Il tempismo dell’incontro in terra thailandese è interessante. A due settimane dalle elezioni presidenziali di Taiwan, dopo l’intensificarsi della crisi del Mar Rosso e in previsione della prossima visita in Corea del Nord di Vladimir Putin.
La prima volta si sono incontrati a maggio 2023, a Vienna, tre mesi dopo la crisi del pallone aerostatico che ha portato al rinvio della visita a Pechino del Segretario di Stato americano Antony Blinken. E hanno riaperto ufficialmente il dialogo tra Stati Uniti e Cina. Di lì a poco una serie di componenti dei due governi hanno effettuato viaggi incrociati. La seconda volta si sono visti a Malta, lo scorso settembre. È stato l’incontro che ha posto le basi per il summit di San Francisco tra i due leader, Xi Jinping e Joe Biden. Questa volta si sono parlati, per oltre 12 ore, a Bangkok, in Thailandia. E hanno concordato su un nuovo colloquio, stavolta virtuale, tra Biden e Xi.
I protagonisti sono sempre loro due: Jack Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e Wang Yi, ministro degli Esteri cinese nonché capo della diplomazia del Partito comunista. Quando parlano loro, la comunicazione è davvero strategica. Non è un caso che i primi due incontri, quelli di Vienna e di Malta, fossero stati annunciati solo a cose fatte.
In molti hanno infatti legato l’efficacia dei colloqui alla loro forma privata, lontani da sguardi indiscreti e dalle domande dei giornalisti. Sono loro a decidere le carte che poi i leader si giocano a favore di telecamere.
Stavolta, l’annuncio è arrivato alla vigilia, anche perché la notizia era stata diffusa dal Financial Times e dal Wall Street Journal. Il tempismo dell’incontro in terra thailandese è interessante. A due settimane dalle elezioni presidenziali di Taiwan, dopo l’intensificarsi della crisi del Mar Rosso e in previsione della prossima visita in Corea del Nord di Vladimir Putin.
Sono presumibilmente questi tre, i dossier internazionali ad aver dominato le 12 ore di discussione di venerdì 26 e sabato 27 gennaio. Rigorosamente a porte chiuse e senza conferenza stampa. Nel loro resoconto, gli Stati Uniti forniscono maggiori dettagli sulle relazioni bilaterali, evidentemente sui fronti più prodighi di progressi. “L’incontro rientra nello sforzo di mantenere aperte le linee di comunicazione e di gestire responsabilmente la concorrenza nelle relazioni, come stabilito dai leader”, si legge nel comunicato della Casa Bianca.
Sullivan ha sottolineato che, sebbene Stati Uniti e Cina siano in competizione, “entrambi i Paesi devono evitare che la competizione sfoci in conflitto o scontro”. Le due parti hanno discusso le prossime tappe di una serie di aree di cooperazione discusse a Woodside da Biden e Xi riconoscendo “i recenti progressi nella ripresa delle comunicazioni militari” e hanno sottolineato l’importanza di mantenere questi canali.
Hanno inoltre discusso i prossimi passi per l’organizzazione di un dialogo tra Stati Uniti e Cina sull’intelligenza artificiale in primavera. Non solo. Sullivan e Wang hanno accolto con favore i progressi nella cooperazione sulle questioni relative agli stupefacenti, tra cui il lancio del gruppo di lavoro Usa-Cina in programma il 30 gennaio. Al centro, ovviamente, il fentanyl. Non a caso, si danno già per probabili nuove visite di membri dell’amministrazione Biden a Pechino: su tutti, Blinken e Yellen.
Wang ha invece sottolineato che quest’anno ricorre il 45esimo anniversario dell’avvio dei rapporti diplomatici tra Pechino e Washington. “Le due parti dovrebbero cogliere questa opportunità per riassumere l’esperienza e trarre insegnamenti, trattarsi alla pari invece che in modo condiscendente, costruire un terreno comune e accantonare invece di evidenziare le differenze, e rispettare invece di minare gli interessi fondamentali dell’altra parte”, ha detto Wang. “Entrambe le parti dovrebbero lavorare insieme per il rispetto reciproco, la coesistenza pacifica e la cooperazione win-win, trovando il modo giusto per far andare d’accordo Cina e Stati Uniti”, ha osservato.
Ma nel 2024 ricorre anche il 45esimo anniversario del Taiwan Relations Act e Washington pare intenzionata a mandare diversi segnali di rassicurazione a Taipei. La scorsa settimana si sono registrati sia il primo passaggio di una nave militare americana sullo Stretto, sia la prima delegazione bipartisan del Congresso, dopo le elezioni presidenziali taiwanesi del 13 gennaio. La vittoria di Lai Ching-te, il candidato più inviso a Pechino, potrebbe mettere ulteriormente a prova la tenuta dello status quo. Non a caso, proprio Taiwan è il tema su cui la parte cinese si dilunga di più. Durante l’incontro, Wang ha sottolineato che la questione di Taiwan “è un affare interno della Cina” e che le elezioni “non possono cambiare il fatto fondamentale che Taiwan fa parte della Cina. L’indipendenza di Taiwan rappresenta il rischio maggiore per la pace e la stabilità tra le due sponde dello Stretto e la sfida più grande per le relazioni tra Cina e Stati Uniti. Gli Stati Uniti devono rispettare il principio di una sola Cina e i tre comunicati congiunti Cina-Usa, tradurre in pratica il loro impegno a non sostenere l’indipendenza di Taiwan e sostenere la riunificazione pacifica della Cina”.
Una richiesta in linea con quella espressa da Xi a Biden a novembre. Sullivan si è fermato al riconoscere “l’importanza di mantenere pace e stabilità sullo Stretto di Taiwan”, senza aggiungere dettagli. Nelle scorse settimane, Biden ha ribadito che gli Usa non sostengono l’indipendenza di Taiwan e per la prima volta dopo tanto tempo un comunicato di un funzionario della Casa Bianca alla vigilia delle elezioni a Taipei ha evidenziato che Washington “non si oppone a qualsiasi risoluzione della questione, purché sia pacifica”. Le scintille sul tema sembrano comunque destinate a restare, visto che nei prossimi mesi Pechino potrebbe aumentare la pressione militare, diplomatica e commerciale in concomitanza con l’insediamento del presidente eletto Lai, previsto per il 20 maggio.
Molti meno dettagli sono stati forniti dalle due parti sugli altri dossier, ma senz’altro Sullivan avrà provato a capire il ruolo che la Cina sta giocando o vorrà giocare sulle tensioni nella penisola coreana, che hanno raggiunto un nuovo picco dopo l’emendamento costituzionale approvato da Kim Jong-un secondo cui la Corea del Sud viene identificata come “nemico principale e immutabile”. Segnale che il dialogo e i negoziati sono più lontani che mai. La visita di Putin potrebbe portare ulteriori sviluppi, preoccupanti di certo per Washington ma forse in parte anche per Pechino. Menzionato anche il Myanmar, visto che a tre anni dal golpe militare la guerra civile continua a infuriare, mettendo peraltro a repentaglio anche la sicurezza della frontiera cinese.
Ma al centro dei colloqui, sostengono Wall Street Journal e Financial Times, c’è stato anche e forse soprattutto il Mar Rosso. Washington avrebbe intensificato le richieste a Pechino di esercitare la propria influenza sull’Iran per fermare gli attacchi degli Houthi. Ufficialmente, la Cina non si è mossa e ha bilanciato attentamente le sue parole. Da una parte chiedendo di fermare gli attacchi contro le navi civili, dall’altra criticando i raid e l’uso della forza contro gli Houthi sul territorio dello Yemen.
Ma secondo la Reuters, in un recente viaggio in Iran l’alto diplomatico Liu Jianchao avrebbe chiarito che qualora gli interessi cinesi venissero colpiti sul Mar Rosso ci sarebbero conseguenze sui rapporti bilaterali. Nonostante le rassicurazioni degli Houthi sulle navi cinesi e russe, i costi di spedizione dai porti cinesi sono più che raddoppiati nel giro di un mese e mezzo. Allo stesso tempo, la Cina non ha interesse a perdere le posizioni scalate nella regione a livello commerciale e diplomatico, officiando tra l’altro la ripresa delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita e ponendosi come sostanziale portavoce del mondo musulmano sulla questione palestinese.
Difficile che tutto questo sia rimasto fuori dai colloqui tra Wang e Sullivan, il binario più strategico dei rapporti tra le due potenze.