
Direttore editoriale di China Files e coordinatore editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate tra cui Affaritaliani (di cui ha gestito la sezione esteri), Eastwest, il Manifesto e ISPI.
Direttore editoriale di China Files e coordinatore editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate tra cui Affaritaliani (di cui ha gestito la sezione esteri), Eastwest, il Manifesto e ISPI.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
È la mattina del 27 febbraio 2002. Il Sabarmati Express si ferma nei pressi della stazione ferroviaria di Godhra, nello Stato del Gujarat, India occidentale. A bordo centinaia e centinaia di pellegrini indù di ritorno da Ayodhya, una delle sette città sacre per la religione dominante in India. Scoppia una discussione tra i passeggeri e i venditori sul binario della stazione. In circostanze mai del tutto chiarite, quattro carrozze del treno prendono fuoco. Scatta la fuga, ma decine di persone restano intrappolate a bordo. Le vittime sono 59: nove uomini, 25 donne e 25 bambini. Tutti morti tra le fiamme.
Bisogna andare indietro a quella tragica giornata di 21 anni fa per capire qualcosa in più del presente dell’India, sia sotto il profilo politico che sotto quello sociale e dei diritti. Oggi la cosiddetta “più grande democrazia del mondo” ha diversi punti oscuri. La minoranza musulmana lamenta leggi discriminatorie, mentre la situazione della libertà di stampa e quella digitale sono in costante peggioramento. E Rahul Gandhi, il principale leader di un’opposizione che sembrava stare cercando di ricomporre la frammentazione che l’ha caratterizzata negli ultimi anni è stato condannato a due anni di carcere. Rischiando di non potersi candidare alle elezioni del 2024.
Su questi 21 anni si staglia la figura di Narendra Modi, il potente Primo Ministro ultranazionalista che domina da tempo la politica indiana. Sin dall’inizio, è lui il protagonista di questa storia. In quel 2002 è lui il governatore del Gujarat, Stato in cui è nato. È lui a osservare quanto accade dopo la tragedia del Sabarmati Express. La colpa ricade sulla minoranza musulmana della regione. Parte una violentissima rappresaglia da parte della maggioranza indù, che nel corso di alcune settimane provoca la morte di mille persone. Almeno secondo i dati ufficiali, perché le stime degli attivisti e delle organizzazioni governative parlano invece di 2500 vittime.
Modi viene accusato di non aver fatto abbastanza per provare a evitare la strage. Ma dopo anni di indagini, la Corte Suprema dell’India sostiene che la sua squadra investigativa non ha trovato prove sufficienti per avviare un procedimento giudiziario contro di lui. Qualche ombra è però sempre restata, ed è tornata ad addensarsi negli scorsi mesi, quando è uscito il documentario della Bbc India: The Modi Question. Il film contiene documenti del governo britannico secondo cui le violenze del Gujarat hanno “tutte le caratteristiche di una pulizia etnica”. Jack Straw, all’epoca Ministro degli Esteri del Regno Unito, viene ritratto mentre afferma che vi erano “serie affermazioni” secondo cui Modi stava attivamente limitando le attività della polizia e “incoraggiando tacitamente gli estremisti indù”.
Il documentario è stato censurato in tutta l’India, col governo che lo ha definito “spazzatura” e “propaganda anti indiana”. L’esecutivo ha ordinato di non condividerne nemmeno link o spezzoni a tutti i social media, che hanno eseguito pedissequamente. Una vicenda emblematica che, al di là della veridicità delle accuse nei confronti del premier, dimostra un sostanzioso sfilacciamento del tessuto democratico indiano. A partire dal discorso pubblico. Dopo la polemica sul documentario, la sede locale della Bbc a Nuova Delhi è stata perquisita due volte nell’ambito di un’indagine fiscale. Con computer, agende e telefoni di diversi giornalisti che sono stati sequestrati. Non è un caso che l’anno scorso, l’India è scivolata di otto posizioni nell’indice della libertà di stampa, scendendo a 150 su 180 paesi: la peggiore posizione di sempre per il gigante asiatico. D’altronde, l’ambiente dei media indiani è ormai sempre più vicino al governo Modi e le voci critiche sono sempre meno. Ndtv, broadcaster che aveva mantenuto una linea scettica nei confronti di Modi, è stata di recente acquistata dal suo amico multimiliardario Gautam Adani al termine di una scalata ostile. Proprio quell’Adani a capo di uno dei principali conglomerati industriali indiani, finito in crisi per un report del fondo ribassista Hindenburg Research, che ha evidenziato presunte manipolazioni del mercato e irregolarità contabili attraverso “sfacciate alterazioni dei prezzi delle azioni” e “decenni di falsificazione dei bilanci”.
Adani ha definito le accuse del fondo statunitense “subdolamente malevole”, descrivendole come come un tentativo di un’entità straniera di sabotare l’ascesa indiana. La stessa linea mantenuta dal governo Modi sul documentario della Bbc. D’altronde, i due sono vicinissimi e si conoscono proprio dall’era del Gujarat, da dove è iniziata anche la fortuna di Adani. Proprio il rapporto con alcuni multimiliardari come lui e la spinta del mondo del business hanno rafforzato l’immagine internazionale di Modi come di un leader pronto ad aprire un mercato in immensa crescita agli investimenti internazionali.
Così l’Occidente si è infatuato di Modi, diventato premier per la prima volta nel 2014. Se a livello esterno ha sfruttato questa immagine di grande modernizzatore, all’interno Modi ha cavalcato i toni del nazionalismo indù per favorire la sua ascesa politica. Una volta salito al potere i toni sono saliti ancora di più e hanno sforato nel modello di governance, con leggi considerate da più parti come lesive della minoranza musulmana. Nel 2019, poco dopo aver ottenuto il secondo mandato da primo ministro, Modi ha revocato improvvisamente l’autonomia del Kashmir. L’unico Stato dove i musulmani sono la maggioranza è stato diviso in due parti: Ladakh e Jammu & Kashmir. Il primo non ha nemmeno più un parlamento statale. Non solo. Il governo centrale ha anche approvato una nuova legge sulla cittadinanza che stabilisce che per richiedere il passaporto indiano, uno straniero debba aver vissuto nel Paese o lavorato per il governo federale per almeno 11 anni. Sono previste eccezioni per i membri di sei minoranze religiose provenienti dai paesi limitrofi, in grado di chiedere la cittadinanza dopo sei anni. Ma sono esclusi gli ahmadi provenienti dal Pakistan e i rohingya provenienti dal Myanmar, entrambi musulmani.
Ma la stretta dei diritti riguarda un po’ tutta la società indiana. Nel 2022, i tribunali indiani hanno comminato 165 nuove condanne a morte. Il numero più alto in un solo anno per il paese dal 2000. I detenuti indiani nel braccio della morte sono dunque diventati 539, anche questo il dato più pesante a partire dal 2004. Da decenni l’India si oppone a qualunque tentativo di risoluzione delle Nazioni Unite per sospendere o vietare la pena di morte, e nel 2019 il governo targato Bharatiya Janata Party (BJP) ha ampliato lo spettro di reati punibili con la sentenza capitale.
Le proteste anti governative esplose negli scorsi anni sono state represse in modo anche violento. Come accaduto nel 2020, quando immense folle di contadini si sono concentrate nella capitale per protestare contro la riforma agraria. La repressione delle forze di sicurezza ha causato anche dei morti.
Un altro modo con cui il governo “oscura” il dissenso è il controllo della rete. Secondo il report annuale di Access Now, gruppo di difesa dei diritti digitali con sede a New York, nel 2022 sono state imposte in tutto 187 chiusure della rete internet. Di queste, ben 84 sono state ordinate in India. In oltre la metà dei casi (49) è coinvolto il Kashmir. Il poco invidiabile record nei blocchi alla rete non è frutto del caso ma nasce da lontano, visto che l’India occupa la prima posizione della graduatoria redatta da Access Now per il quinto anno consecutivo.
Anche le grandi piattaforme digitali internazionali subiscono forti pressioni dal governo per bloccare contenuti antigovernativi o ritenuti una minaccia per la sicurezza nazionale. Twitter, per esempio, ha seguito le indicazioni delle autorità sia in occasione delle proteste del 2020 e 2021, sia sul documentario della Bbc. Così come YouTube. Non sempre è bastato. In diverse parti del Paese, gli studenti hanno organizzato delle proiezioni di gruppo. Andando spesso incontro a interventi della polizia o degli atenei. In alcuni casi, si sono verificate anche delle violenze. Alla Jawaharlal Nehru University di Delhi un gruppo di studenti nazionalisti indù ha lanciato mattoni contro quelli che si erano radunati per guardare il documentario sui propri telefonini, visto che l’università aveva staccato la corrente per evitare l’utilizzo del proiettore.
In tutto ciò, l’opposizione è stata a lungo ridotta ai minimi termini. Ma negli ultimi mesi si è raccolta intorno a Rahul Gandhi, capo del Partito del Congresso, protagonista di una lunga marcia di 3500 chilometri attraverso il Paese durata cinque mesi fino allo scorso gennaio. L’esponente della più celebre dinastia politica indiana è stato condannato il 23 marzo dal tribunale della città di Surat, ancora una volta nel Gujarat. La pena è di due anni di carcere per diffamazione. Il motivo è quanto ha detto in un discorso prima del voto del 2019, in cui denunciava la corruzione dilagante e in cui aveva fatto riferimento al Primo Ministro e a due uomini d’affari latitanti, tutti col cognome Modi. Ai sensi della legge che regola il processo elettorale indiano, Gandhi rischia seriamente di non potersi candidare alle elezioni del 2024, a meno che la condanna non venga sospesa o cancellata. Se i due anni di carcere fossero confermati, non potrà invece candidarsi per 6 anni dopo la fine della pena.
In tutto ciò, l’Occidente ha spesso guardato dall’altra parte. E questo per due motivi. Il primo è commerciale: i paesi europei, e non solo, sono a caccia di opportunità di diversificazione della propria economia, nell’ambito delle grandi tensioni con la Russia e soprattutto con la Cina. L’India non ha solo un prodotto interno lordo in crescita, ma è anche al centro di una storica ascesa demografica che nel 2023 dovrebbe renderla la nazione più popolosa del mondo al posto della Cina, che ha invece appena iniziato un trend di calo demografico. Un fenomeno che amplierà ancora di più la base del mercato del lavoro indiano, così come quella dei consumatori. Due caratteristiche che fanno sì che Nuova Delhi stia attirando sempre più grandi aziende internazionali. Uno dei principali esempi è quello della Foxconn, principale fornitore di Apple per i suoi iPhone. Il colosso taiwanese è intenzionato a espandere la produzione di smartphone nel suo impianto esistente vicino a Chennai, nello stato indiano meridionale del Tamil Nadu. L’obiettivo è quello di aumentare la produzione fino a circa 20 milioni di unità all’anno entro il 2024. Ma Foxconn intende anche costruire un nuovo impianto di componenti per iPhone in un sito di 300 acri vicino all’aeroporto internazionale Kempegowda a Bangalore.
C’è poi la dimensione geopolitica e strategica. Gli Stati Uniti stanno lanciando una serie di ambiziose iniziative tecnologiche, spaziali e di difesa con l’India, nel tentativo di contrastare la Cina in Asia-Pacifico e di liberare Nuova Delhi dalla dipendenza dalla Russia per gli armamenti. A inizio febbraio, il consigliere per la sicurezza nazionale americano Jake Sullivan e il suo omologo indiano Ajit Doval si sono incontrati a Washington e hanno sottoscritto un accordo di cooperazione in diversi settori, tra cui l’informatica quantistica, l’intelligenza artificiale, le reti wireless 5G e i semiconduttori. Stati Uniti e India hanno inoltre creato un meccanismo per facilitare la produzione congiunta di armi. Mosca sta d’altronde facendo sempre più fatica a onorare le consegne a causa della guerra in Ucraina e a dicembre, per la prima storica volta, l’esercito indiano ha usato informazioni satellitari condivise in tempo reale dagli Stati Uniti per avvantaggiarsi negli scontri coi militari cinesi lungo il confine conteso. È dagli scontri mortali, i primi da decenni, del giugno 2020 che Nuova Delhi non ha del tutto riallacciato i rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare Cinese. In ogni caso, l’India continua ad avere una politica estera indipendente, come dimostra la sua contemporanea partecipazione a Quad, Brics e Sco (Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, insieme tra gli altri a Cina e Russia). Ma per Washington il rafforzamento dei rapporti strategici con Nuova Delhi è considerata la vera priorità diplomatica e sul fronte della sicurezza per fronteggiare il suo principale rivale: Pechino.
Una priorità che, nell’ottica statunitense e non solo, val bene un occhio chiuso sullo stato dei diritti all’interno di quella che continua a essere definita la “più grande democrazia del mondo”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Si chiama Gui Haichao ed è il primo astronauta civile cinese a essere inviato nello spazio. 36 anni, specialista di carico utile dell’Università di Aeronautica e Astronautica di Pechino, fa parte dell’equipaggio che martedì 30 maggio si imbarca nella navicella Shenzhou 16, diretta verso la stazione spaziale Tiangong.
Si tratta solo dell’ultimo episodio rivelatorio delle sempre crescenti ambizioni della Cina nello spazio. Il professor Gui sarà responsabile della gestione e della manutenzione del carico utile, del funzionamento delle apparecchiature e delle condizioni di controllo degli esperimenti, nonché della raccolta, dell’organizzazione e dell’analisi dei dati. Lo specialista ha alle spalle un dottorato in ingegneria aerospaziale conseguito presso la Beihang University nel 2014.
Si tratta di un arruolamento storico, visto che prima di questa missione tutti gli astronauti cinesi selezionati per i voli spaziali erano membri delle forze armate di Pechino. Non un caso che arrivi in un momento nel quale Xi Jinping sta spingendo tantissimo sul fronte dell’ingegneria aerospaziale. Al XX Congresso del Partito comunista dello scorso ottobre, sono stati moltissimi i promossi al Comitato centrale e al Politburo con competenze del settore. Gui diventa così uno degli esponenti di spicco di quella classe di tecnocrati che sta rapidamente guadagnando spazio all’interno delle istituzioni partitiche e statali cinesi.
L’equipaggio di cui fa parte Gui rimarrà a bordo della stazione spaziale fino a novembre, quando gli astronauti saranno sostituiti da un nuovo equipaggio nella missione Shenzhou 17, mentre la Tiangong prosegue il suo lavoro di ricerca spaziale da ormai diverso tempo.
Da quando la stazione spaziale è stata completata in ottobre, la Cina è stata avara di dettagli sulle attività dei suoi astronauti. Quando il 30 marzo due di loro hanno fatto una passeggiata spaziale, è stato annunciato dopo che il fatto era già accaduto. Non sono stati forniti dettagli. La Stazione Spaziale Internazionale, invece, segnala in anticipo tutte le passeggiate spaziali e le trasmette in diretta streaming.
D’altronde, la Cina sta insistendo da tempo sulle ambizioni spaziali come specchio della propria pretesa di potenza. Anche nel cinema e nella letteratura, il sostegno alle opere in grado di costruire una retorica spaziale e fantascientifica con caratteristiche cinesi viene molto apprezzata dal Partito. Visto il prestigio in gioco, i funzionari potrebbero essere inclini a nascondere i fallimenti. Qualche silenzio o comunque cautela nella comunicazione potrebbe derivare dalla volontà di evitare di comunicare eventuali insuccessi. È accaduto così, per esempio, sulla vicenda del rover Zhurong. Atterrato su Marte nel 2021, nel maggio dello scorso anno è entrato in un’ibernazione programmata per l’inverno marziano. Zhurong avrebbe dovuto svegliarsi a dicembre, ma ad aprile gli scienziati hanno spiegato che un accumulo di polvere aveva impedito ai raggi solari di riavviare il rover.
Ci sono però diversi altri episodi di grande successo, che dimostrano come il programma spaziale cinese stia procedendo rapidamente. A fine aprile, la Cina ha rilasciato le prime immagini globali di Marte ottenute dalla sua prima missione di esplorazione, fornendo una mappa di base di migliore qualità per le attività scientifiche e di esplorazione del Pianeta Rosso. Le immagini a colori comprendono proiezioni ortografiche, Robinson, Mercatore e azimutali degli emisferi orientale e occidentale di Marte con una risoluzione spaziale di 76 metri. Le immagini forniranno una mappa di base di migliore qualità per i progetti di esplorazione di Marte e per la ricerca scientifica.
La roadmap degli obiettivi di Pechino è ambiziosa. La Cina ha presentato il suo piano di costruzione della Stazione Lunare Internazionale (ILRS) con i suoi partner internazionali, un progetto a lungo termine in tre fasi da qui al 2050. Una “versione di base” della stazione di ricerca dovrebbe essere completata entro il 2028 nel corso di sette lanci, ovvero le missioni cinesi Chang’e 4, 6, 7 e 8 e tre lanci internazionali. Queste missioni si concentreranno sull’esplorazione dell’ambiente lunare e delle sue risorse, oltre che sulla sperimentazione di applicazioni tecnologiche. Altre sei missioni, tra cui ILRS 1-5, saranno realizzate tra il 2030 e il 2040 per costruire una “versione completa” della stazione. Entro il 2050, l’ILRS dovrebbe diventare una base di ricerca lunare a grandezza naturale e multifunzionale, con la speranza di poter eventualmente supportare missioni con equipaggio su Marte. Già nel 2030, invece, la Cina mira a portare i suoi astronauti sulla Luna.
Non è tutto. La Cina prevede di lanciare la sonda Tianwen-2 intorno al 2025 tramite il vettore Long March-3B; la missione eseguirà un fly-by e la restituzione di un campione con un asteroide vicino alla Terra denominato 2016HO3 e poi, intorno al 2034, un altro fly-by con una cometa della fascia principale denominata 311P. Zhang Rongqiao, capo progettista del progetto interplanetario cinese, ha dichiarato ai media che il lancio di Tianwen-2 è previsto intorno al maggio 2025, con la fase di ricerca del prototipo quasi completata.
La Cina sta inoltre pianificando una ricerca oltre il sistema solare per trovare pianeti abitabili, e la prima ricerca sarà effettuata nel 2030 dopo il completamento di un tipo di telescopio di base, hanno rivelato i ricercatori cinesi durante l’evento China Space Day. Il piano, chiamato programma Miyin, mira a individuare “un’altra Terra” tra i vicini del sistema solare attraverso il lancio di un array di telescopi. Il programma prevede anche l’esecuzione di immagini ad alta risoluzione e osservazioni spettroscopiche di vari tipi di oggetti per mappare la composizione dell’acqua del sistema solare, aprendo una nuova era di osservazioni astronomiche ad alta risoluzione. La realtà come la finzione, visto che la ricerca di un altro pianeta per salvare l’umanità era il centro de Il problema dei tre corpi, celebre romanzo di fantascienza di Liu Cixin, tradotto poi nel più grande blockbuster della storia del cinema cinese, The Wandering Earth.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
“No ai test Covid, sì al cibo. No all’isolamento, sì alla libertà. No alle bugie, sì alla dignità. No alla rivoluzione culturale, sì alla riforma. No al grande leader, sì al voto. Non essere schiavo, sii cittadino”. È il 13 ottobre 2022. Sul Sitong Bridge, un cavalcavia nel distretto di Haidian a Pechino, compare uno striscione di protesta con questa frase. Viene rapidamente rimosso e sul web cinese vengono censurate le parole chiave in esso contenute. Pochi giorni dopo, Xi Jinping viene nominato per la terza volta segretario generale al termine del XX Congresso del Partito comunista cinese. Nelle settimane seguenti, slogan simili appaiono anche in altre città cinesi. Soprattutto nei bagni pubblici, uno dei pochi spazi privi delle telecamere di sicurezza. A fine novembre, poi, esplodono diverse proteste contro le restrizioni imposte dalla strategia zero Covid allora in vigore. All’inizio c’è persino chi parla di “rivoluzione degli A4”, prendendo spunto dai fogli bianchi tenuti in mano da diversi manifestanti che così sperano di evitare problemi con le autorità per l’assenza di slogan critici nei confronti del governo. Il tutto poi viene riassorbito in fretta, con Xi che dosa concessioni e repressione, arrivando velocemente alla riapertura della Cina e allo stesso tempo presidiando in maniera diffusa i centri nevralgici delle città del Paese per evitare la prosecuzione delle proteste.
È forse questa contingenza di poco più di un mese e mezzo l’esempio internazionalmente più celebre di protesta in Cina. Quantomeno da quanto accaduto in piazza Tiananmen nel 1989. Come se nei 33 anni seguenti i cinesi non abbiano mai rivendicato diritti, nella visione spesso stereotipata che se ne ha in Occidente. Ovviamente, non è così. Anche se le forme di protesta raramente mettono nel mirino direttamente i leader o il governo centrale, ma semmai autorità locali, privati o politiche specifiche. Un po’ per convinzione, un po’ per convenienza. Dopo Tiananmen, il Partito ha giurato di non lasciar mai più ripetere una protesta di massa in grado di mettere in discussione la sua governabilità. Per questo nelle proteste di fine novembre si cantava spesso l’Internazionale o l’inno cinese, come ad allontanare preventivamente l’accusa di mancato patriottismo o mancata fedeltà al Paese.
Nonostante i riflettori internazionali siano spesso rimasti spenti o semi spenti, anche a causa della censura interna, in questi 30 anni ci sono state molte altre proteste. Per restare sul tema sanitario, già nel 2003 in diverse città ci furono proteste contro la gestione dell’epidemia di SARS. Una delle principali critiche era la mancanza di trasparenza e la presunta lentezza della risposta del governo, che inizialmente aveva negato l’esistenza della malattia, silenziando medici e giornalisti che mandavano segnali d’allarme. Le proteste e le critiche portarono le autorità a riconoscere la gravità della malattia e ad adottare misure per contenerla, tra cui l’attuazione di misure di quarantena e l’aumento delle risorse per le cure mediche. Una vicenda con diversi paralleli con quella del 2019.
Al di là del fronte sanitario, ci sono stati altri episodi in cui la gestione centrale è finita nel mirino. In particolare, nel 2011, quando un treno ad alta velocità a Wenzhou si scontrò con un altro treno, uccidendo 40 persone e ferendone quasi 200. Anche in quel caso ci fu la percezione di mancanza di trasparenza e molti furono insoddisfatti della gestione dei soccorsi e del trattamento delle vittime. Una delle prime ondate di indignazione popolare a essere veicolata attraverso i social, alla quale il governo e in particolare Xi (che di lì a poco avrebbe assunto il potere) risposero rafforzando l’affidabilità della rete ferroviaria e la sua modernizzazione tecnologica.
In altri casi, invece, il governo non si è adeguato alle richieste di chi protestava. Per esempio sul caso della Diga delle Tre Gole, oggetto di insoddisfazione sin dagli anni Novanta, quando milioni di persone sono state sfollate dai pressi del fiume Yangtze per la costruzione dell’immensa opera idroelettrica. Tra i motivi delle proteste, anche il timore dell’impatto ambientale del progetto, visto il florido habitat faunistico dell’area e l’alterazione del flusso del fiume e seguenti problematiche per le comunità a valle. Il governo ha comunque continuato a sostenere la diga, sottolineandone i benefici in termini di produzione di energia elettrica, argomento divenuto cruciale dopo la crisi energetica dell’autunno del 2021.
Molto più spesso, invece, le proteste sono dirette contro aziende private o funzionari locali. Un esempio celebre è quello di Wukan, un piccolo villaggio di pescatori nella provincia di Guangdong che nel 2011 hanno protestato contro il sequestro dei loro terreni da parte dei funzionari locali a fini di sviluppo. Le proteste sono degenerate e gli abitanti hanno eretto barricate e si sono scontrati con la polizia. Alla fine si è arrivati a negoziati tra gli abitanti del villaggio e il governo, che hanno portato all’elezione di un nuovo comitato di villaggio.
Negli ultimi anni, a differenza di quanto accadeva una volta, è diventato peraltro più complicato contenere la diffusione di questi episodi in rete. Vero che il web cinese viene definito da molti esperti una sorta di gigantesco intranet, ma allo stesso tempo tra le maglie della rete qualcosa riesce a passare. Una questione da tenere presente per Xi, che ha appena iniziato il suo terzo mandato. Le rivendicazioni dei cinesi della “nuova era” riguardano diversi argomenti. Uno di questi è il lavoro. Tra gli esempi più recenti e significativi, quello di Zhengzhou, dove il mega impianto della Foxconn è stato teatro di fughe di massa e scontri tra operai e polizia. Motivo del contendere, presunti bonus non pagati ai lavoratori che avevano scelto di restare chiusi nella bolla della fabbrica per continuare a produrre durante il Covid. Una vicenda che ha avuto un impatto rilevante sul principale fornitore di iPhone per Apple. Già nel 2019, negli stabilimenti Foxconn c’erano state proteste di dipendenti che chiedevano salari più alti e il diritto di formare un sindacato. Medesimi ingredienti della rivolta agli impianti cinesi della Honda, nello stesso anno.
Il governo è spesso riuscito a presentarsi come tutore dei diritti dei lavoratori, in particolare nel caso della cosiddetta gig economy. Già prima del Covid, i riders di servizi di consegna come Deliveroo e la cinese Meituan hanno iniziato a inscenare scioperi e proteste per le paghe troppo basse e l’assenza quasi totale di tutele. Il Partito è intervenuto per regolare maggiormente il settore, colpendo anche i colossi digitali e le loro posizioni di monopolio. Arrivando anche a mettere in discussione la famosa “cultura del 996”, cioè la tradizione di lavorare dalle nove del mattino alle nove di sera per sei giorni alla settimana, imposta dai giganti del settore tecnologico.
Un altro tema che sta a cuore dei cinesi è quello ambientale. Già nel primo decennio del nuovo millennio c’erano state diverse proteste contro l’inquinamento, causato dalla rapida industrializzazione della Cina. Anche in questo caso, il governo ha recepito e agito con forza per ridurre lo smog. Soprattutto nelle grandi città come Pechino, molto meno altrove in province meno centrali. Nel 2019, in diverse città cinesi si sono verificate proteste contro i piani di costruzione di inceneritori di rifiuti. I cittadini erano preoccupati per i rischi sanitari e ambientali degli inceneritori e le proteste hanno portato alla cancellazione di diversi progetti. Anche nel 2016, la rivolta contro un impianto chimico a Chengdu, motivata dal timore di esalazioni tossiche, ha portato all’accantonamento del progetto. Ancora prima, nel 2011, stessa sorte per un impianto di produzione di paraxilene a Xiamen, sulla costa del Fujian. Più recente il caso della centrale a carbone proposta nella provincia dello Zhejiang. Nel 2021, residenti e attivisti sono riusciti a bloccare l’idea, col governo che ha contestualmente annunciato di voler aumentare gli investimenti nelle fonti di energia rinnovabili.
Certo, non finisce sempre così bene. Anzi, nell’ultimo anno e mezzo sono state costruite moltissime nuove centrali a carbone. E su altri argomenti ritenuti più sensibili il governo non opera concessioni. Per esempio sulle politiche identitarie. Nel 2020, in Mongolia interna si sono verificate diverse proteste per la decisione di aumentare l’insegnamento della lingua mandarina nelle scuole della regione autonoma. Questa politica è stata vista da molti mongoli come un tentativo di erodere la loro identità culturale e di minare l’uso della lingua mongola. Le proteste hanno incluso grandi dimostrazioni e boicottaggi delle scuole, con i genitori che hanno tenuto a casa i figli per dimostrare dissenso. Ma in questo caso il governo ha risposto arrestando e detenendo diversi manifestanti e attuando misure severe per reprimere il dissenso. Come prima in Tibet o nello Xinjiang, su temi del genere Pechino non prevede nessuna possibilità di arretrare.
Più pronta ad accogliere le insoddisfazioni dei cittadini, invece, in merito alla questione immobiliare. Soprattutto se le lamentele sono in direzione di aziende private. Gli esecutivi locali e quello centrale sono intervenuti più volte per imporre o sostenere la consegna degli appartamenti da parte dei grandi sviluppatori immobiliari, caduti in una grossa crisi tra il 2021 e il 2022. In diverse occasioni, i clienti di colossi come Evergrande si sono presentati sotto le sedi delle aziende per contestare la mancata fine dei lavori di case già pagate. Le autorità sono spesso intervenute sostenendo piani di ristrutturazione aziendale che prevedono anche l’intervento diretto dello stato. Con la priorità di garantire la consegna degli appartamenti ai cittadini cinesi per evitare che la questione potesse turbare ulteriormente l’ordine sociale o diventare argomento di rivendicazione contro il sistema politico. I prezzi delle case sono stati oggetto di manifestazioni in questi anni anche a Pechino e Shenzhen, mentre a Suzhou e Chongqing si sono contestati piani di demolizione. In questi due ultimi casi si sono verificati anche degli scontri tra i residenti e le forze di polizia.
Negli ultimi anni ci sono state anche alcune proteste scaturite da abusi e violenze di genere, ma un vero e proprio movimento #MeToo non si è mai riuscito a formare. Non tanto per misoginia del Partito, quanto per la sua avversione verso qualsiasi forma di associazionismo in grado di avanzare istanze non direttamente gestibili dalle autorità.
Dopo la riapertura post Covid, le autorità locali devono invece far fronte a un altro problema: la mancanza di liquidità nelle proprie casse. A febbraio si sono verificate diverse proteste a Wuhan, Guangzhou e altre città. Coinvolti soprattutto i pensionati, arrabbiati per i tagli alle detrazioni delle spese mediche. Le autorità sanitarie locali sono d’altronde costrette a rivedere le spese, dopo che negli scorsi tre anni hanno disperso enormi risorse per lockdown e tamponi di massa, all’interno della mastodontica macchina anti Covid imposta dalla strategia di tolleranza zero voluta da Xi.
La rapida e improvvisa riapertura dei mesi scorsi non ha cancellato tutti i problemi o i motivi di rivendicazione.
Le proteste non sono l’inizio di una rivoluzione, ma dimostrano che i cinesi sono pronti a scendere in strada per chiedere la tutela dei propri diritti. Anche con più vigore di un tempo. Un elemento di cui il governo dovrà tenere conto, visto anche che la crescita imponente degli ultimi decenni ha cominciato a rallentare. Col calo demografico e una probabile quanto necessaria riforma delle pensioni che incombono all’orizzonte, Pechino sarà chiamata a dosare con ancora maggiore attenzione concessioni e repressione. Anche perché il Partito sa bene che alla base delle proteste di fine novembre, rimaste un fuoco fatuo ma comunque molto significative per la loro diffusione contemporanea in diverse città, non c’era solo la stanchezza per le politiche anti Covid. Nel mix c’erano anche la disoccupazione giovanile e l’incertezza verso il futuro, sentimento inedito quantomeno sul fronte economico per le ultime generazioni di cinesi che erano state abituate a stare sempre meglio di quelle precedenti.
Oltre ai tempestosi mari del Pacifico, il nuovo timoniere Xi dovrà essere in grado di navigare anche le acque interne, per evitare che eventuali improvvise correnti finiscano per provocare qualche burrasca.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Non solo Ucraina, non solo Russia. In un summit del G7 dominato dalla presenza di Volodymyr Zelensky e dal via libera di Washington all’invio di F-16 da paesi terzi, c’è stata anche tantissima Asia. A partire dalla sede del vertice, ovviamente, Hiroshima. Un messaggio potente, quello arrivato dal Giappone, con la scelta della città simbolo del disastro atomico. “Accogliere Zelensky a Hiroshima è stata un’opportunità per inviare un messaggio urgente: la minaccia delle armi nucleari e il loro uso non devono essere permessi”, ha dichiarato in conclusione del summit il padrone di casa Fumio Kishida, che sembra destinato a utilizzare il successo dell’evento come volano per chiedere elezioni anticipate e cementare il consenso. D’altronde, il Giappone può sostenere di essere riuscito a portare a parlare col blocco occidentale anche esponenti del cosiddetto “sud globale”.
Particolare attenzione all’Asia, con la presenza di diversi paesi tra gli invitati. Si è parlato soprattutto di India e Corea del Sud. Il premier Narendra Modi ha avuto il suo primo incontro con Zelensky dall’inizio della guerra. Colloquio da cui è derivato l’impegno a sforzarsi di arrivare a una soluzione del conflitto, ma senza dettagli o passi avanti significativi. C’è chi spera in una mediazione dell’India, magari in concomitanza del summit del G20 di Nuova Delhi di settembre, visto che il blocco G7 riconosce molto di più (anche per calcoli strategici) la neutralità indiana rispetto a quella cinese. L’India teme l’allineamento tra Cina e Russia, per questo sembra in parte disposta a dare quantomeno segnali formali di maggiore disponibilità agli Usa. Da Hiroshima, Modi ha peraltro annunciato che il prossimo summit del Quad si terrà proprio in India nel 2024, dopo che quello di Sydney è stato cancellato per l’assenza di Joe Biden.
La presenza del presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol è invece stata funzionale a suggellare il riavvio dei rapporti tra Tokyo e Seul. Significativo in tal senso che Biden abbia invitato sia Yoon che Kishida alla Casa Bianca per un trilaterale, dopo che i due leader negli scorsi mesi hanno già visitato Washington siglando importanti accordi.
Se n’è parlato meno, ma è molto rilevante anche la presenza di Indonesia e soprattutto Vietnam. Hanoi è uno degli anelli chiave dell’ecosistema strategico dell’Asia-Pacifico. Il Giappone sta puntando molto sul rafforzamento dei rapporti col paese del Sud-Est asiatico, così come gli Stati Uniti. Il premier Pham Minh Chinh ha incontrato i vari leader del G7 e lo stesso Zelensky, mentre si parla con insistenza di un possibile viaggio a Washington del segretario del Partito comunista vietnamita Nguyen Phu Trong.
Ciò ovviamente non vuol dire che i vari paesi presenti al G7 siano improvvisamente disponibili a una sorta di arruolamento anti russo o anti cinese. Ma proprio il rafforzamento di questa architettura asiatica di rapporti regionali può essere uno dei motivi (impliciti) di insoddisfazione della Cina, il vero elefante (o meglio dragone) nella stanza di Hiroshima. Il comunicato congiunto dei leader del G7 critica implicitamente Pechino sulla coercizione economica ed esplicitamente sui dossier politici. Il governo cinese ha denunciato “diffamazioni” sulle varie questioni Tibet, Xinjiang e mar Cinese meridionale. Fastidio anche per il passaggio su Taiwan, in cui il G7 sottolinea che la pace e la stabilità sullo Stretto sono “indispensabili per sicurezza e prosperità della comunità globale”. L’internazionalizzazione della questione è quanto più dà fastidio a Xi Jinping, che il G7 prova comunque a rassicurare sottolineando che “non ci sono cambi di posizione dei paesi membri sulla politica della unica Cina”. Pechino lamenta però la mancata opposizione esplicita all’indipendenza di Taiwan. Lunedì 22 maggio è stato convocato l’ambasciatore giapponese per esprimere proteste.
A margine e a conclusione dei lavori i toni sono stati più concilianti. Sia Europa che Stati Uniti hanno ribadito che l’obiettivo non è contenere l’ascesa cinese, né il disaccoppiamento economico. Francia e Germania sottolineano che Washington condivide la formula di “riduzione del rischio” coniata dall’Unione europea. Aumenteranno dunque controlli e restrizioni, ma solo su tecnologia e i settori più sensibili. Sul resto, si intende mantenere o rafforzare i rapporti. Lo stesso Biden, prima di lasciare il Giappone, ha auspicato un prossimo disgelo tra le due potenze.
Ma i media di stato cinesi denunciano il passaggio da “disaccoppiamento” e “riduzione del rischio” come una sorta di “decoupling mascherato”. Mentre la portavoce del ministro degli Esteri Mao Ning ha messo in dubbio la credibilità degli Usa di voler riavviare i rapporti, visto il perdurare delle sanzioni economiche e commerciali nei confronti di varie entità cinesi. Sulla coercizione economica, la Cina ha peraltro replicato con un lungo documento in cui gira le accuse proprio in direzione degli Stati Uniti, citando i numerosi casi di embargo verso paesi terzi dal Dopoguerra a oggi, nonché le più restrizioni alle esportazioni. Il tutto mentre la stessa Cina ha vietato agli operatori di infrastrutture chiave l’uso di prodotti di Micron, il colosso americano dei microchip.
Sul fronte diplomatico, la Cina sostiene che le proposte del G7 sulla guerra in Ucraina non siano credibili. Nella retorica di Pechino, Usa e occidente non tengono in considerazione le “legittime preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi”, in questo caso della Russia. Il che renderebbe, sempre secondo la Cina, non affidabile qualsiasi proposta di pace in arrivo dalla Casa Bianca o dai suoi alleati più stretti.
Insomma, se davvero sarà disgelo il lavoro da fare per ottenerlo è parecchio.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Non è stata un’onda, ma uno tsunami, quello che si è abbattuto sul mondo politico thailandese. Le elezioni generali di domenica 14 maggio hanno registrato un risultato davvero storico. Non solo ha vinto l’opposizione, ma ha stravinto. Ed è clamoroso che per la prima volta dopo diverse tornate elettorali ad affermarsi alle urne non sia stato il Pheu Thai della celeberrima dinastia politica dei Shinawatra, ma Move Forward, un partito nato sull’onda delle proteste giovanili degli ultimi anni ma che ha saputo catalizzare evidentemente le preferenze della maggior parte di coloro che vogliono il cambiamento. E i thailandesi hanno dimostrato di volerlo eccome, quel cambiamento.
Secondo i risultati preliminari diffusi dalla commissione elettorale, il Move Forward è in vantaggio in 113 dei 400 seggi in cui vengono eletti direttamente i membri del Parlamento, rispetto ai 112 seggi del Pheu Thai, che dal 2001 ha vinto cinque elezioni generali consecutive, ma ogni volta è stato costretto a lasciare il potere. O con le norme, o con i golpe militari del 2006 e del 2014 che hanno colpito gli ex premier Thaksin Shinawatra prima e la sorella Yingluck poi. Stavolta sembrava destinata a primeggiare la figlia e nipote dei due, Paetongtarn, che aveva ricevuto un’ulteriore spinta nei sondaggi dopo essere diventata mamma una decina di giorni prima del voto.
E invece a vincere, contro tutte le attese, è stato il Move Forward del candidato premier Pita Limjaroenrat. Il risultato deriva in parte da un’ondata di entusiasmo tra i giovani per il suo programma liberale e le promesse di cambiamenti audaci, tra cui la rottura dei monopoli e la riforma della legge sulla lesa maestà. La legge punisce gli insulti percepiti con una pena fino a 15 anni di carcere e centinaia di persone sono accusate, alcune delle quali sono in detenzione preventiva. Ma a premiare Move Forward anche presso le generazioni più adulte è stata una linea chiara e priva di compromessi, critica sia dei militari sia della monarchia. A dir poco significativo, un segnale che i thailandesi hanno veramente voglia di un’aria nuova. Così il partito è riuscito a catalizzare consensi che tradizionalmente sarebbero andati al Pheu Thai, considerato più ambiguo su alcuni punti. Alla domanda se avrebbe appoggiato la proposta di riforma del reato di lesa maestà, per esempio, il partito ha risposto che se ne sarebbe potuto discutere in parlamento. Il risultato è stato incredibile. A partire dalla capitale Bangkok, dove sono stati conquistati tutti e 33 i seggi a disposizione. A dimostrazione della connessione stabilita tra il partito e la dinamicità culturale della metropoli.
Totale insuccesso per i principali partiti della coalizione di governo uscente, che hanno ottenuto complessivamente 151 seggi elettorali. Solo 23 per il nuovo partito United Thai Nation del Primo ministro Prayuth Chan-ocha, che ha sfidato la costituzione costruendo una forza politica tutta sua e disperdendo il voto pro establishment. Leggermente meglio Palang Pracharath, guidato dal vice Primo ministro Prawit Wongsuwan, che ha ottenuto 39 seggi. Al terzo posto con 67 seggi il Bhumjaithai, che ha basato buona parte della sua campagna elettorale promettendo la depenalizzazione dell’utilizzo di cannabis. I Democratici hanno invece totalizzato 22 seggi.
L’indicazione è quella di una coalizione tra Move Forward e Pheu Thai. Limjaroenrat ha già proposto un’alleanza di sei partiti che dovrebbe ottenere 309 seggi. Ne mancano però ancora diversi per raggiungere i 376 necessari per neutralizzare il ruolo del Senato nell’individuazione del premier. Anche il Pheu Thai ha dato garanzie sull’alleanza. Shinawatra e l’altro leader del partito, Chonlanan Srikaew, hanno garantito che il partito “non ha intenzione di formare un altro governo” che non sia quello col Move Forward.
Ma la strada è tutt’altro che spianata. Oltre ai 500 membri della Camera, la costituzione prevede che 250 senatori di nomina militare siano inclusi nel voto per il primo ministro. Di conseguenza, qualsiasi blocco di coalizione avrebbe appunto bisogno di almeno 376 seggi alla Camera bassa per nominare un primo ministro senza che il Senato influisca sul risultato. E la storia insegna che non è scontato che la Camera alta del Parlamento thailandese ascolti le indicazioni arrivate dalle urne. Basti pensare al 2019, quando il Senato ha votato all’unanimità per Prayuth, nonostante il suo partito abbia ottenuto molti meno seggi rispetto al Pheu Thai. Il Primo ministro è poi riuscito a mettere insieme una coalizione di 19 partiti diversi che lo ha mantenuto in carica per quattro anni.
La sensazione è che l’establishment non escluda un compromesso col Pheu Thai. Le insistenti voci sul possibile rientro dall’esilio di Thaksin Shinawatra nei prossimi mesi lasciano intuire che le due parti starebbero in qualche modo dialogando. La piattaforma populista promessa dalla figlia dell’ex leader, incardinata sulla promessa di raddoppiare il salario minimo nel giro di qualche anno, non contiene gli elementi anti sistema della linea di Move Forward.
Proprio l’assenza di compromessi nelle proposte del partito arrivato al primo posto potrebbe rappresentare il principale ostacolo alla formazione di un’alleanza vasta e in grado di arrivare ai 376 seggi, vista la ritrosia della maggior parte dei partiti di oltrepassare la linea rossa che rischia di proiettare nella schiera degli “anti monarchici”. Ancora un sostanziale tabù, soprattutto per le forze politiche di governo.
Da non trascurare, tra l’altro, possibili azioni normative o legali. La Commissione elettorale ha ora 60 giorni di tempo per approvare o respingere i risultati delle elezioni, il 95% dei quali deve essere certificato per l’insediamento del Parlamento. L’assegnazione dei seggi alle liste di partito richiederà più tempo. Nel frattempo, i partiti probabilmente si scambieranno denunce di violazioni elettorali. In base alle elezioni del 2019, alcuni candidati potrebbero essere squalificati e i partiti potrebbero essere sciolti. Così era accaduto a Future Forward. Proprio lo scioglimento di quella forza politica aveva costituito uno degli ingredienti principali delle grandi proteste del 2020 e 2021 da cui ha preso origine Move Forward. In molti immaginano una possibile replica. La differenza, rispetto ad allora, è che il partito in questione è arrivato primo. Sommando il tradizionale forte consenso per il Pheu Thai, la popolazione ha parlato chiaro, molto più di tante altre volte. Il che mette in una posizione particolarmente scomoda i militari, costretti al compromesso per evitare il muro contro muro che porterebbe con ogni probabilità a nuove grandi proteste e tensioni.
Le elezioni in Thailandia sono appena finite e il popolo ha indicato con decisione la strada del cambiamento. Ora inizia un lungo e tortuoso periodo di incertezza. Non è scontato che la voce dei thailandesi venga ascoltata, ma di certo si è levata molto forte.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
“La Cina ha già vinto la battaglia sull’intelligenza artificiale. Non abbiamo alcuna possibilità di combattere contro la Cina tra 15 o 20 anni. In questo momento, è già un affare fatto; a mio parere, è già finita”. Ottobre 2021. A pronunciare queste parole al Financial Times è Nicolas Chaillan, il primo responsabile del software del Pentagono che si era dimesso pochi giorni prima per protestare contro la lentezza della trasformazione tecnologica delle forze armate statunitensi. Una presa di posizione illuminante su quanto venga ritenuto strategico il ruolo dell’intelligenza artificiale nella competizione tra Stati Uniti e Cina. E stando alle previsioni di Chaillan ma anche di diversi servizi di intelligence occidentali, Pechino è destinata a dominare molte delle principali tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale, la biologia sintetica e la genetica, entro un decennio o poco più. Anche per questo Washington sta reagendo con vigore, per provare a stoppare o rallentare questa ascesa.
La Cina è già il primo paese al mondo per numero di brevetti di intelligenza artificiale: tra il 2011 e il 2020 sono state depositate quasi 390 mila domande, pari al 74,7% del totale. Non si tratta di una leadership solo quantitativa ma anche qualitativa. Nel 2020, per la prima volta, gli articoli accademici cinesi sono stati più citati di quelli americani nelle pubblicazioni scientifiche mondiali di settore. Si stima che l’industria cinese dell’AI abbia un valore di oltre 150 miliardi di dollari e il governo si è impegnato a investire più di 150 miliardi di dollari in industrie legate all’AI entro il 2030.
Alla base di questa tendenza ci sono diversi punti di forza. Il primo è quello che riguarda la sua grande popolazione e le sue vaste risorse di dati. Con oltre 1,4 miliardi di persone, la Cina dispone di un enorme mercato per i prodotti e i servizi di AI, che può essere sfruttato per promuovere l’innovazione e la crescita. Inoltre, le vaste risorse di dati della Cina, combinate con le norme sulla privacy relativamente rilassate, offrono alle aziende cinesi un vantaggio significativo nello sviluppo di modelli e applicazioni. Non solo. Come accade in altri settori, l’industria AI cinese è caratterizzata da un alto grado di integrazione tra governo, industria e università, che ha permesso un progresso più rapido.
I piani di sviluppo messi in campo dal Partito comunista cinese sono notevoli. Dopo aver lanciato il piano Made in China 2025, che conteneva in nuce le ambizioni di autosufficienza tecnologica che sono ora invece state rese esplicite, nel 2017 il governo cinese ha pubblicato il piano nazionale di sviluppo dell’AI. Obiettivo dichiarato: diventare un leader mondiale dell’AI entro il 2030. Nel 2019, il Ministero della Scienza e della Tecnologia ha annunciato un piano per investire 1,4 miliardi di dollari nella ricerca di base sull’AI fino al 2024. Secondo un rapporto previsionale della società di consulenza IDC dello scorso anno, gli investimenti cinesi nell’AI dovrebbero raggiungere 26,69 miliardi di dollari nel 2026, pari a circa l’8,9% degli investimenti globali, diventando così la seconda destinazione di investimento al mondo.
Le applicazioni sono entrate in maniera vasta in diversi settori chiave individuati dai documenti governativi: sanità, trasporti e finanza, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza, la produttività e l’innovazione. Pechino persegue quella che gli esperti chiamano strategia di “intelligentizzazione”, che prevede l’integrazione delle tecnologie dell’AI in tutti gli aspetti della società, compresi governo, industria e vita quotidiana. Basti vedere l’avanzamento dei progetti su veicoli a guida autonoma e smart cities, sulle quali Pechino ha negli anni scorsi già fissato un punto di riferimento.
Ma c’è ovviamente anche un imponente versante di applicazione in campo militare. La Cina ha investito molto nello sviluppo di veicoli senza pilota gestibili attraverso tecnologie AI, come droni e veicoli terrestri senza pilota. Questi sistemi d’arma autonomi sono progettati per svolgere una serie di compiti militari, dalla ricognizione e sorveglianza alle operazioni di combattimento. Un’altra area in cui la Cina sta applicando l’AI alle forze armate è lo sviluppo di capacità di guerra informatica. È considerato molto importante lo sviluppo di strumenti basati sull’intelligenza artificiale per lo spionaggio, l’hacking e il sabotaggio informatico. Oltre a questi settori, la Cina sta applicando l’AI anche alla logistica militare e ai processi decisionali. Le forze armate cinesi utilizzano già le tecnologie AI per ottimizzare le catene di approvvigionamento, tracciare le attrezzature e pianificare le operazioni. Ma anche per analizzare i dati provenienti da diverse fonti, tra cui immagini satellitari, social media e altre fonti di intelligence aperte, e per supportare i processi decisionali.
Dall’altra parte, gli Stati Uniti provano ad arrestare il processo e a mantenere una leadership che già nel corso del 2023 appare condivisa. Anzi, è probabile che già ora la Cina sia in vantaggio nell’implementazione delle tecnologie in prodotti e servizi. Come ha spiegato recentemente l’esperto Kaifu Lee, gli Stati Uniti rimarranno all’avanguardia nella ricerca sull’AI. Ma la Cina guiderà l’implementazione di queste tecnologie.
Si stima che il settore dell’intelligenza artificiale negli Stati Uniti abbia un valore di oltre 300 miliardi di dollari, con aziende come Google, Microsoft e Amazon in testa. La reazione “anti cinese” di Washington è sia propositiva che in qualche modo confrontazionale. Seguendo la prima logica, sono aumentati gli investimenti. Nel 2020, la National Science Foundation (NSF) statunitense ha annunciato un finanziamento di 140 milioni di dollari per gli istituti di ricerca sull’AI. Nel 2019, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha annunciato un investimento di 2 miliardi di dollari nell’AI, con l’obiettivo di mantenere la superiorità militare. Investimenti ai quali ne sono seguiti altri negli anni successivi. Seguendo invece una logica di confronto, gli Stati Uniti hanno imposto restrizioni all’esportazione di tecnologie di intelligenza artificiale in Cina, aumentando sul fronte interno il controllo delle aziende tecnologiche cinesi che operano negli Stati Uniti, esprimendo timori sulla privacy dei dati e sulla sicurezza nazionale. Prima del caso di attualità legato a TikTok, era già capitato a diverse altre aziende cinesi finite nella lista nera delle “entità” che rappresenterebbero un pericolo alla sicurezza nazionale statunitense.
Come accade anche sul fronte dei semiconduttori, oltre alle restrizioni sulle singole aziende il governo statunitense ha attuato anche politiche più ampie volte a limitare l’esportazione di tecnologie di AI in Cina. Nel mirino, soprattutto quelle riguardanti il riconoscimento facciale e la sorveglianza. In base alle regole, le aziende statunitensi devono ora ottenere una licenza per esportare determinati tipi di software di AI in Cina. Allo stesso tempo, in un altro parallelo con quanto accade sui microchip, la Casa Bianca ha inoltre esortato altri paesi a limitare le esportazioni di tecnologie AI verso la Cina. Nel 2019, il governo statunitense ha rilasciato una dichiarazione congiunta con diversi altri paesi, tra cui Giappone e Australia, chiedendo reti 5G “sicure e resilienti”. Il pressing sulle infrastrutture di rete di Huawei si è fatto incessante a ogni latitudine, Italia compresa. Ora questa manovra continua su semiconduttori e, appunto, intelligenza artificiale.
Non è certo un caso che la Cina stia accelerando sulla strada del perseguimento dell’autosufficienza tecnologica. I segnali in tal senso sono stati moltissimi, sia dal XX Congresso del Partito comunista dello scorso ottobre sia dalle “due sessioni” legislative di marzo. Il forte senso di urgenza della missione arriva anche dalle nomine: sia in ambito partitico che statale sono stati promossi tantissimi tecnocrati. Funzionari con esperienza in settori a cui Xi Jinping assegna grande rilevanza per lo sviluppo tecnologico e strategico della Cina. Ci sono tanti componenti di quel “cosmos club” che ha vissuto un’ascesa esponenziale durante l’era di Xi. Provenienti dai programmi di difesa e dai programmi spaziali, si tratta di figure in sintonia con l’ambizione di Xi di trasformare la Cina in una superpotenza tecnologica. La presenza di un numero sempre maggiore di tecnocrati negli organi decisionali del Partito può cambiare i connotati dell’élite politica cinese e rafforzare ulteriormente la già forte fusione delle industrie civili e militari.
Ci sono poi, ovviamente, gli investimenti. Nell’annunciare il budget per il 2023, l’aumento più deciso dei capitoli di spesa è, in proporzione, quello sui finanziamenti speciali a sostegno dello sviluppo dei semiconduttori e di altre industrie strategiche: una crescita quasi del 50%. Secondo Reuters, è previsto un ulteriore maxi pacchetto da 143 miliardi di dollari per microchip e intelligenza artificiale. La necessità di perseguire una complicata (e forse utopistica) autosufficienza tecnologica ha permeato tutti i discorsi più recenti di Xi. In tale direzione va anche la ristrutturazione del Ministero di Scienza e Tecnologia. Come si prevedeva sin dalla conclusione del secondo Plenum del XX Comitato centrale del Partito, è stata approntata una riforma profonda che investe soprattutto i settori scientifico e tecnologico con l’obiettivo di razionalizzare la gestione delle risorse e snellire la struttura normativa. E, ovviamente, consente al governo di accentrare e velocizzare il processo decisionale su tutti i settori ritenuti prioritari. A partire da quello che investe la contesa tecnologica su intelligenza artificiale e non solo.
C’è ancora un elemento sul quale la Cina è però in ritardo rispetto agli Usa: la ricerca di base. L’insegnamento e la ricerca in Cina non possono ancora competere con gli stipendi del settore privato, né le università possono attrarre talenti accademici di alto livello dall’estero. Anche per questo, negli obiettivi del terzo mandato di Xi c’è quello non solo di spendere e lanciare nuovi progetti, ma anche costruire una rete efficace e capillare di formazione e ricerca dei talenti. Il governo non deve solo aumentare gli investimenti, ma anche dirigere come un’orchestra le altre componenti della società civile come gli istituti di ricerca, le università e le imprese private: tutti chiamati a collaborare in maniera stretta e sotto la guida della sfera politica.
Proprio nelle scorse settimane, è arrivata l’ennesima accelerazione con il lancio di un nuovo piano chiamato “Intelligenza artificiale per la scienza”. Il progetto si concentrerà sui principali problemi delle discipline di base e sulle esigenze di ricerca nei settori chiave della scienza e della tecnologia, come lo sviluppo di farmaci, la ricerca genetica e l’allevamento biologico, allo scopo di favorire l’apertura e la convergenza delle risorse e potenziare le capacità di innovazione.
Mentre infuria la contesa tra le due potenze, sullo sfondo emerge un altro attore sempre più in grado di competere con gli innovatori cinesi e statunitensi. Si tratta della Corea del Sud, che a sua volta si è posta l’obiettivo di diventare un leader mondiale nell’AI entro il 2030. Uno dei principali punti di forza di Seul è l’avanzata infrastruttura di telecomunicazioni e gli alti livelli di penetrazione di Internet. Una solida base per lo sviluppo e la diffusione di tecnologie basate sull’AI, come l’Internet delle cose e i veicoli autonomi. Il governo ha investito oltre 2 miliardi di dollari nella ricerca e nello sviluppo dell’AI negli ultimi 4 anni. Sono stati poi istituiti il Korea AI Research Institute e il Korea Institute for Artificial Intelligence per coordinare e promuovere la ricerca e lo sviluppo. Anche il settore privato è stato coinvolto attivamente: colossi come Samsung, LG e Naver, che hanno investito molto nella ricerca e nello sviluppo dell’AI. Queste aziende si stanno concentrando sullo sviluppo di applicazioni e servizi basati sull’AI in settori quali la sanità, la finanza e la vendita al dettaglio. Oltre a queste grandi aziende, c’è anche una galassia in espansione di startup attive nel settore. La Corea del Sud è una potenza anche nello sviluppo della robotica alimentata dall’intelligenza artificiale, in particolare nel campo dei robot di servizio, che si prevede svolgeranno un ruolo importante nell’invecchiamento della popolazione.
Finora, la relazione tra Seul e Pechino è stata non solo di competizione ma anche di partnership. I due paesi asiatici hanno collaborato a una serie di iniziative sull’AI. Ad esempio, il Korea Advanced Institute of Science and Technology e la cinese Tsinghua University sono legate da un memorandum d’intesa per collaborare nella ricerca e nello sviluppo dell’AI, con particolare attenzione ad aree quali l’elaborazione del linguaggio naturale, la computer vision e la robotica. Inoltre, diverse aziende coreane, come Samsung e SK Telecom, hanno aperto centri di ricerca e sviluppo nella Repubblica Popolare, avviando diverse collaborazioni con aziende e ricercatori cinesi.
Visti però gli ultimi sviluppi politici, geopolitici e strategici, è altamente probabile che la relazione assuma tratti di maggiore rivalità. Con l’arrivo del Presidente conservatore Yoon Suk-yeol, ma soprattutto dopo la recente escalation di tensioni con la Corea del Nord e gli effetti collaterali della guerra in Ucraina, Seul ha molto rafforzato i rapporti con gli Usa. Sia sul fronte militare sia su quello tecnologico, che ormai sono ritenuti entrambi cruciali e sempre più intrecciati. Nonostante le perplessità, la Corea del Sud è entrata nella cosiddetta Chip 4, un’alleanza sulla produzione di semiconduttori che include anche Giappone e Taiwan, con l’obiettivo di ridurre l’accesso cinese alle tecnologie più avanzate. Lo stesso sta accadendo anche sul fronte dell’intelligenza artificiale. D’altronde, la tecnologia non è solo tecnologia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Fino a due mesi fa ci avrebbero creduti in pochi. Un presidente sudcoreano a Tokyo. E un premier giapponese a Seul. Il tutto nel giro di meno di due mesi. E invece è successo, in un cerchio che si è completato con la visita di Fumio Kishida in Corea del Sud tra domenica e lunedì, dopo il precedente viaggio di Yoon Suk-yeol in Giappone a metà marzo. Una doppia visita che serve a rilanciare i rapporti tra i due ex litiganti asiatici, per la gioia degli Stati Uniti che vedono riallinearsi i due principali alleati regionali.
L’iniziativa, accelerata dalle conseguenze della guerra in Ucraina, nasce dal passo di Yoon di abbandonare la pretesa di risarcimenti per le vittime di abusi e lavori forzati durante l’era della dominazione coloniale nipponica. Una ferita sempre aperta che ha compromesso negli scorsi anni le relazioni bilaterali. “Il mio cuore sanguina per le sofferenze dei sudcoreani”, ha detto Kishida durante la conferenza stampa che ha fatto seguito al vertice con Yoon a Seul. Ma non sono arrivate scuse esplicite. “La nostra posizione è quella di mantenere tutte le nostre precedenti posizioni sul passato coloniale, compresa la dichiarazione del 1998”, ha detto Kishida, riferendosi a quella che viene accettata come una guida per legami più amichevoli che discute la “genuina riflessione del Giappone sul suo passato coloniale e le sue scuse sincere”.
Il presidente Yoon ha ribadito che Seul non “pretenderà unilateralmente” che Tokyo si scusi per le violazioni dei diritti, riferendosi alla decisione presa il 6 marzo scorso che prevede il risarcimento delle vittime coreane senza coinvolgere le aziende giapponesi ritenute responsabili di tali danni da una sentenza del tribunale coreano del 2018. Alle rispettive opposizioni interne non basta. Il Partito democratico sudcoreano protesta per quella che ritiene una “umiliante sottomissione” di Yoon di fronte al Giappone. Mentre le vittime annunciano nuovi ricorsi legali. Ai conservatori giapponesi invece non piace la parziale concessione di Kishida. Da una parte e dall’altra esistono dunque ancora delle resistenze al rilancio totale dei rapporti. Ma entrambi i leader hanno chiarito che “la situazione internazionale rende indispensabile la cooperazione tra Giappone e Corea del Sud”.
Nel vertice di domenica sono stati ribaditi gli accordi che erano già stati raggiungi a marzo a Tokyo. Tokyo ha revocato le restrizioni alle esportazioni utili alla produzione di microchip, settore cruciale dell’economia sudcoreana. Seul ha ritirato il reclamo del 2019 all’Organizzazione mondiale del commercio. Parola fine, dunque, su quasi 4 anni di guerra commerciale. Riavviato l’accordo per la condivisione delle informazioni di intelligence, mentre aumenteranno le esercitazioni militari congiunte. Kishida ha anche accettato di permettere a una delegazione di esperti nucleari sudcoreani di visitare l’impianto di Fukushima prima del rilascio delle acque considerate radioattive.
Due i punti particolarmente sensibili tra quelli toccati dai due leader. Il primo è il rafforzamento della catena di approvvigionamento dei semiconduttori, settore ritenuto cruciale nell’ambito della contesa tecnologica tra Stati Uniti e Cina. Il Giappone si è già allineato alle restrizioni e ai controlli alle esportazioni imposti da Washington, la Corea del Sud è stata invece sinora più scettica. Il secondo punto è quello della cooperazione militare. Yoon ha aperto al coinvolgimento del Giappone nell’accordo di cooperazione sul nucleare sottoscritto con Biden durante la recente visita di Stato alla Casa Bianca.
Proprio quella visita e i suoi riferimenti alla Cina e allo Stretto di Taiwan continuano a creare problemi nelle relazioni tra Seul e Pechino. Il Global Times, tabloid nazionalista cinese, si è scagliato contro l’ambasciata sudcoreana che ha inviato una lettera al quotidiano criticando la sua copertura della visita del presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol negli Stati Uniti. In un editoriale di lunedì, intitolato “Questo giornale ha qualcosa da dire sulla ‘protesta’ dell’ambasciata della Corea del Sud”, il Global Times si è definito indignato. La Cina ha anche avvisato Washington e Seul di non “provocare un confronto” con Kim Jong-un. Avvisaglia di nuove tensioni, visto che Pechino ha già fatto capire che come con la Russia in Ucraina ritiene che gli Usa stiano “gettando benzina sul fuoco” pregiudicando le “legittime preoccupazioni di sicurezza” di Pyongyang.
Il rafforzamento dei legami trilaterali Usa-Giappone-Corea del Sud rischia di provocare reazioni da parte della Corea del Nord, che da ormai un mese non risponde alle due telefonate quotidiane di collegamento, prassi in vigore sin dall’armistizio. E potrebbero presto arrivare altri passi sull’asse Washington-Tokyo-Seul. Kishida ha invitato Yoon a Hiroshima per un trilaterale con Biden a margine del summit del G7 ospitato dal Giappone tra il 19 e il 21 maggio.
Manovre che infastidiscono anche Mosca, soprattutto dopo che qualche settimana fa Yoon ha aperto all’invio diretto di aiuti militari all’Ucraina. Il ruolo della Corea del sud come esportatore nel settore della difesa è aumentato in modo esponenziale negli ultimi anni. Nel 2022 ha superato i 10 miliardi di dollari, più del triplo della cifra raccolta solo due anni prima.
Al di là dell’invio di armi o meno, ciò che è certo è che la guerra e il crescente allineamento (quantomeno a livello di percezione) tra Russia e Cina ha portato i due ex litiganti Giappone e Corea del Sud a mettere da parte (almeno per ora) le questioni storiche per rilanciare i rapporti. Kishida e Yoon vogliono persino dare un’immagine da amici. Domenica dopo il summit, hanno cenato insieme, con tanto di bevuta del “bomb shot” sudcoreano. Il Poktanju, un mix tra birra e soju, è stato reso celebre anche a livello globale dal successo dei K-Drama. Chissà se basterà a lenire in modo definitivo le antiche ferite. Senza aprirne di nuove.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Cruciale per l’economia, visto che attrae sempre più investimenti e linee produttive anche di grandi colossi tecnologici che tentano di diversificare l’esposizione alla Cina. Fondamentale anche a livello diplomatico, vista la sua centralità all’interno dell’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico) e il ruolo che può giocare tra India, Giappone e soprattutto Cina, con cui ha ottimi rapporti commerciali e politici ma anche una disputa territoriale mai risolta sul mar Cinese meridionale.
Il Vietnam è sempre più al centro delle attenzioni degli Stati Uniti, che stanno cercando di migliorare i rapporti con un attore importante sullo scenario a cui tengono di più, quello dell’Asia-Pacifico.
Non a caso nei giorni scorsi si è svolta un’importante visita di Antony Blinken ad Hanoi. Un viaggio durato quasi 48 ore prima che il segretario di Stato americano si trasferisse a Nagano per la riunione dei ministri degli Esteri del G7, arrivato in un contesto nel quale Washington sta moltiplicando le manovre di avvicinamento.
Nelle scorse settimane una nave statunitense è transitata per le isole Paracelso, contese tra Vietnam e Cina, proprio mentre Lockheed Martin e Boeing si trovavano con altre aziende americane nel paese del Sud-Est asiatico per negoziare la vendita di droni ed elicotteri. Non solo. Il 29 marzo, Joe Biden ha avuto un colloquio telefonico col segretario del Partito comunista Nguyen Phu Trong. Mossa non così usuale, visto che di solito il Presidente americano parla con l’omologo vietnamita. Interessante anche il tempismo, visto che il colloquio è avvenuto in concomitanza del summit per la democrazia organizzato dalla Casa Bianca. I più maligni hanno sottolineato che un sistema politico non certo democratico possa alla fine andare bene a Biden qualora questo rientri in una sua strategia o calcolo. Come già accade peraltro con l’India.
La visita di Blinken è servita a porre le basi per l’elevazione dei rapporti, che dovrebbe avvenire a luglio. Dopo essere arrivato ad Hanoi venerdì, Blinken ha incontrato sabato il Segretario Generale del Partito Comunista Nguyen Phu Trong, il Primo Ministro Pham Minh Chinh e il Ministro degli Esteri Bui Thanh Son. Ha inoltre partecipato alla cerimonia di posa della prima pietra della nuova ambasciata statunitense. La sede diplomatica a stelle e strisce avrà otto piani, testimoniando anche plasticamente l’importanza accresciuta che il Vietnam ricopre per gli Usa. Il nuovo edificio sarà una delle ambasciate più costose degli Stati Uniti nel mondo.
“Dal nostro punto di vista, pensiamo che questo sia un momento propizio per elevare la nostra partnership esistente”, ha detto Blinken. “Abbiamo incaricato le agenzie competenti di coordinarsi con gli Stati Uniti per considerare, dire e fare, nello spirito di elevare il partenariato tra i due Paesi a nuovi livelli”, ha risposto Chin.
Dalla firma del partenariato globale Usa-Vietnam nel 2013, i due paesi hanno ampiamente aumentato i legami politici, economici e di difesa. Blinken ha dichiarato che gli Stati Uniti stanno ultimando il trasferimento di un terzo cutter della guardia costiera al Vietnam, che andrà ad aggiungersi alle 24 motovedette statunitensi fornite dal 2016.
Ma ora si vuole fare un passo in più. L’idea degli Stati Uniti è quella di elevare i rapporti fino a un partenariato di sicurezza, aumentando i rapporti in materia di difesa. Una possibilità che sembra diventata concreta negli ultimi tempi, vista la difficoltà del Vietnam a reperire importazioni di dispositivi di difesa e componenti militari dalla Russia, il tradizionale fornitore di Hanoi coinvolto nella guerra in Ucraina. Secondo gli esperti, la dipendenza del Vietnam dagli armamenti russi obsoleti sta erodendo la preparazione militare del Paese. E così gli Stati Uniti, in qualità di maggiore esportatore di armi al mondo, vorrebbero conquistare una quota maggiore del mercato della difesa vietnamita e rafforzare così i legami con un attore chiave dello scenario indo-pacifico, estendendo l’influenza che nel Sud-Est asiatico è stata di recente riaffermata con le Filippine tra l’accordo di accesso a 4 nuove basi militari di Manila e le vaste esercitazioni congiunte in svolgimento sino al 28 aprile.
Se l’elevazione dei rapporti diplomatici è vista favorevolmente e rappresenta soprattutto una mossa simbolica, quella sul fronte della sicurezza incontra maggiori resistenze ad Hanoi.
Il Vietnam sa che la Cina interpreterebbe la decisione come una mossa a lei ostile. E così Hanoi sta provando a capire come ottenere quello che vuole anche sul fronte della difesa senza però legarsi ad accordi o iniziative che possano far sembrare che si stia posizionando all’interno di una contesa della quale non vuole fare parte.
La presenza americana è già sempre più evidente a livello commerciale. Molte grandi imprese statunitensi stanno espandendo la loro presenza in Vietnam, a partire dalla Apple che qui fabbricherà almeno in parte i suoi MacBook. Un segnale fondamentale, che chiarisce come a spostarsi non sono solo industrie manifatturiere di medio basso valore, ma anche colossi dell’alta tecnologia.
Il passaggio simbolicamente più significativo dei prossimi mesi potrebbe però essere la visita a Washington di Trong. Blinken ha ribadito l’invito già fatto al telefono da Biden e la diplomazia vietnamita è al lavoro per trovare l’incastro giusto. Ospitare Trong, che nel 2021 ha iniziato uno storico terzo mandato in anticipo di quasi due anni su Xi Jinping, sarebbe un segnale indiretto anche alla Cina: gli Usa possono accettare anche sistemi politici molto diversi dal loro, qualora l’interlocutore non sia un contendente per la leadership globale.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Alla fine è successo. La Cina ha lanciato nuove esercitazioni militari intorno a Taiwan. Quasi 48 ore di silenzio, dopo l’incontro in California fra la presidente taiwanese Tsai Ing-wen e lo speaker del Congresso degli Stati Uniti, Kevin McCarthy. Poi, appena ripartito da Pechino il Presidente francese Emmanuel Macron, i motori di jet e navi da guerra dell’Esercito popolare di liberazione sono tornati a rombare. Eppure non è stato tutto come lo scorso agosto, dopo la visita a Taipei di Nancy Pelosi. Né il prima, né il durante. Il livello di retorica ultranazionalista sui media di Stato e social cinesi è stata molto meno aggressiva rispetto ad agosto 2022. Soprattutto, stavolta si è concentrata soprattutto sulla figura di Tsai o comunque del Partito progressista democratico (DPP). Contestualmente, è stato invece più volte citato il Kuomintang (KMT) come entità politica dialogante. A contribuire alla divisione, la storica visita in Cina continentale dell’ex Presidente Ma Ying-jeou.
Anche sul fronte militare sono numerose le differenze da quanto accaduto post Pelosi. Primo: la durata. Allora le esercitazioni erano durate 7 giorni, anche se inizialmente dovevano durare 4. Questa volta è stato invece mantenuto il termine annunciato di 3 giorni. Secondo: l’impatto concreto. A differenza della scorsa estate, nessuna conseguenza rilevante segnalata per le navigazioni commerciali e i voli di linea. Terzo: l’estensione delle operazioni, che stavolta è apparsa minore. Nell’ultimo giorno di test si è segnalato il numero più alto di incursioni di jet oltre la “linea mediana”, confine non ufficiale e non riconosciuto ma ampiamente rispettato sino all’anno scorso: 56 jet. Ad agosto, nel solo secondo giorno si erano registrati 68 aerei e anche 13 navi da guerra oltre la linea mediana. Comunque mai, almeno finora, entro le 12 miglia nautiche delle acque territoriali. Una ventina di imbarcazioni delle due marine si sono confrontate in concomitanza delle 24 miglia nautiche che segnano l’ingresso nelle acque contigue, ma senza atti provocatori.
A Taipei la vita è proseguita come sempre, con ancora maggiore tranquillità rispetto allo scorso agosto. Questo anche per il mancato lancio di missili. Lo scorso agosto c’erano state diverse polemiche sul governo per l’assenza di allarme in concomitanza del loro passaggio sullo Stretto. L’avviso era infatti arrivato dalle autorità giapponesi e non da quelle taiwanesi.
Fatto salvo tutto questo, c’è però da segnalare come vera novità l’impiego nei test della portaerei Shandong, che nei giorni scorsi è stata per la prima volta dislocata nel Pacifico orientale. Da qui è servita come trampolino per i test che hanno simulato attacchi contro “obiettivi chiave” sull’isola, nonché un parziale blocco navale sulla costa orientale. Un avviso anche o forse soprattutto agli Stati Uniti, visto che proprio quella sarebbe l’unica strada possibile per fornire aiuti a Taiwan dall’esterno.
Altra novità: la mobilitazione di aerei da combattimento da parte del Giappone in risposta alle manovre di Pechino, giunte in un’area compresa tra 230 e 430 chilometri a sud dell’isola giapponese di Miyako, a sud ovest Okinawa e a poca distanza dall’isola principale di Taiwan.
Insomma, la reazione di Xi Jinping è stata sì muscolare ma più circoscritta e meno imponente di quella dello scorso agosto. Hanno influito una serie di componenti. La prima, intrastretto: a gennaio 2024 ci sono le elezioni presidenziali taiwanesi e il leader cinese sa che mostrando troppo i muscoli rischia di aiutare il DPP, che si presenterà peraltro al voto con William Lai, attuale vicepresidente e figura più radicale di Tsai. La seconda, contingente: l’incontro fra Tsai e McCarthy è stato un parziale compromesso di Taipei e Washington, perché un incontro sull’isola sarebbe stato percepito come maggiormente provocatorio. Rispondere con un’ulteriore escalation avrebbe dato il messaggio che non serve a nulla provare a tenere un profilo più basso. La terza, globale: Xi sta proiettando un’immagine di grande stabilizzatore negli ultimi tempi. Dal rilancio dei rapporti tra Iran e Arabia Saudita favorito da Pechino alla manovra sulla guerra in Ucraina, il leader cinese non vuole compromettere la sua ampia manovra diplomatica e il riavvicinamento con l’Europa. I primi risultati li ha ottenuti con Macron, che dopo essere tornato a Parigi ha chiesto all’Europa di non diventare un “vassallo” degli Stati Uniti. Musica per le orecchie di Xi.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
“Alcune restrizioni sui semiconduttori imposte dagli Stati Uniti sono inaccettabili”. Oppure: “I divieti americani sono un favore per i produttori di chip cinesi e uno svantaggio per noi”. E ancora: “Sappiamo dall’inizio che le manovre degli Stati Uniti sui semiconduttori non sono giuste o buone per noi. Ma è difficile riuscire a dirlo esplicitamente”. Negli ultimi giorni è diventato esplicito qualcosa che era rimasto implicito per lungo tempo, anche se ben noto a chi ha contatti col settore: ai colossi taiwanesi dei microchip non piacciono per niente le iniziative della Casa Bianca sui semiconduttori.
Le tre dichiarazioni riportate all’inizio sono state rese tutte nel corso dell’ultima settimana, nell’ordine da: Mark Liu, amministratore delegato della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), Tsai Ming-kai (presidente di Mediatek) e infine Frank Huang, fondatore e capo di Powerchip (PSMC). Tutti e tre hanno parlato proprio mentre la presidente taiwanese Tsai Ing-wen si trova in viaggio in America centrale, con un doppio scalo negli Stati Uniti tra New York e la California.
La presa di posizione potenzialmente più rilevante è quella di Liu, visto che TSMC pesa da sola oltre il 50% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio. Non solo, il colosso di Hsinchu sta anche costruendo due stabilimenti in Arizona. Secondo quanto detto dal braccio destro del fondatore Morris Chang durante l’assemblea dei membri della Taiwan Semiconductor Industry Association, alcune restrizioni e regolamenti supplementari previsti dal CHIPS and Science Act degli Stati Uniti sono “inaccettabili” e potrebbero dissuadere potenziali partner dal richiedere la sovvenzione. Per ricevere i fondi del CHIPS Act, le aziende produttrici di chip devono accettare di non espandere la capacità produttiva in “paesi stranieri di interesse”: in primis la Repubblica Popolare Cinese. Ciò significa che per un decennio le aziende coinvolte nel programma non possono impegnarsi in attività di ricerca congiunte o di licenza che coinvolgano tecnologie sensibili. Non un grande favore ad aziende taiwanesi e sudcoreane, da tempo attive in Cina continentale. Proprio per questo, Taipei e Seul sembrano meno convinte del Giappone a seguire le restrizioni anticinesi volute da Washington. Liu ha spiegato che dovranno essere condotti ulteriori negoziati con gli Stati Uniti affinché le attività delle aziende taiwanesi come TSMC non subiscano ripercussioni negative.
Ancora più negativo Tsai di Mediatek, altro colosso taiwanese del comparto. “I controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti contro il settore dei chip avanzati della Cina nell’ottobre dello scorso anno hanno spinto i fondi del governo cinese a confluire nel settore della tecnologia dei chip maturi, e crediamo che le piccole e medie aziende di progettazione di chip di Taiwan saranno probabilmente le prime ad essere colpite”, ha dichiarato Tsai allo stesso evento in cui ha parlato Liu. “In questo momento, l’industria taiwanese della progettazione di circuiti integrati si trova ad affrontare preoccupazioni nascoste, come la rapida ascesa degli operatori cinesi, la grave carenza di talenti nazionali e i pochi operatori che investono in tecnologie/prodotti avanzati, ed è urgente intraprendere azioni attive per consolidare l’attuale vantaggio competitivo e la posizione di mercato”, ha aggiunto Tsai.
Del mancato gradimento per le politiche statunitensi ha parlato anche Huang di Powerchip. “Il rapporto con gli Usa è vitale, ma la Cina è il nostro mercato principale. Spediamo più chip lì che in qualsiasi altro posto. Gli Usa vogliono disperatamente controllare l’industria e la nostra tecnologia. Ma Taiwan è Taiwan, non fa parte degli Stati Uniti”, ha detto Huang in un’intervista a La Stampa. Vogliamo mantenere la nostra democrazia, ma non siamo nemici della Cina e vogliamo continuare a farci affari”.
Gli scricchiolii nell’alleanza sui chip a guida americana sono molto significativi, anche perché arrivano dallo snodo cruciale per la fabbricazione e assemblaggio. Le aziende taiwanesi controllano oltre il 65% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei semiconduttori. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo: i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri. Praticamente la totalità di questi se si aggiungono quelli sudcoreani. Anche gli operatori di Seul, tra cui Samsung e SK, non sono per niente entusiasti delle restrizioni statunitensi, anche perché non si accompagnano a un sostegno concreto nei loro confronti. Anzi, la sensazione diffusa anche se per ora rimane più sottotraccia, è che dalle parti di Washington si punti a entrare in possesso di informazioni sensibili su linee produttive e clienti, perseguendo un’autosufficienza tecnologica che nel settore dei chip rischia di essere, Morris Chang docet, un “esercizio futile”. Ma compiendolo, si rischia intanto di far traballare la globalizzazione e scalfire il cosiddetto “scudo di silicio” di Taiwan.
Inserendo il codice che hai trovato nel numero cartaceo del nuovo numero di eastwest puoi scaricare anche la versione digitale in PDF gratis