arrivarne una terza e soprattutto una quarta. Anche perché la pressione opposta pare destinata a salire. “Non possiamo nominare lo stesso nome due volte”, ha dichiarato il senatore Seri Suwannapanont, citando un regolamento del Parlamento che, secondo lui, impedisce che una mozione che non passa una volta venga riproposta nella stessa sessione. L’opinione è condivisa da alcuni dei suoi colleghi del Senato di nomina militare, anche se come sottolinea il Bangkok Post nella costituzione thailandese non sono previsti limiti al numero di volte in cui un candidato può essere nominato premier, né viene specificata una scadenza per la scelta del leader.
Su Pita incombono però anche due vicende dalle sfumature legali. La Corte Costituzionale ha dichiarato di aver accettato una denuncia presentata da un avvocato contro Pita e il suo partito Move Forward, secondo cui il suo piano di riforma di una legge che vieta gli insulti reali equivale a un tentativo di “rovesciare il regime democratico di governo con il re come capo di Stato”. La commissione elettorale ha invece raccomandato allo stesso tribunale di squalificare Pita come deputato, affermando di aver trovato fondamento in un reclamo in cui si affermava che non era qualificato a candidarsi alle elezioni generali del 14 maggio, a causa del suo possesso di azioni in una società di media in violazione delle regole elettorali.
Gli scenari più estremi sono quelli di un’estromissione di Pita o persino dello scioglimento di Move Forward, com’era successo in passato col partito Future Forward. Appare ottimistico, per chi ha votato i partiti riformisti, già immaginare un governo con un premier di Pheu Thai, sostenuto da Move Forward: Shinawatra Jr. oppure Srettha Thavisin. Mentre c’è chi non esclude che alla fine la forza populista di Paetongtarn Shinawatra, figlia dell’ex premier Thaksin, raggiunga un accordo con le forze pro establishment. Il premier uscente Prayuth Chan-o-cha ha già preannunciato il ritiro della politica, ma intanto continua a conservare il suo posto conquistato nel 2014 con un golpe militare. Uno spettro sempre presente nella vita politica della Thailandia.
Uzbekistan elezioni: vince con l’87% Shavkat Mirziyoyev, in carica dal 2016
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Shavkat Mirziyoyev ha vinto le elezioni presidenziali in Uzbekistan. L’ufficialità è arrivata lunedì 10 luglio, quando la commissione elettorale ha annunciato i risultati preliminari del voto del giorno precedente. Ma in realtà questa frase poteva essere scritta nello stesso momento in cui sono state indette le elezioni, cioè dopo un referendum costituzionale che spiana la strada a due nuovi mandati presidenziali per Mirziyoyev, al potere dal 2016.
Il leader ha vinto le elezioni del 9 luglio con l’87,1% dei voti. Dei circa 20 milioni di elettori, si è presentato alle urne più o meno il 70%. Proprio l’affluenza era ritenuta un indicatore importante per dare legittimità a un voto in cui Mirziyoyev non aveva veri oppositori. Lungo tutta la campagna elettorale, gli altri tre candidati sono rimasti per lo più in silenzio. Un po’ per l’oscuramento da parte dei media, molto perché di fatto sono stati considerati da diversi osservatori internazionali come candidati di facciata. Xidirnazar Allaqulov, un ex rettore di università, era ritenuto un possibile avversario serio. Ma il suo tentativo di candidarsi è stato ostacolato e le autorità hanno bloccato gli sforzi di Allaqulov di fondare un suo partito.
Mirziyoyev è a capo della Repubblica ex sovietica dell’Asia centrale dalla morte del suo storico leader Islam Karimov. Ascesa effettuata dopo aver occupato il ruolo di premier dal 2003. Nel suo primo mandato presidenziale, ha operato diverse riforme, attirando l’attenzione mondiale di chi ha intravisto nel suo Uzbekistan un possibile esempio di apertura nella regione dell’Asia centrale. A Mirziyoyev va il merito di aver eliminato il lavoro forzato nei campi di cotone, di aver aperto il Paese al turismo e agli investimenti e di aver concesso una libertà, seppur limitata, ai media.
Ma quello che non è mai cambiato è l’ecosistema politico dell’Uzbekistan. E il secondo mandato del Presidente ha visto sprazzi di ritorno al recente passato autoritario, forse anche a causa degli effetti collaterali della guerra in Ucraina. I critici hanno sottolineato, tra le altre cose, la repressione dei disordini delle minoranze nella regione autonoma del Karakalpakstan nel luglio 2022.
Nei mesi scorsi il passaggio più critico, con la riforma costituzionale che prevedeva un’estensione dei mandati presidenziali da 5 a 7 anni e l’azzeramento delle presidenze passate. Un referendum ha approvato la riforma col 90% dei voti. Ciò consente a Mirziyoyev di aggirare il vincolo dei due mandati. Dopo l’approvazione del referendum, sono state indette elezioni anticipate, visto che il secondo mandato del leader avrebbe dovuto concludersi solo nel 2026. Il nuovo mandato di Mirziyoyev scadrà così nel 2030, con la possibilità di un suo prolungamento fino al 2037. Questo significa che ora il Presidente ha la strada spianata e soprattutto un lunghissimo periodo di tempo a disposizione per costruire quello che ha già definito “nuovo Uzbekistan“, che i critici sostengono, però, rischi di assomigliare molto a quello vecchio.
La base della legittimità sarà ricercata ancora una volta su due direttrici: crescita economica e sicurezza. Nel 2022, il Pil uzbeko è cresciuto del 5,7%, col Paese che ha attirato circa 10 miliardi di dollari di investimenti. Oltre tre volte quelli di cinque anni prima. Come tanti altri leader dell’area, Mirziyoyev si presenta poi come l’uomo in grado di garantire stabilità in una regione ancora esposta a diverse turbolenze. Basti pensare alle frequenti ribellioni in Kirghizistan o alla rivolta del gennaio 2022 in Kazakistan.
La speranza degli attivisti è che quantomeno, avendo messo in sicurezza la sua presa politica, Mirziyoyev possa operare alcune delle aperture promesse sul fronte dei diritti. In particolare la revisione del codice penale, che continua a ritenere un crimine il sesso consensuale tra due persone dello stesso sesso. Richiesta a gran voce anche una facilitazione delle regole di registrazione per le organizzazioni non governative, così come per la libertà di protesta.
Ma la sensazione è che il sistema politico uzbeko sia destinato a restare simile a quello di Karimov ancora per diverso tempo. Il tutto in un’Asia centrale che continua a mostrare tendenze autoritarie. Il Turkmenistan, per esempio, ha appena inaugurato una nuova e futuristica città “intelligente” dedicata all’ex presidente Kurbanguly Berdymukhamedov. La città si chiama Arkadag, o protettore, un titolo non ufficiale con cui i media turkmeni si riferiscono da tempo a Berdymukhamedov, che ha festeggiato il suo 66° compleanno recandosi alla città santa musulmana della Mecca. La costruzione della nuova città per 73.000 residenti è costata 3,3 miliardi di dollari e si prevede di spendere altrettanto nei prossimi anni. A tagliare il nastro è stato il nuovo Presidente e successore del “protettore”: Serdar Berdymukhamedov, suo figlio.
Vietnam: social media e sicurezza nazionale
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Come controllare i contenuti che appaiono su internet senza imporre una Grande Muraglia digitale come fatto dalla Cina? Il Vietnam sta provando a capirlo da diverso tempo. E, pare, con diversi successi. Il governo di Hanoi ha chiesto alle piattaforme social transfrontaliere di utilizzare modelli di intelligenza artificiale in grado di rilevare e rimuovere automaticamente i contenuti “tossici”. Ciò significa, nella visione del Partito comunista vietnamita, “contenuti offensivi, falsi e contro lo Stato”. La richiesta è arrivata durante la revisione di metà anno del Ministero dell’Informazione.
Si tratta dell’ennesimo segnale della volontà delle autorità vietnamite di restringere la portata delle piattaforme di social media per bloccare sul nascere qualsiasi potenziale manifestazione di dissenso organizzato.
Le grandi piattaforme internazionali ricevono pressioni già da tempo. Secondo i dati forniti dalle autorità locali, nella prima metà di quest’anno, in conformità con le richieste del governo, Facebook ha rimosso 2.549 post. YouTube ha rimosso 6.101 video, mentre TikTok ha eliminato 415 link. Negli ultimi anni il Vietnam ha emanato diverse normative che prendono di mira le piattaforme di social media straniere nel tentativo di combattere la disinformazione e soprattutto i contenuti ritenuti contrari agli interessi statali e governativi. Allo stesso tempo, il governo prova a costringere le aziende tecnologiche straniere a stabilire uffici di rappresentanza in Vietnam e a conservare i dati nel Paese.
Nel 2018 ha approvato una legge sulla cybersicurezza che obbliga Facebook e Google a togliere i post ritenuti minacce alla sicurezza nazionale entro 24 ore dalla ricezione di una richiesta governativa. Per dimostrare che faceva sul serio, a un certo punto il governo ha persino minacciato di bloccare l’accesso a Facebook se l’azienda non avesse soddisfatto le sue richieste.
Nel mirino non ci sono solo i colossi occidentali. A maggio, il Vietnam ha intrapreso un’ispezione completa sulle operazioni locali della piattaforma di video brevi TikTok e i risultati preliminari hanno mostrato “varie” violazioni da parte dell’applicazione. Mentre nelle stesse settimane il gigante dello streaming statunitense Netflix ha presentato i documenti necessari per aprire un ufficio locale in Vietnam. Una mossa arrivata dopo la visita di una maxi delegazione di aziende e giganti tecnologici e digitali degli Stati Uniti ad Hanoi.
È difficile non ottemperare alle richieste del governo vietnamita, anche perché il Paese ha un’età media bassa con una classe media in continua espansione. Sempre più vietnamiti hanno accesso a internet e nessuno vuole perdere le opportunità fornite da questa tendenza. Già nel 2020, su richiesta del governo, Facebook (che ha superato i 60 milioni di utenti locali) ha cancellato il 95% dei post ritenuti sovversivi, YouTube circa il 90%. Il tutto alla vigilia del 13esimo Congresso del Partito comunista che ha visto iniziare il terzo mandato del segretario generale Nguyen Phu Trong.
La maggior parte dei contenuti viene rimossa, secondo le parole di Facebook, per “presunta violazione delle leggi locali sulla fornitura di informazioni che distorcono, calunniano o insultano la reputazione di un’organizzazione o l’onore e la dignità di un individuo”. Amnesty International ha affermato che Facebook e YouTube sono responsabili di “censura e repressione su scala industriale” in Vietnam.
La Cambogia è stufa degli abusi
La manovra vietnamita arriva mentre i Paesi del Sud-Est asiatico stanno elaborando linee guida sulla governance e sull’etica dell’intelligenza artificiale che imporranno limiti precisi alla tecnologia. Nella vicina Cambogia, il leader “eterno” Hun Sen ha dichiarato di voler vietare Facebook, perché si dice “stufo degli abusi” che riceve dai suoi nemici politici all’estero. In realtà rivali e dissidenti bannati dalla possibilità di svolgere il loro ruolo di opposizione in vista delle elezioni del 23 luglio.
Hun Sen è sempre stato molto presente su Facebook, tra post, foto e i suoi diversi discorsi in livestreaming, anche per diverse ore. Nei giorni scorsi, Hun Sen ha dichiarato che non caricherà più su Facebook e utilizzerà invece Telegram. Proprio la Cambogia lavora da anni a un sistema di controllo dei contenuti online sotto la diretta supervisione del governo, anche se l’introduzione del suo nuovo National Internet Gateway (NIG) è stata finora rimandata. Quando l’annunciata riforma entrerà in vigore, tutte le reti dovranno collegarsi a un gateway al quale dovranno fornire moduli compilati con identità e generalità degli utenti. L’operatore del gateway dovrà aggiornare le autorità sul traffico con report regolari. Il mancato allacciamento al gateway, che dovrà avvenire entro un anno, potrebbe comportare la sospensione delle licenze operative ai fornitori di servizi e persino il blocco dei conti bancari.
L’intenzione annunciata è quella di “prevenire e disconnettere tutte le connessioni di rete che minacciano sicurezza, ordine sociale, moralità, tradizioni e costumi” cambogiani.
Asia orientale: gli schieramenti militari
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Slogan e accuse contro gli Stati Uniti a Pyongyang in occasione del 73esimo anniversario della guerra di Corea. Mentre Seul si avvicina a Washington, la Corea del Nord accusa gli Usa di volere una guerra nucleare
“Gli Stati Uniti stanno compiendo sforzi disperati per scatenare una guerra nucleare”. A lanciare l’accusa, forte e sopra i consueti toni anche per il suo mittente, è la Corea del Nord. È un momento particolarmente delicato a Pyongyang, denso di significati politici e retorici. Domenica 25 giugno si è infatti celebrato il 73esimo anniversario dell’avvio della guerra di Corea, che fu combattuta per poco più di tre anni fino al 27 luglio 1953 e che non produsse mai una vera pace, ma un semplice armistizio. Tecnicamente, Corea del Nord e Corea del Sud sono ancora in conflitto. Anche se fortunatamente congelato. Per la ricorrenza, Pyongyang ha organizzato grandi manifestazioni di massa. Ai raduni organizzati dal Partito dei Lavoratori e dal regime di Kim Jong-un hanno partecipato circa 120 mila persone, molti studenti. Tra gli slogan più quotati la promessa di una “guerra di vendetta” per distruggere gli Stati Uniti.
Le foto diffuse dai media statali hanno mostrato uno stadio affollato di persone che reggevano cartelli con la scritta: “L’intera terraferma statunitense è nel nostro raggio di tiro”. O ancora: “Gli Stati Uniti imperialisti sono i distruttori della pace”. A metà tra esaltazione del proprio arsenale nucleare e denuncia delle azioni di Washington che metterebbero a rischio la stabilità della penisola coreana.
L’agenzia di stampa statale della Corea del Nord ha rincarato l’avvertimento, sostenendo che il paese ha ora a disposizione “la più forte arma assoluta per punire gli imperialisti statunitensi” e i “vendicatori su questa terra ardono con l’indomabile volontà di vendicare il nemico”.
A margine degli eventi, il ministero degli Esteri ha rilasciato un report dove accusa appunto gli Stati Uniti di volere una guerra nucleare. “Le azioni belligeranti degli Stati Uniti hanno spinto le tensioni militari nella penisola coreana e nel nor